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di Michele Paris
Con poco meno del 53% dei consensi, il candidato della sinistra unita sotto le insegne del Frente Amplio, l’ex tupamaro José “Pepe” Mujica, si è aggiudicato il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Uruguay. Il 74enne ex senatore socialista ha sconfitto al secondo turno il candidato conservatore Luis Alberto Lacalle, succedendo così al popolare presidente uscente Tabaré Vázquez, impossibilitato a cercare un secondo mandato dalla Costituzione del piccolo paese sudamericano. Nonostante i suoi precedenti, Mujica nei prossimi cinque anni non dovrebbe discostarsi significativamente dal suo predecessore, protagonista di un percorso di riforma progressista all’insegna del pragmatismo che ha ridotto il livello di povertà e disoccupazione senza intaccare la fiducia degli investitori.
Dopo la tornata elettorale del primo turno lo scorso mese di ottobre, Mujica aveva raccolto la maggioranza dei voti, senza tuttavia superare la soglia del 50%. Alle sue spalle si erano piazzati Lacalle, presidente uruguaiano dal 1990 al 1995, e Pedro Bordaberry, figlio dell’ex dittatore Juan Maria Bordaberry che guidò il paese negli anni Settanta. I voti dei due candidati sconfitti, appartenenti ai due partiti che avevano monopolizzato la scena politica uruguaiana dall’indipendenza fino al 2005 (Partido Nacional e Partido Colorado), avevano fatto temere un possibile ritorno di Lacalle al secondo turno. Già dai primi exit polls si era però intuito il successo di Mujica, il quale grazie anche agli elevatissimi indici di gradimento di Tabaré Vázquez ha conquistato la presidenza con un margine tra i sette e i dieci punti percentuali sul suo rivale.
Proprio cinque anni fa, la coalizione composta da una quarantina di raggruppamenti politici che va dai trotskisti ai cristiano-democratici, creata nel 1971, era riuscita ad interrompere il dominio dei due partiti principali. Nel Frente Amplio erano successivamente confluiti gli ex ribelli tupamaro come Pepe Mujica, vera e propria forza trascinatrice del raggruppamento politico. Costretto in carcere per tredici anni durante la dittatura, il presidente eletto dell’Uruguay ha condotto una campagna elettorale all’insegna della moderazione, distanziandosi dal suo passato di guerrigliero che ha invece quasi sempre occupato le cronache a lui dedicate dalla stampa internazionale.
In un’intervista rilasciata la scorsa estate, Mujica aveva infatti dichiarato di non credere più alle “stupide ideologie degli anni Settanta”, riferendosi alla “predilezione incondizionata per tutto ciò che è pubblico, al disprezzo per gli uomini d’affari e all’odio per gli Stati Uniti d’America”. L’esperienza del carcere, a suo dire, ha contribuito in maniera decisiva al crollo dell’illusione di poter conseguire il cambiamento sociale tramite la lotta armata rivoluzionaria.
Nonostante le differenti personalità di Tabaré Vázquez e Pepe Mujica, prudente e schivo il primo quanto spontaneo e aperto quest’ultimo, le linee di politica economica del governo uruguaiano dovrebbero rimanere pressoché inalterate. L’enfasi sulla giustizia sociale che ha caratterizzato gli ultimi cinque anni ha d’altra parte contribuito ad abbassare il livello di povertà in Uruguay dal 32% del 2004 al 20% attuale, così come la crescita economica è oscillata tra il 7 e il 12% fino all’anno scorso. Il tasso di disoccupazione è ugualmente sceso dal 21% del 2002 all’8% del 2009, mentre a dispetto della crisi globale l’economia del paese ha fatto segnare una modesta crescita anche nell’anno in corso.
Artefice dei successi del presidente uscente è stato il ministro dell’Economia Danilo Astori, leader della formazione social-democratica Asamblea Uruguay (affiliata al Frente Amplio), appena eletto vice-presidente di Mujica. Grazie ad una tassa progressiva che ha gravato sui redditi medio-alti, Astori e Vázquez hanno potuto così consolidare una crescita relativamente equa nel paese, mettendo in atto una politica redistributiva che, tra l’altro, ha allargato considerevolmente la copertura del sistema sanitario. Allo stesso tempo, alcuni progressi importanti si sono registrati sul fronte delle indagini sui crimini della dittatura e dei diritti civili.
Se è innegabile che la presenza alla guida dell’Uruguay di un ex guerrigliero tupamaro farà percepire a molti una possibile maggiore sintonia con i governi di Hugo Chávez o di Evo Morales, è assai più verosimile che la presidenza di Mujica sarà all’insegna della continuità con quella del suo predecessore. Infatti, sia nell’ambito della politica interna, sia nei rapporti con gli altri paesi sudamericani, lo stesso Mujica ha più volte sottolineato di voler percorrere una “via di mezzo”, ispirandosi, per sua stessa ammissione, alla moderazione del potente vicino brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva. Ma, quali che saranno le inclinazioni particolari del nuovo Presidente, il voto conferma come l’Uruguay prosegue il suo cammino democratico e progressista, rafforzando l’asse democratica del continente che ha deciso, da diversi anni, di percorrere la strada dell’integrazione latinoamericana e dell’indipendenza da Washington.
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di Fabrizio Casari
La farsa elettorale in Honduras è andata regolarmente in onda. Presenti i candidati, gli osservatori internazionali, i paesi amici e le urne, hanno declinato l’appuntamento solo il 65-70% degli elettori. E’ l’astensione più alta nella storia del Paese. Cosa volete che sia? Non si può avere tutto. E’ stato eletto Porfirio Lobo, con più del 56% dei voti quando lo scrutinio era già concluso nella metà dei seggi. Lobo avrebbe sconfitto Elvin Santos, candidato liberale. Le differenze tra i due? Solo nome e cognome, non si perda tempo nel carcare altri elementi quali idee o programmi. Il fantoccio Micheletti ha assicurato che cederà il potere “senza nessun condizionamento”. Ci mancherebbe altro: non di cessione di potere si tratta, nel caso di specie, ma esclusivamente di subentro di compare.
Ma se la partecipazione al voto é stata piuttosto rachitica, non per questo il sistema di sicurezza destinato a rimarcare chi comandava e chi comanderà ha lasciato a dediderare. Non sono stati lesinati sforzi per impedire che la farsa potesse avere un esito diverso dal previsto. Le cinquemila urne disseminate nella republica bananera erano sorvegliate da 31.000 soldati e militari, con l’aggiunta di 5.000 riservisti che nessuno conosce e 800 paramilitari definiti “esperti” statunitensi di origine latina. La dittatura, evidentemente, si sentiva sicura del consenso popolare. A leggere il giornale argentino Clarin, gli 800 “esperti” (chi erano? chi li ha reclutati? a chi rispondevano?) erano distribuiti nei punti chiave del paese ed erano mascherati da civili honduregni, "pronti ad evitare atti di violenza e a controllare i valichi di frontiera con il Nicaragua".
Il companatico per tanto sforzo bellicista era stato acquistato nei giorni scorsi dal fantoccio Micheletti: secondo quanto riportato da una denuncia di Amnesty international, nella settimana precedente il voto la dittatura golpista aveva acquistato dagli Stati Uniti diverse armi, alcuni camion blindati, 10.000 granate di gas lacrimogeno e 5000 proiettili per le stesse da utilizzare “in caso d’emergenza”. Il costo? Dodici milioni di dollari. Per non sprecare completamente tanto ben di dio, a San Pedro Sula, una manifestazione pacifica a favore dell’astensione é stata attaccata e repressa violentemente. Una persona é scomparsa e decine di altri manifestanti sono stati picchiati ed arrestati.
Il Fronte Nazionale di Resistenza ha quindi politicamente vinto lo scontro con i gorilla golpisti, che hanno goduto dell’appoggio della minoranza della popolazione e dell’indifferenza o ostilità della maggioranza. Il legittimo, deposto con la forza, Presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya, ha chiesto alla comunità internazionale di disconoscere la legittimità delle elezioni e del loro esito. I governi democratici del continente, infatti, non lo faranno, difficile del resto pensare a libere elezioni con un paese con i carri armati nelle strade, in formale stato d’assedio e con il coprifuoco vigente. Cuba, Nicaragua, Guatemala, Repubblica Dominicana, Bolivia, Ecuador, Venezuela, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay non hanno nessuna intenzione di riconoscere né la giunta golpista, né la legittimità delle elezioni, figuriamoci il vincitore della partita truccata. Il Messico aveva annunciato la sua posizione ad urne chiuse. Vedremo se si allineerà con lo Zio Sam o con l'America Latina.
Ma il regime golpista non é più solo come sembrava (a chi non voleva leggere bene) immediatamente dopo il golpe. Hanno reiterato l’appoggio ai golpisti ed alla loro farsa elettorale il governo degli Stati Uniti, di Panama e Perù. Lo stesso Oscar Arias, il costaricense scelto dall’Organizzazione degli Stati Americani come “mediatore” nella crisi, si era pronunciato positivamente nei confronti della chiamata alle urne da parte dei golpisti. Quella di mediare parteggiando per una delle due parti, del resto, é caratteristica storica di Arias, già sperimentata ai tempi degli accordi di pace tra legttimo governo sandinista e bande terroristiche definiti "contras". E a Micheletti non poteva far mancare il suo appoggio lo Stato d’Israele, che quando sente nell’aria profumo di militari contro i diritti civili, sente che ci si trova di fronte a qualcosa che la riguarda e non riesce a trattenere l’emozione ed il trasporto.
L’ambasciatore israeliano in Honduras, Eliahu Lòpez, aveva informato alla vigilia del voto che “il governo di Tel Aviv appoggia le elezioni e il vincitore delle stesse, perché crede che il voto sia il cammino più adeguato per andare avanti”. Quando il diritto internazionale é schiacciato, Israele non manca mai di far sentire il suo applauso.
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di Eugenio Roscini Vitali
Mancano meno di due anni alle elezioni presidenziali egiziane, alla scadenza di un mandato che dura ininterrottamente dal 14 ottobre 1981, da quando l’ex ufficiale dell’aeronautica militare egiziana, Hosni Mubarak, prese il posto di Anwar al-Sadat, assassinato pochi giorni prima durante la sfilata commemorativa del conflitto arabo-israeliano del 1973.
Il 31 ottobre scorso, durante il discordo di apertura del VI Congresso del Partito Nazionale Democratico (Pnd),il rais avrebbe dovuto ufficializzare la sua uscita di scena, consacrare quello che può essere definito come “un caso di democrazia ereditaria” ed annunciare la nomina a candidato presidente del figlio Gamal. Ma non è andata così. La questione, che molti davano per scontata, non era in agenda e, nonostante Mubarak abbia accuratamente evitato ogni riferimenti ad una sua ricandidatura, dietro le quinte si è tornati a parlare di quinto mandato e di un “faraone” pronto a governare fino al 2016.
Senza fare alcun accenno alla sistematica violazione dei diritti umani e alla povertà che stritola sempre più egiziani, Mubarak ha lodato le riforme economiche avviate dal suo governo ed ha parlato di elezioni legislative, di democrazia e di libertà. Crescita demografica, sviluppo sociale, infrastrutture, agricoltura e sicurezza energetica come elemento base per la costruzione del futuro: questi i temi affrontati dal presidente egiziano che ha ribadito l'intenzione di rilanciare i programmi congelati negli anni ottanta e dare il via alla realizzazione di diversi impianti per la produzione di energia nucleare. Un discorso rivolto al futuro quindi, che lascia intravedere una successione lenta e indolore e che assicura un Paese stabile e fedele agli schemi imposti da Washington agli alleati mediorientali.
Con i suoi 81 anni il presidente però non sembra più avere lo stesso smalto di un tempo ed alcuni recenti episodi di politica interna lasciano spazio a nuove e diverse ipotesi, supposizioni che non possono non tenere in considerazione il fatto che in Egitto il Partito Nazionale Democratico di Mubarak è una forza egemone e che la pressioni sui suoi principali rivali, i Fratelli Musulmani, non permette la costruzione di un’opposizione in grado di sostenere una valida alternativa alla politica del compiacimento imposta dagli Usa.
Che qualche cosa bolla in pentola però è sicuro: sopravvissuto ad almeno sei attentati, Mubarak sta diventando sempre più invisibile, presente solo nei numerosi cartelloni che affollano la capitale e negli slogan che parlano di leadership, transizione e futuro; quasi a voler alimentare la domanda che molti egiziani si pongono: quale domani?
Per il momento le possibilità che il popolo del Nilo imbocchi un percorso più democratico sono piuttosto scarse, soprattutto perché il presidente egiziano non sembra disposto a lasciare la scena senza prima aver definito chi governerà il Paese nei prossimi decenni. Puntando sulle nuove leve, l’amico dell’Occidente non lascia adito a dubbi e indica nel figlio l’unico possibile erede: “Con i suoi giovani, i suoi intellettuali, i suoi quadri e le sue strutture, il partito ha una visione chiara del futuro e propone un progetto che tiene conto delle nuove realtà egiziane”. Oltre a quello di Gamal, attuale segretario dell'ufficio politico del Pnd, i nomi più ricorrenti alla successione sono tre: il Segretario della Lega araba, Amr Musa; il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), Mohammed ElBaradei; il capo dell’Egyptian general intelligence services (Egis), il generale Omar Suleiman.
Il settantatreenne Musa è sicuramente il meno quotato: ambasciatore egiziano alle Nazioni Unite e ministro degli Esteri nel governo Atef Sedki, è inviso a Washington per le sue posizioni nei confronti dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e sulla politica Americana in Medio Oriente. Stessa cosa per il Premio Nobel per la pace, Mohammed El Baradei, che pur avendo una grande esperienza internazionale - ha iniziato la sua carriera al ministero degli Esteri del Cairo e prima di essere nominato direttore dell’Aiea ha lavorato a lungo nelle missioni permanenti egiziane a New York e Ginevra - non sembra in grado di affrontare i problemi di politica interna e potrebbe pagare quello che l’occidente ed Israele ha spesso definito come “un approccio troppo soft nei confronti dei piani nucleari dell’Iran”.
Omar Suleiman è quello che sicuramente vanta più credito: un presidente di transizione in grado di garantire solidità al regime e disponibile a collaborare con Israele nella guerra contro Hamas; un militare che Washington considera come il miglior capo dei servizi segreti mediorientali e famoso per aver imposto a Mubarak la limousine che lo avrebbe salvato da un attentato avvenuto ad Addis Abeba nel 1995.
In Egitto i militari conquistarono il potere il 23 luglio 1952, con il colpo di Stato dei Liberi Ufficiali del generale Muhammad Neghib e del colonnello Gamal Abd al-Nasser. Ad iniziare il processo di allontanamento delle Forze armate dalla politica fu Anwar al-Sadat, un percorso che Mubarak intensificherà e sul quale punterà per epurare tutti coloro che verranno ritenuti infiltrati o sospetti islamisti. Nonostante questo, per oltre mezzo secolo l’esercito è stato a fianco dei sui presidenti, tutti ex militari che nelle Forze armate hanno trovato la sponda per instaurare un potere quasi assoluto.
Negli ultimi anni però questo rapporto si è incrinato, non tanto con i vertici che, lusingati dai privilegi economici, hanno deciso di prendere le distanze dalla vita politica, quanto con la base, frustrata da un regime che alla Difesa ha preferito il Ministero degli Interni e la polizia, l’organo che più di ogni altro ha guadagnato potere e benefici. Per indebolire ulteriormente il peso dei militari, nel 2007 il Partito Nazionale Democratico ha costituito un Consiglio Supremo, un organo politico all’interno del quale dovrebbe essere scelto il candidato per le prossime presidenziali, una scelta bocciata anche dagli ex-ufficiali che oggi ricoprono incarichi di prestigio nell’amministrazione pubblica e da tutti coloro che in un Paese a “partito unico” (il Pnd detiene il 68,5% dei seggi) non condividono questa forma di nepotismo politico.
Con Mubarak le leggi d’emergenza sono state rimpiazzate da quelle anti-terrorismo e molti poteri sono passati nelle mani delle forze di sicurezza che negli anni Novanta il regime ha usato per debellare le organizzazioni dei militanti islamici e che oggi impiega per colpire i suoi principali nemici, i Fratelli Musulmani. Ufficialmente fuorilegge, il movimento da Mohammed Mahdi Akef è infatti ritenuto più pericoloso degli stessi jihadisti che, nonostante gli attentati e gli attacchi terroristici, possono sempre contare sulla benevolenza del rais.
Il peso politico è notevole e nonostante le divisioni interne c’è chi giura che sia in crescita: alle legislative del dicembre 2005 i deputati indipendenti eletti sono stati 88, tutti riconducibili al movimento fondato nel marzo 1928 dall’insegnate egiziano al-Hasan al-Banna; una vittoria che equivale al 20% dei 454 seggi totali e che fa dell’organizzazione islamica, che ha sposato la causa delle classi in difficoltà, il secondo soggetto politico del Paese.
Per i Fratelli musulmani, che pur non avendo alcun interesse per il potere puntano comunque a trasformare l’Egitto in una democrazia islamica, l’elezione di Gemal potrebbe rappresentare un’occasione unica, la svolta che molti giovani attendono da tempo. In cambio dell’appoggio elettorale, figlio del rais, primo presidente proveniente dalla società civile dopo oltre mezzo secolo di democrazia con le stellette, potrebbe concedere una contropartita politica: la garanzia di uscire dall’ombra e tornare nuovamente a correre ufficialmente per le elezioni parlamentari.
Un rischio che per ora Hosni Mubarak non vuol correre, soprattutto pensando al fatto che una volta in parlamento la Fratellanza potrebbe raddoppiare il numero di consensi, cosa non nuova visti i successi di Hezbollah ed Hamas, e nell’arco di poche legislature condizionare un sistema politico che Washington considera tra i più affidabili del mediorientale.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Una donna velata da un burqa nero, di cui si intravede solo uno sguardo minaccioso, con dei minareti, rappresentati come missili scuri, che proiettano le loro ombre su una bandiera svizzera stesa. È questa l'immagine scelta dalla destra nazional-conservatrice svizzera (SVP) per la campagna anti-minareti promossa in vista del referendum del 29 novembre, e la polemica è già alle stelle. Il razzismo espresso dai manifesti della SVP va a coronare una situazione di per sè già tesa: il referendum di domenica potrebbe vietare per legge la costruzione di nuovi minareti su suolo elvetico e ciò costituirebbe, per molti, un’offesa alla libertà con la “elle” maiuscola.
L'iniziativa è stata lanciata nel maggio 2007 da alcuni confederati di destra contrari alla costruzione di tre minareti in altrettante località svizzere. I cittadini hanno raccolto i voti necessari a indire il referendum: l'SVP, la maggior forza politica in Svizzera, è intervenuta a sostegno dell’iniziativa soltanto in un secondo momento. La vittoria del "sì" porterebbe all'introduzione nella Costituzione Federale del divieto di costruzione di nuovi minareti, creando una situazione paradossale in uno stato "neutro" e tollerante come la Confederazione Elvetica.
I manifesti discriminanti diffusi dalla SVP, in realtà, sono soltanto la punta dell'iceberg di un problema molto più profondo. Secondo alcuni, il referendum già di per sé costituisce un insulto alla libertà di professare e di espressione dei cittadini. Il governo elvetico si è detto contrario all’iniziativa, ma - come si suol dire - il dado è ormai tratto e i media di tutto il mondo islamico sono ora puntati verso la Svizzera.
"Noi svizzeri viviamo nel cuore dell'Europa, ma costituiamo un caso del tutto particolare" ha detto al quotidiano tedesco Tagesspiegel, Jean Ziegler, sociologo svizzero e professore alla Sorbona di Parigi. "Centoquindicimila svizzeri hanno votato per indire il referendum: già questo è sintomo di quella che io definisco la patologia elvetica". Secondo Ziegler, la causa di questa "iniziativa carica di intolleranza" è la paura: "Per gli oppositori, il minareto simbolizza la pretesa di potere dell'Islam sulla Svizzera". Paura dell'Islam, certo, che a volte però diventa - erroneamente - sinonimo di paura del terrorismo.
A questo proposito si è pronunciato anche Youssef Ibram, l'Imam della moschea di Ginevra, il più grande luogo di culto islamico della Svizzera. Ibram sa che non si tratta di un semplice referendum contro i minareti: la controversia è il manifestarsi di un pregiudizio latente tanto radicato quanto pericoloso. "Noi non siamo responsabili per Bin Laden, non siamo responsabili per Al Qaida, non siamo responsabili per i talebani in Afghanistan", ha sottolineato Youssef Ibram. "Noi siamo responsabili solo di noi stessi".
Ginevra, tra l'altro, è una delle città che hanno permesso l'affissione dei manifesti incriminati: ce ne sono parecchi, anche vicino alla moschea stessa, e non fanno che aggravare una situazione già molto tesa. Qualche giorno fa, alcuni fanatici oppositori dell'Islam hanno lanciato delle pietre contro la facciata della moschea ginevrina, inaugurata nel 1978 dal re dell'Arabia Saudita in persona: l'attacco non ha provocato nessun ferito, ma ha reso necessario lo stazionamento costante di una pattuglia della polizia svizzera di fronte al luogo di culto. Altre città, come Basilea, hanno proibito la diffusione dei manifesti.
Finora, i musulmani hanno costruito quattro minareti in territorio svizzero. Su quasi 8 milioni di abitanti, la Svizzera conta più di trecentomila musulmani: si tratta di una minoranza superiore al 4 per cento. Dopo il cristianesimo (cattolici e protestanti), l'Islam è la seconda religione professata nella Confederazione. Tanto per fare un confronto: gli islamici, in Italia, raggiungono uno sparuto 1,6 percento.
Il problema, quindi, va oltre i puri e semplici minareti: il referendum tocca sfere della coscienza svizzera (ma anche europea) particolarmente vulnerabili in questi tempi quali tolleranza, razzismo, paura del diverso e pregiudizio. E offrono uno spunto a riflettere sui fanatismi religiosi, di qualsiasi colore o razza essi siano.
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di Michele Paris
A meno di due settimane dalla cerimonia ufficiale per la consegna del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama e la sua amministrazione hanno annunciato che gli Stati Uniti continueranno ad abbracciare la politica di George W. Bush sulla proliferazione delle mine anti-uomo, rifiutando di firmare il trattato internazionale che ne sancisce il bando. La persistente mancata adesione da parte degli USA ad un trattato sottoscritto ormai da 156 paesi, tra cui tutti gli altri membri della NATO, non fa altro che alimentare la frustrazione di buona parte degli elettori americani che in questi primi mesi della presidenza Obama, nonostante alcuni innegabili progressi, hanno visto ribaditi puntualmente non pochi metodi ed eccessi che avevano caratterizzato i due sciagurati mandati del suo predecessore.
La decisione di non firmare il cosiddetto Trattato di Ottawa è stata resa nota nel corso del briefing quotidiano al Dipartimento di Stato dal portavoce Ian Kelly, il quale ha spiegato che al termine di una revisione della propria politica, il governo degli Stati Uniti ha deciso non apportare modifiche in questo ambito alla strategia delineata dalla precedente amministrazione. Secondo Washington, la firma del trattato sulle mine anti-uomo non sarebbe compatibile con le esigenze della sicurezza nazionale americana e dei suoi alleati. Successivamente, il ministero degli Esteri USA ha chiarito che il processo di revisione sull’utilizzo delle mine è in realtà tuttora in corso, ma che in ogni caso il suo esito finale non porterà alla ratifica del trattato.
L’annuncio dell’invio per la prima volta di osservatori americani alla conferenza sulla revisione del trattato entrato in vigore nel 1999, che si terrà a Cartagena, in Colombia, dal 29 novembre al 4 dicembre prossimo, non ha placato le proteste delle organizzazioni umanitarie, né di alcuni parlamentari democratici. I più duri critici della decisione americana sono stati il senatore Patrick Leahy e il deputato Jim McGovern, entrambi tra i principali sostenitori del trattato al Congresso, i quali non hanno usato mezze misure per definire l’atteggiamento del loro governo un “errore” e un “insulto” nei confronti della comunità internazionale.
La posizione dell’amministrazione Obama sul bando di ordigni che fanno migliaia di vittime ogni anno - molte delle quali bambini - rappresenta anche una vittoria del Pentagono e dell’establishment militare americano, tradizionalmente ostile al trattato. La vicenda dimostra inoltre quanto negli USA rimanga estremamente diffuso il senso di diffidenza nei confronti dei trattati internazionali, visti come una limitazione alla libertà di azione americana sullo scacchiere mondiale.
Alle richieste dei vertici militari, Obama d’altra parte sta cedendo in maniera evidente in queste settimane anche su una delle questioni più delicate all’ordine del giorno. A dispetto della crescente avversione degli americani per il conflitto in Afghanistan, l’amministrazione democratica continua infatti a definirlo come una “guerra giusta” o “di necessità” e si appresta ad inviare altri 30.000 uomini a partire dal prossimo anno, rischiando una ulteriore destabilizzazione di un paese già completamente nel caos.
Se l’escalation militare in Afghanistan era quanto meno già contenuta nel programma elettorale dell’allora candidato democratico alla presidenza, su molti altri temi si è di fatto assistito ad una vera e propria sconfessione delle promesse di cambiamento. A dispetto della retorica di Obama sul multilateralismo, il ristabilimento della cooperazione internazionale o l’inversione di rotta rispetto ai metodi autoritari promossi nella lotta al terrorismo dal duo Bush-Cheney, in molti casi i miglioramenti sono risultati, nella migliore delle ipotesi, impercettibili.
La realtà con cui Obama una volta alla Casa Bianca si è scontrato è sembrata essere insomma quella di un sistema di potere consolidato che si estende ben al di là di un’amministrazione repubblicana ormai delegittimata agli occhi di gran parte dei cittadini americani. Malgrado la schiacciante vittoria elettorale sul rivale John McCain e l’ampia maggioranza democratica nei due rami del Congresso, Obama nel primo anno da presidente non ha saputo o voluto allontanarsi completamente dalla direzione intrapresa dagli Stati Uniti negli ultimi otto anni, sebbene il mandato popolare meritatamente conquistato nel novembre del 2008 avesse suggerito precisamente una svolta chiara e inequivocabile.
A partire dal suo insediamento alla Casa Bianca è iniziato allora un percorso accidentato, lungo il quale Obama da un lato ha lanciato segnali formalmente importanti, sia pure talvolta troppo timidi nella sostanza, come la chiusura del carcere di Guantánamo, il dialogo con i paesi rivali, la riforma di un sistema sanitario immorale e di un settore finanziario fuori controllo, così come la recentissima promessa di impegnare il proprio paese nella lotta al cambiamento climatico; dall’altro, in molti casi si è ritrovato a ricalcare le impronte lasciate dalla disprezzata amministrazione Bush.
Sul fronte dell’America Latina, ad esempio, i segnali incoraggianti dei primi tempi sono svaniti da qualche mese a questa parte. L’improvviso avallamento del golpe in Honduras ai danni del legittimo presidente, Manuel Zelaya, con l’annuncio del riconoscimento delle elezioni nonostante il mancato reinsediamento di quest’ultimo, rischiano di compromettere la cooperazione promessa con gli altri paesi sudamericani. Allo stesso modo, la firma di un accordo con il governo di Álvaro Uribe lo scorso mese di ottobre per ottenere l’accesso a sette basi militari in Colombia minaccia la stabilità e la pace dell’intero continente.
Alle parole di disgelo pronunciate da Obama nei confronti di Cuba e la cancellazione di alcune restrizioni relative ai viaggi e all’invio di rimesse in denaro verso l’isola, poi, ha fatto seguito la firma sul prolungamento dell’embargo per un altro anno, a dispetto del voto di condanna quasi unanime dell’ONU per il diciottesimo anno consecutivo. Così, sotto la spinta dei parlamentari anti-castristi, i passi avanti promessi verso la normalizzazione dei rapporti con L’Avana si sono risolti per ora in un nulla di fatto. E mentre Obama annuncia di attendere "segnali" da L'Avana, quelli che invia da Washington sono pessimi.
Lo sconforto dei sostenitori di Obama, soprattutto liberal e indipendenti, ha raggiunto però il culmine sulle questioni interne più delicate e sullo smantellamento della condotta antidemocratica dell’amministrazione Bush nella guerra globale al terrorismo. In questi ambiti infatti, sono stati quasi subito messi da parte, tra gli altri, gli impegni per la creazione di un sistema sanitario universale pubblico e per il controllo governativo sulle istituzioni finanziarie responsabili della crisi economica. Ugualmente, si è continuato a impiegare quei procedimenti dalla legalità quanto meno dubbia e tanto cari alla precedente amministrazione, come la detenzione indefinita per i sospettati di terrorismo o il trasferimento segreto di essi verso paesi terzi.
A nemmeno un anno dall’inizio della sua presidenza, Obama dispone teoricamente di tutto il tempo necessario per dare un’impronta di cambiamento al suo mandato. D’altro canto, tuttavia, le incertezze e i compromessi di questi primi mesi non prefigurano progressi sostanziali per l’immediato futuro. Soprattutto alla luce del fatto che il semplice avvicendamento alla guida del paese non sembra aver scalfito minimamente il sistema di potere americano né aver mutato gli interessi strategici di Washington su scala mondiale.