di Alessandro Iacuelli

Il fatto che una scuola dia in comodato d'uso dei computer portatili ai suoi studenti, suona come una novità interessante, come una spinta verso un ammodernamento spesso richiesto da più parti, genitori, insegnanti, studenti stessi, un po' in tutto il mondo. Ma ai ben 1800 studenti della Lower Marrion High School di Philadelphia, quei computer portatili devono essere andati davvero per traverso, ed anche ai loro genitori, vista la reazione. Pochi giorni dopo la consegna dei computer, sono iniziate a circolare le strane note sui registri di classe e rapporti e richiami agli studenti più indisciplinati; puniti molti comportamenti indicati come "inappropriati". Peccato che non si trattasse di comportamenti e atteggiamenti assunti dai ragazzi, tutti adolescenti, tra le mura scolastiche, ma nel chiuso delle loro case.

La cosa è andata avanti fin troppo tempo, circa un anno, prima della goccia che ha fatto traboccare il vaso di un controllo totalizzante, ossessivo e soprattutto non autorizzato: quando uno studente ha protestato dicendo di non essersi comportato male, il sovrintendente della scuola, l'equivalente di un nostro preside, gli ha mostrato come prova una foto scattata dalla webcam dello stesso computer portatile che la scuola aveva fornito al ragazzo un anno prima, e inviata elettronicamente alla scuola stessa senza informare l'ignaro studente.

Da un anno prima. Era esattamente da allora che la scuola teneva sotto controllo gli allievi dentro le proprie case, attraverso un software che attivava automaticamente la webcam dei computer e consentiva al personale scolastico di spiare le loro attività casalinghe. A tutti i 1800 studenti. Tutti avevano lo stesso software installato sul computer, della cui esistenza non erano stati informati nè loro né le famiglie.

E' stata proprio la famiglia dello studente cui è stata mostrata una foto ad inalberarsi, fino al punto di aprire una class action contro la scuola per spionaggio, violazione delle leggi federali e del Quarto emendamento della Costituzione americana: per intenderci, quello che dovrebbe difendere i cittadini dalle perquisizioni, gli arresti e le confische senza ragione.

Solo dopo l'apertura della class action, il sovrintendente scolastico Christopher McGinley ha deciso di inviare una lettera alle famiglie con informazioni circa l'attività di spionaggio. Con questa lettera, la scuola ammette di aver installato degli spyware sui computer, programmi in grado di attivare da remoto la webcam, giustificandosi dicendo che era "solo una misura contro il furto dei computer". Bella faccia tosta, hanno replicato alcune famiglie inviperite. In realtà alcune perizie (di parte) hanno indicato che la scuola poteva anche controllare il contenuto dei dischi rigidi dei computer.

Ma chiaramente non si tratta di una condotta che viola solo privacy degli studenti, ma quella di ben 1800 famiglie, riprese attraverso la webcam all'interno di casa propria. La scuola ha risposto a questa accusa dicendo che il software può solo catturare immagini attraverso la webcam, e che non è in grado di catturare e inviare audio e video. Qualcuno non ci ha creduto, qualcuno ha detto che non fa differenza e che l'intimità familiare è stata violata lo stesso. Altri vogliono sapere se la scuola ha archiviato centinaia di immagini private dei loro figli, e dove. Questa ammissione da parte della scuola è stata prontamente raccolta dagli avvocati che seguono la class action, per rilanciare le accuse ulteriormente.

Infatti, in un'intervista riportata dal Financial Times, sostengono che le contestazioni da parte dei genitori potrebbero anche estendersi alla violazione delle norme sulla pornografia infantile, visto che l'occhio indiscreto dell'istituto scolastico avrebbe potuto riprendere gli studenti anche in situazioni intime. D'altronde, lo sanno tutti che, da che mondo è mondo, gli adolescenti si masturbano nella loro camera. "Nessuno immaginava che il Grande Fratello nascesse da un amministratore scolastico", hanno concluso gli avvocati.

La scuola di Philadelphia non è l'unica ad aver cercato di estendere fin dentro le case degli studenti i propri strumenti di controllo. La South Bronx di New York City ha fornito i computer dei suoi alunni di un software che permette di visualizzare a distanza tutto ciò che appare sul desktop dei loro computer. Una funzionalità che consente quindi di ritrasmettere anche il volto degli studenti, quello che fanno e quello che dicono in videochat, quando la webcam del computer viene avviata, e sullo schermo si apre la finestra del video. Alcune settimane fa, in un programma televisivo della Pbs Digital Nation, il vicepreside della scuola, Dan Ackerman, ha mostrato come riusciva a usare quel programma proprio come lo specchio oscurato degli interrogatori, e vedere senza essere visto.

Che si stia sviluppando una nuova moda "invasiva" del controllo scolastico? Intanto, alcuni studenti si erano salvati dal controllo: tutti quelli che, non appena ricevuto il computer, l'hanno formattato e vi hanno installato una qualunque distribuzione GNU/Linux. Fidarsi è bene…

di Michele Paris

Quasi in contemporanea con il rilascio a Washington delle prime licenze di matrimonio a coppie dello stesso sesso che intendono sposarsi nella capitale statunitense, la principale città messicana si è proiettata all’avanguardia nella lotta per i diritti degli omosessuali in America Latina. In un paese profondamente cattolico e guidato da un governo centrale conservatore, l’amministrazione del distretto federale della capitale, Città del Messico, a partire da giovedì 4 marzo ha iniziato infatti ad applicare una nuova legge che legalizza i matrimoni e le adozioni per le coppie gay.

La costituzione del Messico garantisce ampi poteri ai singoli stati - e, appunto, al distretto federale della capitale - per legiferare autonomamente su molte questioni. Sfruttando tale facoltà, l’Assemblea Legislativa della metropoli centro-americana, controllata dal Partito della Rivoluzione Democratica (PRD) di centro-sinistra, lo scorso dicembre aveva approvato a larga maggioranza la nuova legge che permette i matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Di fronte alle proteste impotenti degli esponenti del partito del presidente Felipe Calderón (Partito d’Azione Nazionale, PAN), il sindaco Marcelo Ebrard ha così ratificato un provvedimento che ha trasformato la sua città nella prima giurisdizione dell’America Latina a consentire per legge i matrimoni gay. Nonostante la portata territorialmente limitata, la legge rappresenta una grande vittoria non solo simbolica per quanti si battono per i diritti civili, dal momento che, oltre ad essere la capitale federale, Città del Messico ospita quasi il dieci per cento della popolazione totale del paese.

Che questa città di dieci milioni di abitanti sia diventata il simbolo di una battaglia culturale in corso più o meno silenziosamente in tutto il continente non è un caso. Già nel 2007, infatti, il distretto federale della capitale aveva introdotto il riconoscimento delle unioni civili omosessuali. Allo stesso modo, recentemente sono state approvate leggi che hanno legalizzato il cosiddetto divorzio “no-fault” (senza colpa né motivazioni), l’aborto durante i primi tre mesi di gravidanza e la possibilità per i malati terminali di rifiutare le cure mediche.

Tutti successi importanti per il partito di opposizione che nelle elezioni del 2006 aveva sfiorato la presidenza con il suo leader, Manuel López Obrador, ma che sono giunti solo dopo una lunga battaglia contro il tradizionalismo cattolico che domina in gran parte del paese al di fuori della capitale. “È un attacco alla famiglia”, ha tuonato infatti il cardinale di Città Messico, Norberto Rivera, aggiungendo che questa misura “perversa” infliggerà pesanti danni psicologici a “bambini innocenti”. “La Costituzione della repubblica parla esplicitamente di matrimonio tra un uomo e una donna” gli ha fatto eco il devotissimo presidente Calderón.

Prima di ottenere il via libera definitivo, la legge sui matrimoni gay aveva dovuto passare attraverso una sentenza della Corte Suprema messicana. Alcuni governatori appartenenti al PAN si erano infatti appellati al tribunale costituzionale, sostenendo che il provvedimento adottato dalla capitale avrebbe costretto i loro stati a riconoscere i matrimoni gay. Ai primi di febbraio, tuttavia, la Corte ha respinto il ricorso, in quanto un governatore non possiede l’autorità per appellarsi contro le leggi emanate da un altro stato o dal distretto federale. Pendente di fronte alla Corte Suprema rimane ora un’istanza simile, presentata dal Ministro della Giustizia messicano.

Secondo i sostenitori del provvedimento, in ogni caso, le reazioni negative sono state limitate in gran parte all’ambiente politico e alle gerarchie ecclesiastiche. Nessuna protesta significativa pare essere giunta finora dai cittadini. Nonostante a Città del Messico ci sia la possibilità di ricorrere a unioni civili tra persone dello stesso sesso da quasi tre anni, solo il matrimonio può garantire alcuni diritti fondamentali, come quelli legati alla proprietà e alla custodia del partner.

Il timore maggiore, ora, è che l’introduzione della nuova legge nella capitale possa produrre una reazione contraria nel resto del paese. Come fanno notare alcuni attivisti per i diritti civili, infatti, quando il distretto federale di Città del Messico legalizzò l’aborto, qualche stato modificò la propria costituzione, stabilendo l’inizio della vita al momento del concepimento. Analogamente, alcuni governatori del PAN hanno già promesso iniziative simili, volte a limitare gli effetti della legge sui matrimoni gay nei territori da loro amministrati.

L’opinione pubblica nella capitale, d’altra parte, non sembra essersi particolarmente risentita. Se anche il partito del presidente Calderón ha stimato che la metà degli abitanti di Città del Messico sia contraria ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, e quasi i tre quarti alle adozioni, altri sondaggi indipendenti presentano uno scenario differente. Secondo l’autorevole quotidiano El Universal, ad esempio, il 50% dei residenti della metropoli messicana sarebbe a favore dei matrimoni, contro un 38% di contrari. La percentuale di favorevoli risulta poi notevolmente superiore tra gli abitanti di età compresa tra i 18 e i 39 anni.

Se Città del Messico è dunque il primo luogo, e finora l’unico, in tutta l’America Latina ad essersi spinto così avanti nell’ambito dei diritti degli omosessuali, qualche segnale altrove nel continente era già emerso negli ultimi mesi. Il 23 febbraio scorso, un giudice di Buenos Aires nel corso di un’udienza ha invitato una coppia gay a fissare liberamente la data del matrimonio, nonostante la legge argentina non lo preveda. A fine dicembre, invece, due uomini che si erano visti rifiutare la licenza di matrimonio sempre a Buenos Aires hanno potuto celebrare le nozze nella Terra del Fuoco, diventando di fatto la prima coppia gay in l’America Latina a potersi sposare legalmente.

Discorso differente per le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Oltre a Città del Messico, questa forma di unione, che esclude comunque una serie di diritti civili, è attualmente riconosciuta anche in Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador e Uruguay.

di Fabrizio Casari

Dopo due mandati presidenziali di Bush, che avevano in qualche modo messo in secondo piano il continente latinoamericano nelle strategie imperiali, l’Amministrazione Obama ha deciso di voltare pagina. Dieci anni continuamente segnati dalle vittorie della sinistra nella maggior parte del continente e da una crescente integrazione tra le economie dei paesi a sud del Rio Bravo, hanno infatti ricapultato l’attenzione degli Usa verso l’America latina. La visita di Hillary Clinton è un segnale di attenzione importante e dai significati chiari. La missione del Segretario di Stato, ormai vera e propria voce sostitutiva di Obama in politica estera, nasce proprio dall’intenzione di ribilanciare, in ogni modo, le condizioni sfavorevoli nelle quali gli Stati Uniti si trovano nel subcontinente.

Cercare d’invertire la rotta politica del continente non sarà però semplice. Se l’obiettivo appare evidente - riproporre la centralità della Casa Bianca nella governance latinoamericana - i mezzi a disposizione non sono molti. Sul come fare, poi, le idee in proposito sono le solite: ridare fiato alle elites locali fedeli a Washington, riaprire l’antico e consumato refrain di bastone e carota per nemici ed amici, tentare di dividere il fronte progressista tra “moderati” e “radicali”.

Naviga controcorrente la signora Clinton; arriva nel continente proprio pochi giorni dopo il battesimo di una nuova comunità latinoamericana (che non prevede la presenza statunitense) destinata all’incremento significativo dell’integrazione regionale economica e finanziaria. Progetto che, inevitabilmente, se vedesse un suo sviluppo positivo e duraturo, comporterebbe una maggiore unità politica centro-sudamericana ed una maggiore evidenziazione degli Stati Uniti quale elemento esterno alle dinamiche economiche e sociali latinoamericane. Per non dire di quelle politiche: il Washington consensus è già defunto da un pezzo, almeno da quanto lo è l’ALCA, che la signora Clinton conosce bene in quanto l’ideatore fu proprio suo marito.

Del resto la signora Clinton non arriva con il migliore dei biglietti da visita. Il suo ruolo di sostegno ai golpisti honduregni è stato evidente; a poco sono servite le lievi parole di condanna, pronunciate peraltro fuori tempo massimo. Sotto il tallone golpista sono rimasti schiacciati le buone intenzioni del Vertice di Trinidad e Tobago, nel quale Obama si presentò, appena eletto, a proporre una svolta positiva nelle relazioni tra Usa e America latina. E mentre sono rimaste parole le aperture su Cuba, sono diventati fatti (tragici) le promesse di reintervenite nell’area: IV Flotta a spasso nei Caraibi, minacce al Venezuela e golpe in Honduras.

E che in politica estera sia la Clinton a decidere - e non Obama - la linea della Casa Bianca, se ne possono trarre illuminanti indicazione anche dalle posizioni assunte sullo scenario mediorientale e nei confronti dell’Iran. Infatti, a seguito del discorso del Cairo, nel giugno 2009, dove Obama annunciò l’intenzione di avviare nuove relazioni con l’Iran, Hillary Clinton si affrettò a correggere il tiro con nuovi accordi con Israele e nuove minacce a Teheran. Obama, impegnato a fronteggiare la crisi economica e le pressioni del Congresso (e della maggioranza conservatrice del suo stesso partito) sulle politiche sociali, ha evidentemente delegato alla Clinton - rappresentante delle elites bianche che formano il complesso militar-industriale statunitense - la politica estera e la conquista di nuovi mercati, dove scaricare costi ed eccedenze ed estrarre materie prime e profitti. Insomma, le politiche imperiali, il vero core business dell’azienda Usa.

E’ in questa chiave che la signora dei poteri forti si presenta in America latina. Esplorare la possibilità di riconquistare egemonia nella regione. Rafforzare i legami bilaterali con Messico, Perù, Colombia e Cile, che insieme a Panama e Honduras sono i paesi del continente che dalla Casa Bianca prendono indicazioni e ordinativi; nello stesso tempo, tentare di sganciare il Brasile dal Venezuela, dall’Ecuador e dalla Bolivia, paesi sui quali il Segretario di Stato Usa cercherà di aumentare la pressione. Rispetto solo ad un anno fa, Cile, Panama e Honduras hanno cambiato campo e l’Argentina progressista non dorme sonni tranquilli. Gli Stati Uniti si riaffacciano sul continente. Servirà un’ancora maggiore coesione politica del fronte democratico latinoamericano per riaffermare le giuste distanze.

 

di Carlo Benedetti

Mosca. Passata l’euforia per l’elezione di Obama alla presidenza americana, le diplomazie dell’Est cominciano a fare i conti con la nuova strategia militare della Casa Bianca. E, in primo luogo, sul tavolo del Cremlino si evidenzia il “dossier” relativo alla decisione statunitense sul dispiegamento di elementi dello scudo antimissile nell’Europa orientale; precisamente sul territorio della Polonia, ad una distanza di circa 100 kilometri dal confine con la regione russa di Kaliningrad, nella città di Morag, affacciata sul Mar Baltico.

Gli Usa puntano a realizzare in questa zona una base strategica (con una batteria di missili “Patriot” e con 100 soldati addetti al loro puntamento) per controllare lo spazio aereo sopra l’enclave russa e annunciano di voler dislocare postazioni antimissile anche in Romania e in Bulgaria. Per Mosca tutto questo sta a significare che, nella regione dell’Europa centrale, si sta creando una situazione di crisi. Sempre più aggravata dalle notizie diffuse negli ambienti miltari, secondo le quali il trattato tra Washington e Varsavia servirà a favorire “manovre congiunte” con successivi insediamenti di basi dotate di missili balistici. Sarà questo un passo decisivo per la penetrazione militare dell’Ovest all’Est, dopo la fine del Patto di Varsavia avvenuta nel 1991. Si amplia così quella strategia che il Pentagono definisce come una “nuova architettura antimissile”.

Gli strateghi americani difendono la scelta del Pentagono sostenendo che i militari Usa si dedicheranno esclusivamente ad aiutare le forze armate polacche a sviluppare le proprie capacità di difesa aerea e missilistica. Ma da Mosca si fa subito notare che se i precedenti piani per installare in Polonia missili di media gittata (basati a terra) erano giustificati da una presunta minaccia missilistica da parte dell’Iran, ora è chiaro che i Patriot potranno essere diretti solamente contro la Russia. L’appuntamento per questa escalation è alle porte. Perchè a partire dalla prima settimana di Aprile il Pentagono avvierà il suo piano, dislocando una batteria missilistica terra-aria Patriot, attualmente in dotazione al personale dell’US Army di stanza nella base tedesca di Kaiserslautern. Si tratterà in particolare di otto lanciatori per missili MIM-104 e della relativa stazione di comando e controllo gestita dal  5° Battaglione del 7° Artiglieria difesa aerea dell’US Army.

Ma non c’è solo la Polonia nei piani americani. Perchè anche la Romania si appresta ad “ospitare” i missili balistici ‘Interceptor’ a medio raggio, che faranno parte del nuovo ’scudo antimissili’ voluto dagli Stati Uniti. Lo ha annunciato il presidente rumeno Traian Basescu, precisando che ”la Romania è stata ufficialmente invitata dal presidente Usa, Barack Obama, a prender parte al sistema di difesa missilistico”. Stessa situazione anche per Sofia. E così i due paesi potranno  contare su finanziamenti statunitensi di 100 milioni di dollari ed una presenza di 4100 militari delle forze d’oltreoceano.

Tutto questo avviene mentre l’Alleanza atlantica sta finanziando anche la ristrutturazione e il potenziamento di sette basi aeree e delle due maggiori stazioni navali polacche nel mar Baltico, quelle di Gdynia e Swinoujscie. A Bydgoszcz (Pomerania) è inoltre operativo dall’aprile 2005 uno dei due principali centri di addestramento in Europa dei reparti entrati a far parte della Forza di reazione rapida della NATO (l’altro è quello di Stavanger, in Norvegia). Mosca - a quanto risulta - non assiste passivamente e ha già annunciato le prime contromosse: verranno rafforzate subito le componenti navali di stanza nelle basi aeronavali di Kaliningrad e Kronstadt e, sempre a Kaliningrad, verrà trasferita a breve una batteria di missili tattici “Iskander” (SS-26). E così il Baltico torna ad essere uno dei mari più militarizzati e nuclearizzati del pianeta.

Mentre si dispiega questo nuovo piano di guerra fredda, c’è la notizia di un vertice internazionale sulla sicurezza nucleare che si dovrebbe tenere a Washington il 12 e 13 aprile. "Lo scopo di questo vertice - ha detto in proposito un  portavoce statunitense - è quello di discutere le misure che possono essere prese a titolo collettivo per garantire la sicurezza dei materiali nucleari vulnerabili e per prevenire atti di terrorismo nucleare".

L'iniziativa del vertice nucleare era stato annunciata a suo tempo dal presidente Obama in uno storico discorso l'anno scorso a Praga. "Vogliamo la pace senza armi nucleari” affermò in quell’occasione il capo della Casa Bianca. “Nel mondo c'è ancora il pericolo atomico". Obama spiegò che servivano "nuove relazioni con la Russia per prospettive comuni. Una di queste è il futuro delle armi nucleari nel ventunesimo secolo. L'esistenza di migliaia di armi nucleari è l'eredità più pericolosa della guerra fredda. Intere generazioni hanno vissuto con la consapevolezza che il mondo potesse essere distrutto in pochi istanti. Città come Praga avrebbero potuto cessare di esistere in un attimo. La guerra fredda è finita, ma le armi ci sono ancora. Il rischio di attacchi nucleari, anzi, è aumentato: più Paesi si sono dotati di armi atomiche, c'è il mercato nero, i terroristi sono orientati a comprare e rubare armi nucleari. Ci sono ancora nazioni e popoli che violano leggi contro la proliferazione e si potrebbe arrivare al punto in cui non ci si potrà più difendere da loro".

Per questo, secondo il Presidente statunitense, "dobbiamo agire, per vivere liberi dalla paura nel ventunesimo secolo. Gli Stati Uniti sanno di avere una responsabilità nel guidare questo processo. Lo faremo e chiederemo agli altri di fare altrettanto. Guideremo il mondo verso una pace senza armi nucleari. Fino a che queste armi ci saranno, gli Stati Uniti manterranno un proprio arsenale necessario per garantire la difesa di tutti gli alleati. Ma con la Russia – concluse - negozieremo un nuovo trattato di riduzione degli armamenti strategici".

A questa situazione conflittuale fanno ora riferimento i politologi e i diplomatici dell’Istituto moscovita impegnato nello studio delle relazioni con gli Usa. Dice in proposito Viktor Kremenuk, che dell’Istituto è vice direttore: “La Russia non accetterà mai una situazione in cui la NATO, alle spalle del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, possa arrogarsi il diritto di decidere dove usare la forza militare e dove no. L’unica struttura autorizzata dal diritto internazionale a prendere decisioni in questo senso è il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Se la NATO vuole adoperarsi per arrogarsi un simile diritto, ci sarà sempre una fonte di problemi. La Russia provvederà ad usare la forza per difendere i suoi interessi e gli interessi dei suoi alleati, contro l’eventuale azione miliare da parte dell’Alleanza. Il che implica uno stato di tensione permanente tra Russia e NATO. Si deve sapere che Mosca è in grado di opporre una degna resistenza a qualsiasi tentativo di minacciarla con l’uso della forza. Anzi, la Russia ha avvertito che in questo caso è pronta ad usare l’arma nucleare. Perciò la nuova dottrina della NATO non mira affatto alla ricerca di soluzioni pacifiche dei conflitti, al contrario ha un carattere esplicitamente provocatorio”. Parole dure che, in questo momento, non sembrerebbero lasciare spazio a compromessi diplomatici.

 

di Michele Paris

A poco più di un mese dal terzo anniversario della sparatoria nel campus universitario della Virginia Tech, che causò la morte di 32 persone, il Parlamento locale dell’omonimo stato americano ha approvato due nuove leggi che liberalizzano ulteriormente la vendita e il possesso di armi da fuoco. La Virginia è in realtà solo uno dei tanti stati dell’Unione ad aver preso provvedimenti favorevoli ai proprietari di armi negli ultimi mesi. Una tendenza dettata dall’ingiustificato timore di un giro di vite sulla regolamentazione delle armi che l’amministrazione Obama aveva promesso in campagna elettorale. Mentre i commercianti fanno affari d’oro, un’imminente sentenza della Corte Suprema potrebbe ancora di più fare la felicità dei fautori del Secondo Emendamento, nonostante la striscia di sangue negli USA continui ad allungarsi.

Tra le proposte del presidente Obama che più avevano suscitato le attese delle organizzazioni che si battono per restringere la circolazione di armi da fuoco nel paese, ve n’erano due che apparivano ad un passo dall’essere adottate una volta conquistata una larga maggioranza democratica al Congresso. La prima prevedeva la fine di una particolare concessione accordata ai commercianti del settore, i quali nel corso di fiere e speciali manifestazioni possono vendere armi a chiunque senza richiedere un controllo sulla fedina penale dell’acquirente. La seconda, invece, prometteva la reintroduzione del bando federale sulle cosiddette “armi d’assalto”, introdotto nel 1994 e scaduto dieci anni più tardi.

Non solo le paure di quanti già s’immaginavano privati delle loro armi sono apparse infondate, ma al contrario nuove leggi a loro favore sono state firmate dal tanto temuto Obama. Come, solo per citare le più recenti, quelle che permettono di portare armi - purché nascoste - all’interno dei parchi nazionali e a bordo dei treni. Per la potente lobby delle armi, guidata dalla NRA (National Rifle Association), però, l’inclinazione del presidente non sarebbe sufficientemente benevola nei confronti del Secondo Emendamento, dal momento che questi provvedimenti sono stati approvati dalla Casa Bianca solo perché inseriti in altre leggi più importanti e di natura completamente differente.

Per questo motivo, i difensori del diritto a portare armi liberamente, da mesi si adoperano in numerosi stati affinché vengano approvate leggi a livello locale per prevenire eventuali regolamentazioni imposte da Washington. Così, ad esempio, in Virginia proprio la scorsa settimana è stata garantita la possibilità di portare armi da fuoco all’interno di bar, ristoranti e discoteche che servono alcolici, mentre è stato soppresso un divieto che resisteva da 17 anni e che impediva l’acquisto di più di un’arma al mese. Il primo provvedimento, in particolare, era già stato licenziato dal Congresso locale qualche anno fa, ma si era scontrato con il veto dell’allora governatore democratico, Tim Kaine. La recente elezione del repubblicano Robert McDonnell ha invece dato il via libera alla discussa norma.

Lo scorso fine settimana, piccoli gruppi di possessori d’armi della California si sono organizzati per mettere in scena una protesta contro le presunte violazioni dei propri diritti, portando le loro armi in fondine bene in vista all’interno di locali pubblici. Molti stati si sono già dati da fare concretamente o lo stanno per fare a breve. In Arizona e Wyoming - due stati dell’Ovest, dove la questione del diritto a portare armi è fortemente sentita - sono in discussione una serie di leggi volte ad allargare le maglie delle regolamentazioni, tra cui una che consentirebbe ai possessori di portare con sé le proprie armi nascoste senza richiedere un permesso specifico alle autorità.

Montana e Tennessee, addirittura, per la prima volta negli Stati Uniti, nel 2009 hanno ratificato disposizioni che esentano i due stati dall’applicazione di leggi federali in materia di regolamentazione di armi e munizioni. Ancora, nell’Indiana, da gennaio di quest’anno le aziende private non saranno più in grado di impedire ai loro dipendenti di tenere armi da fuoco nelle loro automobili parcheggiate o in transito sui terreni di proprietà delle stesse compagnie.

Dalla Casa Bianca, intanto, alle critiche per il mancato rispetto delle promesse elettorali si risponde con le cifre. Secondo un portavoce del presidente, il numero degli episodi di criminalità nel 2009 sarebbe al livello più basso dagli anni Sessanta. Il presidente, poi, viene dipinto ora come un fervente sostenitore dell’interpretazione in senso individuale del diritto di portare armi stabilito dal Secondo Emendamento della Costituzione americana. Un voltafaccia puramente opportunistico, com’è evidente, dettato principalmente dalla necessità di non alienarsi i compagni di partito più moderati, ma anche l’opposizione repubblicana, in vista del passaggio di altre leggi di maggiore peso che figurano in cima all’agenda presidenziale.

Tra i piccoli successi di quanti chiedono maggiori restrizioni, vanno segnalate quanto meno le bocciature - sia pure tra molte resistenze - in una ventina di stati di altrettante proposte che intendevano permettere agli studenti di portare armi nascoste nei campus universitari. In New Jersey, inoltre, il Parlamento statale ha fissato il limite di vendita ad una sola arma da fuoco al mese. La tendenza generale, tuttavia, appare decisamente di segno opposto e ad essa potrebbe dare un’ulteriore spinta il prossimo pronunciamento della Corte Suprema nel caso “McDonald contro Chicago”, in discussione di fronte al tribunale costituzionale americano a partire da questa settimana.

Il caso in questione è la diretta conseguenza della storica sentenza emanata nel 2008 (“District of Columbia contro Heller”), nella quale si sanciva l’incostituzionalità di alcune norme restrittive fissate dal distretto federale di Washington. I nove membri della Corte saranno chiamati ora a stabilire se l’applicazione del Secondo Emendamento - interpretato due anni fa in senso individualistico - va estesa anche a livello statale e non può, di conseguenza, essere limitata all’enclave federale della capitale. Una nuova sentenza favorevole alla lobby delle armi rappresenterebbe un colpo mortale per le regolamentazioni al possesso e alla vendita che i consigli comunali di molte città americane hanno adottato negli ultimi decenni.


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