di Michele Paris

Le grandi assenti dall’asta che la settimana scorsa ha assegnato i diritti di esplorazione di numerosi pozzi petroliferi in Iraq sono state, inaspettatamente, le compagnie petrolifere americane. Le concessioni rilasciate dal ministero del Petrolio di Baghdad hanno premiato in particolare aziende europee e asiatiche, spesso riunite in joint ventures, molte delle quali hanno accettato condizioni imposte dal governo iracheno - e per loro relativamente poco vantaggiose - che avevano rifiutato solo pochi mesi fa. Così che dei dieci giacimenti aggiudicati nel 2009, appena due vedranno compagnie americane impegnate nelle operazioni di sfruttamento ed una sola svolgerà un ruolo di primo piano.

A farla da padrone è stata la compagnia pubblica malese Petronas, la quale ha conquistato i diritti per tre giacimenti, seguita dall’angolana Sonangol con due. Tra le altre, hanno ottenuto concessioni anche China National Petroleum Company (CNPC), le russe Lukoil e Gazprom, e le europee Shell (Olanda), Total (Francia), Statoil (Norvegia), British Petroleum e l’italiana ENI. Su dieci contratti siglati, ben sette sono stati conclusi da consorzi di più aziende, mentre per cinque pozzi situati nel centro e nel nord del paese, dove le condizioni di sicurezza rimangono precarie, non si è registrato alcun offerente.

Le sette compagnie statunitensi presenti alla più recente asta per il petrolio iracheno sono tutte uscite a mani vuote, mentre le sole ExxonMobil e la californiana Occidental Petroleum avevano lanciato offerte andate a buon fine in un’asta tenuta in precedenza. Vani sono stati anche i tentativi di Chevron e della texana ConocoPhilips, nonostante entrambe avessero coltivato rapporti molto stretti con il ministero del Petrolio iracheno negli ultimi anni.

Sintomatico, secondo alcuni, dell’influenza di Washington in declino su scala internazionale, il fallimento delle compagnie americane è dovuto ad una combinazione di fattori. Non da ultima la necessità di dover sostenere costi legati alla sicurezza in misura maggiore rispetto ai concorrenti di diversa provenienza, a causa della profonda ostilità diffusa in Iraq nei confronti della potenza occupante.

Impianti americani in territorio iracheno rappresenterebbero, infatti, un bersaglio facilmente attaccabile da parte delle forze ribelli ancora operanti nel paese. Le offerte americane, inoltre, sono risultate meno competitive rispetto a quelle presentate dalle alleanze euro-asiatiche, in grado di combinare le necessarie competenze tecnologiche a costi di manodopera più contenuti.

Per ironia della sorte, dunque, la promessa di sfruttamento delle enormi riserve di petrolio dell’Iraq, che ha rappresentato uno dei motivi principali della stessa invasione del 2003, è sembrata svanire per le compagnie americane. Le quali, innegabilmente, attendevano con ansia di poter tornare ad operare nel paese dopo che nel 1972, assieme alle altre multinazionali straniere, erano state cacciate in seguito alla nazionalizzazione delle riserve petrolifere voluta dal regime baathista.

Nel tentativo disperato di incrementare le entrate provenienti dall’estrazione del petrolio, l’Iraq si trova ora di fronte alla necessità di modernizzare un sistema di infrastrutture reso obsoleto da decenni di guerre e sanzioni economiche. Secondo il ministro del Petrolio, Hussein Shahristani, il governo iracheno avrebbe già sborsato più di 8 miliardi di dollari per aumentare una capacità estrattiva che a tutt’oggi rimane però attestata attorno ai due milioni di barili al giorno. Una quantità inferiore anche rispetto agli anni precedenti l’invasione americana. Per raccogliere i 50 miliardi necessari a diventare uno dei principali paesi produttori di petrolio e a portare la produzione a 12 milioni di barili entro il 2016, è stato allora necessario fare affidamento sulle compagnie straniere.

Le concessioni finora offerte dal ministero del Petrolio di Baghdad sono relative a riserve di quasi 40 miliardi di barili, vale a dire poco meno di un terzo di quelle stimate complessivamente nel paese (115 miliardi). Tali cifre collocano l’Iraq al terzo posto nel mondo per quantità di petrolio ancora da estrarre, dopo Iran e Arabia Saudita. I giacimenti petroliferi iracheni sono stati in realtà individuati almeno venticinque anni fa, ma da allora le sanzioni internazionali ne hanno, di fatto, impedito lo sfruttamento, congelando l’afflusso dei capitali necessari.

Resistendo alle pressioni americane, nell’assegnazione dei diritti di estrazione, le autorità irachene sono riuscite ad evitare la stipula di contratti troppo favorevoli alle compagnie petrolifere. La condivisione dei profitti derivanti dalla produzione del petrolio, infatti, è stata scartata a beneficio di un compenso fisso da corrispondere alle stesse compagnie per ogni barile estratto. Secondo i contratti ventennali siglati a Baghdad, le aziende appaltatrici hanno accettato somme che variano tra 1,35 e 1,50 dollari per ogni barile di petrolio, così che qualsiasi eventuale aumento del prezzo del greggio nel prossimo futuro andrà a beneficio delle casse del governo iracheno.

L’interesse maggiore nelle aste per la concessione dei diritti di sfruttamento era rivolto ai giacimenti presenti nel sud del paese, attorno alla città di Bassora. Qui si trova il giacimento di Az Zubayr, che dispone di riserve stimate tra i 4 e i 6 miliardi di barili e verrà sondato da una joint venture formata da ENI, Occidental Petroleum e Korea Gas. Ugualmente nel sud del paese, nei pressi del confine con l’Iran, è situato anche il più consistente giacimento iracheno, quello di Majnoon. Ad ottenere i diritti sui 12,58 miliardi di barili stimati sono state Shell e Petronas. Il secondo pozzo potenzialmente più produttivo del paese, West Qurna (12 miliardi di barili), è andato invece ad un consorzio guidato dalla russa Lukoil.

I contratti chiusi dalle multinazionali di mezzo mondo con il governo iracheno poggiano in ogni caso su fondamenta legali piuttosto incerte. Il Parlamento di Baghdad, infatti, non è ancora stato in grado di approvare regole trasparenti per l’industria petrolifera sul proprio territorio, né di fornire adeguate protezioni legali agli investitori esteri. Ad aprire la strada alle multinazionali in Iraq era stato il governo regionale curdo nel nord del paese. A due anni distanza, nonostante le carenze legislative, il governo centrale ha intrapreso ora la stessa strada, spinto dalla necessità di dare un impulso ad un settore che genera da solo il 90% delle entrate del paese.

di Eugenio Roscini Vitali

Bombardamenti aerei e colpi di mortaio, sono questi i suoni che “a intermittenza” tormentano la vita dei contadini e dei pastori yemeniti che fuggono dalle province settentrionali di Saada, Hajjah, Al Jawf e da quella più interna di Amran. Riyadh, che negli ultimi decenni non aveva mai intrapreso azioni militari unilaterali, è preoccupata per la situazione di instabilità che attanaglia lo Yemen e cerca di arginare la crisi colpendo duramente i guerriglieri Zaydi, che intanto esportano il conflitto nelle province arabe di Jazan, Asir e Najran. Oltre confine gli F-15 e i Tornado della Royal Saudi Air Force bombardano le aree di Jabal Rumaih, Jabal Dukhan e Wadi al Mouked, mentre gli M198 howitzer da 155mm del Saudi Arabian Army martellano i rifugi dei ribelli che, giorno dopo giorno, riprendo il controllo del territorio.

Questo lo scenario di un conflitto che si è riacceso lo scorso 11 agosto e che ora, con le denunce dei rappresentanti dell’ Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhrc) e dell’Islamic Relief Worldwide, assume un aspetti ancora più brutali: mentre i raid dell’aviazione yemenita colpiscono i campo profughi allestiti dalle organizzazioni umanitarie, un gran numero di adolescenti, tra cui molti bambini, sarebbe stato arruolato tra le fila delle guerriglia.

A Sanaa sono certi che l’Operazione terra bruciata (Operation Scorched Earth), la campagna militare con la quale l’esercito yemenita e le forze saudite hanno deciso di soffocare la rivolta zaydita, stia mettendo i ribelli in forte difficoltà, ma le notizie diffuse negli ultimi giorni delle agenzie internazionali lasciano pensare che la crisi sia tutt’altro che vicina dal finire. Secondo quanto riportato dall’emittente iraniana Press Tv, il 4 dicembre scorso i  guerriglieri del movimento Houthi, il gruppo armato nel quale confluiscono i militanti Zaydi che combattono contro le discriminazioni che colpiscono le popolazioni sciite del nord, avrebbero respinto le incursioni delle truppe saudite e, nonostante gli attacchi missilistici e i raid dell’aviazione, sarebbero stati in grado di mantenere il controllo della zona di confine che si trova nei pressi del villaggio di Ghawiyah.

Negli stessi giorni, il Saudi Arabian Army avrebbe reagito alla perdita di alcuni tanks, distrutti dai ribelli nei pressi del monte Mamdouh, lanciando decine di razzi nell’area di Jabal Dukhan; nella stessa azione sarebbero stati anche colpiti alcuni villaggi ed uccisi numerosi civili. Stessa cosa nei giorni successivi, quando ad operare è stata l’aviazione saudita: 13 attacchi contro i distretti di Malahit e Saqain con il rilascio di oltre 100 missili.

Sono quasi un milione le persone coinvolte in un conflitto che dall’agosto scorso ha già causato circa 175 mila profughi. Nel campo di Al-Mazraq, nella provincia occidentale di Hajjah, arrivano più di 900 civili al giorno, donne e bambini malnutriti, spaventati e disorientati da una guerra che li sta condannando alla povertà più assoluta. I rifugiati interni si vanno ad aggiungere al drammatico problema dei somali fuggiti dalla guerra che dilania il Corno d’Africa: 100 mila secondo alcune stime; 15 mila nella periferia di Aden, in una sorta di quartiere-baraccopoli nella zona urbana di Basatene, e circa 10 mila nel campo profughi di al-Kharaz.

Per gli altri, lo status di rifugiato ha poco valore. Lontani dalla principale comunità della diaspora somala che ha sede a Nairobi, i più sfortunati sono spesso costretti a vivere sui marciapiedi o all’interno delle bidonville sorte nei pressi del complesso dell’Unhcr di Sana’a, disoccupati, affamati ed ormai sgraditi anche al più povero dei paesi arabi. A questi si aggiungono poi gli eritrei e gli etiopi che scappano dalla repressione, dai disastri climatici e dalla povertà e che nello Yemen non godono neanche dello status di rifugiati.

Alla guida dello Yemen da oltre trent’anni, Ali Abdallah Saleh sta sicuramente attraversando un momento difficile, uno dei peggiori del suo “regno”. Stretto tra le fiammate di violenza che sempre più frequentemente incendiano il sud e una ribellione che a nord sta assumendo i connotati di una vera e propria guerra civile, Saleh deve fare i conti con enormi squilibri sociali e regionali: lo Yemen è uno dei paesi più poveri del mondo, strangolato dalle pressioni esterne e da scontri interni alimentati dalla corruzione che imperversa nelle stanze del notabilato politico. Dopo aver pagato a durissimo prezzo gli effetti della prima Guerra del golfo (Ali Abdallah Saleh appoggio Saddam Hussein ai tempi dell’invasione del Kuwait) il regime si è però lentamente riavvicinato a Riyadh e nella lotta al terrorismo internazionale è diventato, in Medio Oriente, uno dei più fedeli alleati della Casa Bianca.

La sensazione è che, comunque, le poche ricchezze del paese non affluiscano nel sud sunnita, da dove proviene l’80% dei proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, e non arrivino neppure nel nord sciita, dove la popolazione è praticamente alla fame, ma finiscano nelle tasche dei clan dominanti che sostengono il governo e il presidente Saleh. Il timore è che nello scenario yemenita stiano confluendo diverse crisi: la guerra civile al nord, il movimento separatista al sud, la presenza di cellule terroristiche sempre pronte a colpire gli Usa nella penisola Araba. Sta di fatto che mentre il governo accusa l’Iran di voler spaccare il paese aiutando i ribelli a restaurare l’imamato Zaydita, la minoranza sciita, discriminata sia sotto il punto di vista religioso che politico, denuncia come il regime lasci l’estrema regione settentrionale nella povertà più assoluta.

Secondo molti esperti la ribellione in atto nelle province settentrionali di Saada, Hajjah, Al Jawf e in quella più interna di Amran, trova le sue radici nella fallita unificazione del 1990; rispetto alla guerra civile del 1994, quando a guidare la guerriglia c’erano i vecchi leader del partito socialista, la rivolta zaydita ha però connotati strategici più ampi. Il fattore più rilevante è infatti il peso che riveste Teheran all’interno del conflitto: alla fine di ottobre, il quotidiano saudita Al-Watan, ha pubblicato un articolo nel quale parla di crisi diplomatica tra Arabia Saudita ed Iran e delle accuse yemenite nei confronti del regime degli Ayatollah, reo secondo Sanaa di sostenere i ribelli Houthi. L’apprensione deriverebbe dal notevole aumento delle attività iraniane nel Mar Rosso e dal tentativo della Repubblica Islamica di trasformare lo Yemen in una nuova area scontro.

Una tesi avvalorata dalla catturata a fine ottobre di un cargo carico di armi anticarro destinato alla guerriglia zaydita; dal sospetto dell’esistenza in Eritrea di campi di addestramento Pasdaran per i combattenti Houthi; dalle dichiarazioni rilasciate da Sheikh Abdallah Al-Mahdoun, uno dei comandanti della guerriglia che in un’intervista rilasciata ad un giornale arabo rivelerebbe il ruolo svolto dall’Iran nel conflitto yemenita, la massiccia fornitura di armi e di addestramento che oltre ai Guardiani della Rivoluzione starebbe ora coinvolgendo anche gli esperti Hezbollah arrivati dal Libano.


 

di Michele Paris

Alla tavola rotonda voluta da Barack Obama alla Casa Bianca lunedì scorso erano presenti - di persona o in videoconferenza - quasi tutti i numeri uno delle grandi banche di investimenti di Wall Street. Con l’aumentare dell’irritazione dei cittadini americani nei confronti di quanti vengono giustamente additati come i principali responsabili della crisi finanziaria, nelle intenzioni del presidente l’incontro doveva costituire un rimprovero a Wall Street e, allo stesso tempo, un invito a riaprire i cordoni del credito a favore di aziende e consumatori in difficoltà. Il meeting, tuttavia, si è risolto in nient’altro che una farsa, messa in scena per cercare di placare la rabbia popolare verso istituzioni finanziarie tuttora in grado di manovrare a loro piacimento le vicende politiche di Washington.

A quella che un anonimo amministratore delegato presente ha definito una semplice “iniziativa propagandistica” hanno partecipato, tra gli altri, Kenneth Chenault, amministratore delegato e presidente di American Express, Jamie Dimon, amministratore delegato e presidente di JPMorgan, Richard Fairbank, amministratore delegato e presidente di Capital One, Robert Kelly, amministratore delegato di Bank of New York Mellon, e Ken Lewis, amministratore delegato e presidente fino al 31 dicembre prossimo di Bank of America. Collegati in videoconferenza erano invece i leader dei tre colossi Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup, rispettivamente Lloyd Blankfein, John Mack e Richard Parsons.

Questi ultimi avevano annunciato anticipatamente di non potersi recare nella capitale statunitense, ufficialmente a causa della nebbia che a inizio settimana ha impedito gli atterraggi all’aeroporto Reagan di Washington. A molti, però, il gesto è sembrato una chiara ritorsione per le parole che lo stesso Obama aveva pronunciato domenica sera ai microfoni della CBS. Nel corso della popolare trasmissione “60 Minutes”, il presidente aveva mostrato tutta la sua comprensione per la rabbia diffusa nel paese verso i banchieri di Wall Street - definiti spregiativamente “fat cats”. Lo scorso anno, d’altra parte, quando in una situazione di grande panico l’allora Segretario al Tesoro, Henry Paulson, convocò i banchieri con un preavviso di poche ore, essi si precipitarono ad un incontro dal quale in molti uscirono con cospicui assegni staccati dai contribuenti.

Con un tasso ufficiale di disoccupazione al 10%, la crisi dei mutui ancora intensa e i tagli devastanti alla spesa pubblica in molti stati per far fronte a pesanti deficit di bilancio, le grandi banche americane si apprestano a chiudere l’anno con profitti da record, nonché a distribuire decine di milioni di dollari di bonus ai loro dirigenti. Il tutto grazie all’enorme flusso di liquidità dirottato a loro beneficio dal Tesoro americano - sia sotto l’attuale amministrazione che la precedente - per scongiurare i rischi di fallimento.

Allo stesso modo, le pratiche speculative che hanno contribuito a generare una crisi finanziaria senza precedenti sono proseguite solo grazie al denaro pubblico. Mentre i dollari del piano di salvataggio voluto da George W. Bush nell’autunno del 2008 stanno per essere restituiti da molte banche - Bank of America, Goldman Sachs, JPMorgan, Morgan Stanley e, da ultime, Citigroup e Wells Fargo - così che esse potranno svincolarsi definitivamente dalle restrizioni imposte dal governo federale.

Dal momento che gli aiuti pubblici sono finiti sostanzialmente per alimentare nuove pericolose bolle speculative che potrebbero riesplodere nel prossimo futuro, i rubinetti del credito per le piccole e medie aziende americane sono andati sempre più restringendosi negli ultimi mesi. Da qui la convocazione dei banchieri voluta da Obama alla Casa Bianca. Da dove si è anche chiesto il sostegno per la riforma del sistema finanziario in discussione al Congresso. Proprio la scorsa settimana, infatti, la Camera dei Rappresentanti ha dato il via libera al nuovo progetto di regolamentazione, osteggiato però da Wall Street, nonostante gli effetti molto modesti in termini di controllo governativo delle operazioni finanziarie.

La riunione alla Casa Bianca si è dunque risolta in una supplica da parte di Obama verso quella vera e propria oligarchia finanziaria che influisce in maniera decisiva sulle scelte dei politici statunitensi, sia tramite ingenti finanziamenti ai due partiti principali sia con una schiera di loro uomini collocati in posizioni chiave del governo. Basti pensare, solo per citare i più alti livelli, ai consiglieri economici del presidente, Larry Summers e Robert Rubin, entrambi profondamente legati a Wall Street ed entrambi accesi sostenitori nell’amministrazione Clinton di una sfrenata deregulation in ambito finanziario.

Per ora, la commedia andata in scena alla Casa Bianca tra Obama e i padroni di Wall Street ha prodotto una promessa da parte della sola Bank of America di erogare nuovi prestiti alle piccole e medie imprese d’oltreoceano per 5 miliardi di dollari. Una somma irrisoria a paragone delle necessità di capitali di un’industria in grande affanno come quella americana. Ugualmente, nessun provvedimento è stato prospettato in caso di mancato rispetto delle direttive presidenziali in materia di credito.

Se anche Obama ha nuovamente ripetuto davanti alla nazione di non essere stato eletto per “proteggere una manciata di banchieri”, la realtà dei fatti si presenta ben diversa. La vera faccia del sistema, infatti, ci mostra un presidente democraticamente scelto dal popolo senza alcuna influenza su un’aristocrazia finanziaria che, di fatto, detiene le leve del potere e che, in definitiva, decide per l’economia del paese e il futuro di centinaia di milioni di persone.

di Michele Paris

In concomitanza con la commemorazione del ventennale della più grave sparatoria della storia del paese, il Parlamento canadese è ad un passo dall’approvazione di una legge che cancellerebbe alcune importanti limitazioni alla diffusione di armi da fuoco. L’iniziativa del governo conservatore di Ottawa non solo è fortemente sostenuta dalle lobby delle armi, protagoniste di aggressive campagne pubblicitarie sull’esempio dei vicini americani, ma raccoglie ampi consensi anche tra gli abitanti delle sterminate regioni rurali del paese, i quali vedono come un affronto ogni restrizione al loro presunto diritto di acquistare e possedere armi.

Il 6 dicembre 1989, il 25enne disoccupato Marc Lepin fece irruzione nell’École Polytechnique di Montréal imbracciando un fucile da caccia semiautomatico. Dopo aver espresso il proprio anti-femminismo, separò gli studenti d’ingegneria maschi dalle femmine, per poi uccidere 14 ragazze e togliersi infine la vita. Il massacro, fino ad allora considerato possibile da molti canadesi solo oltre il confine meridionale, diffuse un profondo senso di indignazione e sconcerto. Il Canada scoprì improvvisamente che la vendita di armi da fuoco militari non era sottoposta pressoché a nessuna limitazione e che nel paese ne circolavano circa sei milioni i cui proprietari non erano in alcun modo identificabili.

La strage di Montréal lasciò in eredità alcuni significativi provvedimenti negli anni successivi. Tra il 1991 e il 1995 le leggi C-17 e C-68 introdussero infatti una serie di restrizioni al possesso e alla vendita di armi da fuoco e, soprattutto, un registro nazionale (Canadian Firearms Registry) sul quale devono essere riportate tutte le armi in circolazione nel paese. Una parte importante di quest’ultima legge, promossa nel 1995 dal governo liberale dell’allora primo ministro Jean Chrétien, è ora però minacciata da una proposta (legge C-391) che, se approvata, abolirebbe l’obbligo di registrazione per quelle armi a canna lunga di cui è consentita la vendita, come i fucili a pompa.

La discussione in corso sta inaspettatamente opponendo gli esponenti politici conservatori che appoggiano la nuova legge alle forze di polizia che si battono invece per il mantenimento del registro delle armi. Questo data-base viene infatti consultato in media più di dieci mila volte al giorno da agenti di polizia, che in questo modo hanno la possibilità di individuare ed eventualmente sequestrare armi da fuoco ai danni di sospetti criminali o in situazioni domestiche particolarmente conflittuali. Nonostante la carenza di dati direttamente collegabili al registro, a partire dalla sua introduzione il numero di omicidi causati da sparatorie in Canada è costantemente diminuito, soprattutto relativamente a quelli commessi in ambito domestico.

Per i fautori della liberalizzazione della vendita di armi da fuoco, molti dei quali cacciatori e nativi canadesi, il registro nazionale rappresenta al contrario un inutile e costoso fardello per i cittadini rispettosi della legge. A loro parere, la regolamentazione delle armi rappresenterebbe in sostanza un problema esclusivamente urbano. Sarebbe nelle città, a loro dire, che le armi vengono utilizzate in gran parte per commettere reati. La realtà dei fatti evidenzia invece come il tasso di mortalità per armi da fuoco sia più elevato in quelle comunità rurali dove esse sono maggiormente diffuse. Gli oppositori del registro affermano poi un diritto individuale al possesso di armi, sull’esempio americano, che la Corte Suprema ha chiaramente sostenuto non sussistere in Canada.

Tra numerose polemiche, la legge che dovrebbe cancellare l’obbligo di registrazione per alcune armi da fuoco ha così già superato due ostacoli nel parlamento canadese. Lo scorso 4 novembre la Camera dei Comuni ha dato il via libera al provvedimento con il voto favorevole dei parlamentari del Partito Conservatore che sostengono il governo di Stephen Harper e di quello decisivo di una ventina di rappresentanti dei partiti di centro-sinistra all’opposizione (Liberal Party e New Democratic Party). Se nella terza e ultima lettura della nuova legge a inizio 2010 dovesse profilarsi una nuova maggioranza a favore, la discussa misura entrerebbe definitivamente in vigore.

Per contrastare questa evoluzione nell’ambito della liberalizzazione delle armi da fuoco secondo il modello americano, si stanno mobilitando, oltre che le forze di polizia, anche i familiari delle vittime del massacro dell’École Polytechnique. La polarizzazione tra i due fronti tuttavia risulta estremamente marcata e sembra ormai sempre più probabile che, dopo tre anni di governi conservatori, il Canada possa scoprirsi all’improvviso più indulgente verso i possessori di armi e di un altro passo più simile al potente vicino americano.

di Alessandro Iacuelli

Il presidente russo Dmitry Medvedev e il primo ministro indiano Manmohan Singh, in visita a Mosca, hanno firmato un accordo di cooperazione per l'utilizzo pacifico della tecnologia nucleare. L'accordo consentirà la costruzione di numerose centrali nucleari in India da parte dell'agenzia atomica russa Rosatom, ha detto il numero uno Sergei Kiriyenko parlando coi reporter a margine dei colloqui al Cremlino. Al momento non sono stati resi noti molti altri dettagli dell'accordo, ma i pochi filtrati dai comunicati ufficiali fanno pensare a intese anche in altri settori strategici per l'India: una possibile collaborazione in campo spaziale e nel mercato dei diamanti.

Così, l'India sembra intenzionata a essere un serio alleato strategico della Russia. Negli ultimi sei mesi, il premier Manmohan Singh si è recato per ben tre volte in visita ufficiale al Cremlino. L’ultima lo scorso 7 dicembre, quando i due Paesi hanno varato un importante accordo di cooperazione sullo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare.

L'accordo con la Russia è il secondo, dopo quello con gli Usa, alla fine di una lunga battaglia condotta da Washington e Delhi, perché l'India fosse esonerata dalle norme internazionali sulla non-proliferazione, che da oltre tre decenni impedivano la vendita all'India di combustibili e tecnologia nucleari. Queste norme erano state adottate proprio perché il Paese aveva usato le tecnologie nucleari a lei fornite per "scopi pacifici" per fabbricarsi armi nucleari, soprattutto in chiave anti pachistana, a causa della controversia sul Kashemir. In seguito al test nucleare indiano del 1974, venne costituito il Nuclear Suppliers Group (NSG), il Gruppo internazionale dei fornitori nucleari, con 45 Stati membri, fra cui l'Italia; proprio questo gruppo, l'anno scorso ha cancellato il bando all'India sull'importazione di tecnologia nucleare.

Dopo tre anni di dibattiti a Washington, Delhi e Vienna, nell'ottobre 2008 il senato americano aveva approvato l'accordo di cooperazione nucleare civile con l'India, secondo il quale gli USA forniranno tecnologie e carburante a New Delhi per una ventina di centrali nucleari civili. In cambio l'India garantirà circa 70 miliardi di dollari in scambi commerciali con le imprese Usa.

La Russia non è rimasta a guardare a lungo. Al momento sono pochi i dettagli forniti sull'accordo di cooperazione nucleare del 7 dicembre: si sa però che Rosatom costruirà altri 4 reattori per la centrale nucleare di Kundankulam in Tamil Nadu, già simbolo della collaborazione tra i due Paesi (il primo reattore dovrebbe essere avviato già all'inizio del 2010); verranno avviati i lavori per una nuova centrale nel Bengala occidentale, dove Rosatom dovrebbe occuparsi della costruzione di quattro su sei reattori programmati nel giro di 10-15 anni.

L'accordo, valido dal 2011 al 2020, avrà un valore di decine di miliardi di dollari e, oltre al nucleare, prevede la vendita alla Russia di hardware militare in dotazione all'India. È probabile che la simbiosi si completi pure su altri campi, dato l'interesse di New Delhi nella ricerca spaziale, le telecomunicazioni, i mercati di diamanti grezzi e i prodotti farmaceutici.

Al momento il nucleare fornisce all'India meno del 3% di elettricità; nel 2050, a pieno regime, la quota dovrebbe arrivare fino al 25%. Nonostante le critiche di ambientalisti e di gruppi pacifisti, con quella che ormai gli analisti chiamano la “diplomazia dei reattori”, il primo ministro Singh ha riportato l'India più che mai al centro dello scacchiere internazionale. A causa della crisi petrolifera il mercato nucleare diventa infatti sempre più appetibile per i Paese emergenti. E ora anche la Francia, vero rivale per Mosca sul mercato del nucleare indiano, aspetta il suo momento per farsi avanti.

C'è naturalmente, come sempre quando si parla di accordi internazionali in campo nucleare, chi non si fida. Vari analisti di tutto il mondo ricordano come spesso i Paesi importatori di tecnologia nucleare, anzichè usarla a fini di approvviggionamento energetico, l'abbiano non solo usata a fini militari, ma anche rivenduta a Paesi terzi. Così, oggi c'è chi ipotizza che dietro l'accordo siglato a Mosca potrebbe esserci l'Iran, sempre al centro delle polemiche quando si parla di nucleare. Infatti, la Russia venderà all'India del combustibile atomico, così come voleva farlo con l'Iran. Dopo il distacco di Mosca dal suo appoggio tacito al piano nucleare di Teheran, quella attuale potrebbe essere una mossa compensativa che gode del tacito avallo americano.

Il governo russo non conferma e non smentisce: "I nostri due paesi hanno tanti campi di cooperazione, molti progetti riguardano la sfera energetica e una parte considerevole di essi concerne il settore nucleare", ha dichiarato Medvedev nella conferenza stampa dopo la firma dell'accordo, "Il documento che abbiamo firmato oggi consente di sviluppare la collaborazione negli anni futuri", ha aggiunto. Il premier indiano, subito dopo l'arrivo a Mosca, aveva incontrato in forma privata Medvedev nella sua residenza privata a Barvikha, mentre i colloqui ufficiali, a delegazioni allargate, si sono svolti al Cremlino. Al momento non si sa di più: tutto ciò che riguarda il governo russo è decisamente coperto da riserbo e ovviamente, tanto per cambiare, si parla di vendita di uranio per “soli usi pacifici”.


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