di Michele Paris

A poco più di un anno dal trionfo elettorale, l’entusiasmo degli elettori che aveva proiettato Barack Obama alla Casa Bianca sembra essere in parte scemato. Approdato alla guida di un paese affascinato dalla sua promessa di cambiamento, dopo i due mandati di George W. Bush ed altrettante guerre dispendiose, il primo presidente nero della storia americana ha visto spegnersi a poco a poco lo slancio delle molte iniziative di legge delineate durante la campagna elettorale dello scorso anno, nonostante una schiacciante maggioranza democratica al Congresso. Oltre alle evidenti incertezze di Obama, la paralisi di numerose iniziative che occupano un posto di primo piano nell’agenda presidenziale, o la loro approvazione in una versione decisamente moderata, sono anche la conseguenza di una procedura parlamentare che si risolve spesso in un formidabile strumento di potere in mano alla minoranza.

Il cosiddetto “filibuster” è un procedimento previsto dal regolamento del Senato degli Stati Uniti - non contemplato dalla Costituzione - che sempre più viene visto con preoccupazione dai leader del partito di maggioranza. Questo dispositivo ratifica l’ostruzionismo della minoranza prolungando indefinitamente il dibattito parlamentare e divenne famoso con il film di Frank Capra del 1939, “Mr. Smith va a Washington”, nel quale un senatore idealista interpretato da James Stewart sfidava gli interessi dei poteri forti bloccando i lavori della Camera alta del Congresso. Impiegato da qualche anno con uno spirito ben diverso da quello originario, il “filibuster” ha assunto ormai un carattere profondamente antidemocratico che compromette in maniera palese il diritto di legiferare della maggioranza.

Rimasto una pura opzione teorica fino agli anni Trenta del XIX secolo, il “filibuster” permette di far proseguire a oltranza il dibattito in aula quando si vuole evitare un voto finale su una determinata legge. Inizialmente, i senatori che si opponevano all’avanzamento di un provvedimento erano tenuti a non abbandonare l’aula e a parlare per un periodo di tempo indefinito. Nel momento in cui si esaurivano gli interventi dei “congressmen” di minoranza, il “filibuster” decadeva automaticamente e si dava luogo alle procedure di voto. In questo quadro normativo, non erano rari i discorsi interminabili di senatori che resistevano per ore parlando degli argomenti più disparati per allungare il dibattito. A tutt’oggi, il primato per il più lungo “filibuster” appartiene al senatore democratico e poi repubblicano Strom Thurmond, il quale per cercare di bloccare la legge sui diritti civili del 1957 parlò per ben 24 ore e 18 minuti.

Per impedire questa pratica è necessario che i tre quinti dei senatori (60 su 100) votino una mozione che ponga fine al dibattito (“cloture”). Sessanta è precisamente il numero di senatori su cui il Partito Democratico può attualmente contare (58 democratici più 2 indipendenti), un margine che teoricamente metterebbe al riparo dall’ostruzionismo repubblicano. Le profonde divisioni tra l’ala più moderata e quella progressista, tuttavia, stanno impedendo l’avanzamento spedito di progetti di legge importanti, già approvati dalla Camera dei Rappresentanti (dove il “filibuster” era previsto fino al 1842), come la riforma sanitaria e la riduzione delle emissioni in atmosfera. Anche il dissenso di un singolo senatore democratico, di fronte all’opposizione compatta del Partito Repubblicano, può così impedire il passaggio di una legge, costringendo spesso i leader di maggioranza a estenuanti negoziazioni per assicurarsi il voto compatto dei propri senatori.

La degenerazione e l’abuso del “filibuster” nel Senato degli Stati Uniti é chiaramente visibile nei numeri. Se nella legislatura del 1967-1968 fu invocato in sole sei occasioni, dieci anni dopo si sarebbe saliti a 13, per giungere a 43 nel 1987-1988, 53 nel 1997-1998 e addirittura 112 tra il 2007 e il 2008. Un’escalation che sta producendo effetti dirompenti sull’attività legislativa, causando spesso una vera e propria paralisi. La situazione è stata resa poi ancora più drammatica dopo una variazione apportata al regolamento del Senato nel 1975. In quell’occasione il “filibuster” venne reso “invisibile”, rendendo sufficiente cioè la sola minaccia di esso per bloccare il voto su una determinata legge.

Oggi basta infatti la prospettiva di 41 voti per far scattare il “filibuster, mentre non è più necessaria la presenza in aula a oltranza dei senatori ostruzionisti. Pertanto, se il leader della maggioranza al Senato non è in grado di mettere assieme i 60 voti necessari per far avanzare un determinato procedimento, quest’ultimo rimane bloccato in attesa di modifiche e compromessi che verosimilmente possano convincere i parlamentari recalcitranti. Questa è la sorte che sta toccando, tra gli altri, ai progetti di legge sul cambiamento climatico - approvato dalla Camera la scorsa estate - e per la semplificazione del processo di sindacalizzazione nelle fabbriche americane (EFCA) licenziato dalla Camera bassa nel marzo del 2007.

Gli unici provvedimenti che sfuggono al “filibuster” sono quelli relativi alle questioni di bilancio. In questo caso si fa ricorso ad un processo legislativo definito “reconciliation”, grazie al quale vengono drasticamente limitati sia la durata del dibattito sia eventuali emendamenti. Tali leggi possono essere così approvate con una maggioranza di soli 51 voti a favore.

Mentre la soppressione del “filibuster” richiederebbe un voto sulla modifica delle norme del Senato, da approvarsi con i due terzi dei senatori presenti in aula, esiste però fin da ora una soluzione per vincere l’ostruzionismo dell’opposizione, sebbene inutilizzata da tempo. Come ha suggerito recentemente in un suo editoriale Jerome Karabel, docente di sociologia a Berkeley, per superare il muro repubblicano sulla questione della riforma sanitaria, il numero uno dei democratici al Senato, Harry Reid, non dovrebbe far altro che ripristinare la procedura originaria del “filibuster”.

Ogni senatore contrario alla riforma dovrebbe essere perciò chiamato a esporre i propri argomenti in aula fino all’esaurimento del dibattito (e anche proprio), per quanto lungo esso possa profilarsi. Il “filibuster”, infatti, può essere superato anche lasciando in agenda la stessa legge per un periodo indefinito, senza aggiungere altre questioni all’ordine del giorno del Senato. Per evitare scontri troppo aspri tra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno dello stesso partito di maggioranza, bloccare una legge opposta da almeno 41 senatori per passare ad altre questioni, invece, è diventata ormai pratica comune.

La sorte di un dibattito pubblico di questo genere, teoricamente ad oltranza, non sarebbe in realtà già scritta. Nel caso della riforma sanitaria, esso servirebbe quantomeno a portare alla luce del sole le divergenze presenti nei due schieramenti e, soprattutto, consentirebbe di spiegare agli elettori le ragioni di quei senatori, repubblicani e democratici, che si oppongono all’allargamento della copertura sanitaria a decine di milioni di americani che tuttora ne sono sprovvisti. Uno scenario, tuttavia, molto improbabile, che nelle prossime settimane lascerà il posto piuttosto ad un dibattito tutto interno al Partito Democratico e che condurrà, nella migliore delle ipotesi, ad una riforma ben lontana dagli obiettivi di universalità e accessibilità che lo stesso Obama aveva promesso prima di dover fare i conti anche con le regole del Senato degli Stati Uniti d’America.

di Nicola Lillo

“Finalmente”. È questa l’espressione con cui Barroso, presidente della Commissione europea, ha celebrato l’effettiva entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Dal primo dicembre siamo dunque entrati nell’era del Reform Treaty (“trattato modificativo”). Sottoscritto a Lisbona il 13 dicembre 2007, il Trattato era destinato ad entrare in vigore il primo gennaio 2009. La non approvazione da parte dell’Irlanda, tramite referendum, ha però rallentato i tempi. Ma adesso, l’Europa di Lisbona, inizia “finalmente” la sua marcia.

Il Trattato è frutto dell’abbandono del progetto di costituzionalizzazione dell’Unione con la Conferenza intergovernativa di Laeken del dicembre 2001. L’idea era quella di redigere una vera e propria Costituzione europea. Nel 2003 la bozza fu presentata a Salonicco. Ma con i referendum svoltisi in Francia e in Olanda, nel maggio e giugno 2005, hanno prevalso i voti contrari. Anche se nella maggioranza degli Stati membri, fra cui l’Italia, prevalse la ratifica tramite voti di parlamentari, lo sconquasso fu tale che il vertice europeo optò per una “pausa di riflessione” nel processo di ratifica.

Nei successivi Consigli Europei si approdò, dunque, ad un ben più modesto Reform Treaty. Ma quali sono le novità? Innanzitutto la UE ha acquisito una personalità giuridica, e ciò comporta che potrà firmare trattati internazionali e agire sulla scena mondiale come un vero e proprio Stato. Inoltre sul piano istituzionale è previsto il voto a doppia maggioranza per le delibere del Consiglio, sia degli stati che delle popolazioni. L’Unione avrà poi la possibilità di lanciare politiche di cooperazione rafforzata anche in materie di politica estera, sicurezza e difesa.

Punto centrale del cambiamento è senz’altro l’elezione del Presidente del Consiglio, a maggioranza qualificata, che resta in carica per due anni e mezzo. Non ci sarà più, dunque, la durata in carica di sei mesi, a rotazione per ciascuno Stato membro. Altro elemento di novità è l”Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”, Mister Pesc, chiamato a guidare la politica estera e di sicurezza dell’Unione. Il primo presidente stabile del Consiglio sarà il premier belga Herman Van Rompuy, mentre la britannica Catherine Ashton (“ma chi è?” ha detto un esterrefatto Romano Prodi) sarà “ministro degli esteri”.

Entrambi graditi dai leader nazionali, su tutti Francia e Germania, per non rischiare di essere messi in ombra da chi sale sul palcoscenico d’Europa, hanno risposto alle numerose critiche chiedendo di essere giudicati su quello che faranno. In realtà per diversi giorni si è parlato di D’Alema come Mister Pesc, poi cassato da un accordo tra i leader socialisti del Pse, i quali lo hanno sostituito con la laburista Ashton, nominata anche vicepresidente della Commissione Europea. D’Alema aveva suscitato forti resistenze nei nuovi paesi membri, che si erano preoccupati per il suo passato da leader comunista. Ma, secondo indiscrezioni, anche i suoi trascorsi di politica italiana, come uomo che aveva abbandonato Prodi, potrebbero aver pesato. Nomina del “leader Massimo” che avrebbe, comunque, imposto il ritiro di Antonio Tafani del Pdl, responsabile UE dei trasporti, ora confermato.

Catherine Ashton, baronessa cinquantatreenne, mai votata da alcun elettore, avendo ricevuto solo una sfilza di nomine, è apprezzata da Blair e ritenuta vicina a Gordon Brown. Le poltrone da lei occupate centrano però poco con il suo incarico attuale (era Commissario al Commercio). Non cimentatasi mai in politica estera, ha riempito due caselle nello stesso tempo, avendo inoltre femminilizzato i vertici europei. La baronessa, avrebbe affermato di essere stata scelta “perché sono la migliore”.

Van Rompuy, settantaduenne, fiammingo democristiano, appoggiato sia dalla cancelliera tedesca Angela Merkel che da Nicolas Sarkozy, ha un profilo certamente più elevato della collega, essendo riuscito a far uscire il Belgio da una lunga e pericolosa lotta interna tra fiamminghi e valloni.
Il ruolo di Von Rompuy si profila, comunque, secondario, come ha fatto capire anche Silvio Berlusconi, il quale si è permesso di riprenderlo per essere arrivato in ritardo al pranzo di prefettura. “Il presidente non ha iniziato bene perché è arrivato con un‘ora di ritardo ma adesso gli insegno io”. Assumerà le funzioni dal primo gennaio 2010, in modo da consentire la fine del mandato di presidenza affidato in questi sei mesi alla Svezia. Proposte, e ormai cariche, di basso profilo. Non delle grandi personalità per l’Unione Europea.

Hanno, dunque, vinto le tre grandi capitali. Due cariche che non faranno certo ombra al binomio franco-tedesco, quello che Sarkozy e Merkel volevano: stabilizzare l’asse Parigi Berlino.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Bush se n'è andato ma la sua dottrina torna di moda alla Casa Bianca. L'ex-presidente americano andrà fiero dell'ultimo discorso di Barack Obama e della sua pesante escalation militare in Afghanistan. Nonostante la presenza di Al Qaeda sia stata debellata, gli USA nell'ultimo anno hanno raddoppiato le truppe, ufficialmente per “prevenire il ritorno di questo cancro” nel paese. Facendosi beffe non solo degli afghani, ma della stessa maggioranza di americani, contraria alla guerra.

Se lo scopo dell'occupazione militare dell'Afghanistan fosse stato debellare il network terrorista di Osama Bin Laden e i suoi campi di addestramento, Barack Obama potrebbe senz'altro proclamare “missione compiuta,” come fece Bush all'indomani dell'invasione irachena. Ma al contrario del tragicomico autogol di Bush allestito su una portaerei a San Diego, questa volta la missione è stata portata a termine con successo. Come ha confermato il generale James Jones, consigliere per la Sicurezza Nazionale, la presenza di Al Qaeda in Afghanistan “è stata ridotta a meno di cento combattenti, nessuna base, nessuna capacità di lanciare attacchi contro di noi e i nostri alleati.”

Se Al Qaeda è stata sconfitta, a cosa serve la colossale escalation militare che porterà il numero di truppe americane ad un totale di centomila unità? Obama ha fornito la nuova versione dei fatti: si resta in Afghanistan per prevenire il ritorno degli jihadisti. Bentornata guerra preventiva. Per quanto possa sembrare paradossale, questa è la nuova/vecchia strategia americana.

La commentatrice liberale americana Rachel Maddow ha fatto un breve esperimento mediatico in diretta su MSNBC, sovrapponendo i due discorsi tenuti a West Point da Obama questa settimana e da Bush nel 2002, all'indomani dell'invasione. Gli Stati Uniti non possono lasciare l'Afghanistan perché “se aspettassimo che le minacce si materializzino pienamente, avremmo atteso troppo a lungo. Dobbiamo portare l'attacco in campo nemico, scompaginare i suoi piani e confrontare le minacce più insidiose prima che vengano alla luce.” Parole di Barack Obama? No, si tratta di George W. Bush e della famosa dottrina sulla guerra preventiva che avrebbe portato da lì a un anno all'attacco all'Iraq. Chi pensava che quella dottrina fosse stata sepolta per sempre tra le aberrazioni della storia, si sbagliava di grosso.

Secondo Obama, l'escalation militare in Afghanistan servirà a creare una polizia e un esercito afghano e “nell'estate 2011 le truppe americane potranno cominciare il ritiro”, giusto in tempo per la campagna elettorale per le elezioni presidenziali dell'anno successivo (ma il Segretario alla Difesa Gates ha già corretto il tiro verso il 2013).

Tutto il Pentagono è schierato per l'aumento delle truppe, forte del successo della celebre “surge”, l'escalation che nel 2007 portò ad un definitivo miglioramento della situazione in Iraq. A Baghdad, la feroce guerra civile tra i diversi gruppi armati, sciiti contro sunniti e jihadisti contro tutti, causava ogni giorno decine di morti civili iracheni. La popolazione civile era stremata dalle tensioni etniche e dai continui attacchi dei militanti e dunque l'escalation americana, portando sicurezza in alcune zone del paese e ponendo fine alla carneficina, riuscì in parte a vincere il consenso della popolazione. Grazie soprattutto all'idea di mettere a libro paga i combattenti sunniti al prezzo di dieci dollari al giorno.

In Afghanistan, le truppe occidentali dovrebbero stanare e sconfiggere la resistenza talebana. Ma questi militanti non stanno orchestrando una guerra civile. I loro attacchi sono per lo più rivolti contro le forze di occupazione occidentali e contro le strutture del governo Karzai, considerate al soldo dell'esercito americano. Dunque un'operazione analoga alla “surge” irachena avrebbe l'effetto opposto di aumentare la violenza della guerra, non diminuirla. L'origine del conflitto in Afghanistan è la presenza stessa delle truppe straniere. La soluzione al conflitto, dunque, non è militare, ma politica: si tratta della “riappacificazione” tra Karzai e il Mullah Omar, voluta dallo stesso Karzai, che si è detto pronto ad aprire il dialogo con il capo della resistenza.

Il vero problema è il Pakistan: lì si sta combattendo la guerra sporca delle forze della CIA, che agiscono sotto copertura e bombardano incessantemente le zone al confine con l'Afghanistan usando i famigerati “droni,” velivoli senza pilota comandati elettronicamente. Le stragi di civili, causate dai droni americani, hanno fatto infuriare la popolazione pakistana, per la quale Osama Bin Laden è ormai molto più popolare dello stesso presidente pakistano. Ma per assicurarsi la stabilità in Pakistan, il Congresso USA ha letteralmente inondato il paese di soldi: sette miliardi e mezzo di dollari in cinque anni solo in aiuti civili, oltre ai 5,8 miliardi già regalati finora. Il 76% dei quali, secondo il Boston Globe, sono letteralmente spariti.

Ma se le truppe in Afghanistan non servono a sconfiggere i terroristi, e se per fermare la guerra con i talebani sono in arrivo dei negoziati tra Karzai e il Mullah Omar, allora a cosa servono questi centomila soldati americani? A chiederselo sono ormai la maggioranza degli americani. Il 55% della popolazione disapprova il modo in cui Obama sta gestendo la guerra (era solo il 34% in Marzo). Un'opposizione in aumento costante che rappresenta un ostacolo pesantissimo sul futuro politico del presidente, la cui popolarità è in caduta libera (dal 70% di quest'inverno è passata al 51%).

L'escalation in Afghanistan è off limits per la sinistra del partito democratico, già messa alle strette dalla battaglia sulla riforma sanitaria. Il risparmio di 26 miliardi di dollari derivante dal ritiro delle truppe dall'Iraq verrà spazzato via dall'aumento di 30 miliardi all'anno della nuova escalation. Portando così il bilancio militare americano per il prossimo anno a raggiungere l'ennesimo record di 774 miliardi di dollari. Le spese per la guerra aumentano a dismisura, togliendo linfa vitale al budget per il piano di stimolo occupazionale in discussione giovedì alla Casa Bianca. Si è tornati allo scontro “armi contro burro” in voga tra i democratici durante la guerra del Vietnam.

Il parallelo con la guerra del Vietnam offre probabilmente l'unica chiara chiave di lettura di questa escalation militare. Secondo Tom Engelhardt della rivista liberale The Nation, Obama si è trasformato da “comandante in capo” a “comandato in capo”, piegando il capo di fronte alle richieste insubordinate dei suoi generali, che da mesi chiedevano un'escalation in stile Vietnam.

La situazione in cui si trova Obama è molto simile a quella in cui si trovò il presidente democratico Lyndon Johnson nel 1964. Con una situazione drammatica in patria, mentre preparava la prima grande riforma sanitaria (proprio come Obama ora) e le leggi per i diritti civili, LBJ decise la massiccia escalation militare che portò dopo molti anni ad una rovinosa sconfitta, con tre milioni di morti vientnamiti e sessantamila morti americani.

“Non penso che valga la pena combattere questa guerra e non penso che riusciremo a venirne fuori. È il più grande dannato casino che abbia mai visto,” diceva LBJ, mentre con l'altra mano firmava l'ordine di aumento delle truppe. Ritirarsi avrebbe provocato “l'effetto domino,” la caduta nelle mani dei comunisti di tutti i paesi confinanti. Pericolo rosso ieri, guerra al terrore oggi, cambia il pretesto ma non il risultato. Per non apparire “debole sulla sicurezza”, Barack Obama ha fatto sua la guerra in Afghanistan fin dalla campagna elettorale e, con questa escalation, vuole raggiungere un seppur minimo risultato che gli permetta di “ritirarsi con onore” fra qualche anno.

L'inquietante parallelo con la guerra in Vietnam viene richiamato quotidianamente sui media americani e senza dubbio entrerà a far parte del discorso politico nei prossimi anni. Persino il Nobel per la pace ad Obama ricorda sinistramente quello conferito ad Henry Kissinger nel 1973, dopo una conferenza di pace che certamente non pose fine alla guerra e nonostante il suo ruolo cruciale nel colpo di Stato in Cile e nel bombardamento della Cambogia. Rimane una magra consolazione: pensate a quante più truppe avrebbe spedito Barack Obama a Kabul se non gli avessero dato il Nobel per la Pace!

di Fabrizio Casari

Johannes Cornelis van Baalen, parlamentare europeo, è il Presidente dell’Internazionale liberale, una specie di setta degli inutili che potrebbe riunire le sue assisi internazionali in una cabina del telefono. L’influenza dell’organizzazione, poi, è simile al nulla e quindi presiederla non rappresenta certo l’aspirazione massima per nessuno. Ma Johannes van Baalen si sente investito di una vera e propria missione politica; si agita molto e fa di tutto per rendersi utile ai circoli dell’estrema destra europea e statunitense. Le sue recenti avventure l’hanno visto protagonista di un giro per l’America centrale dove, alla testa di una delegazione quantomeno imbarazzante, ha offerto il meglio di sé. La prima tappa del suo viaggio è stata il Nicaragua, dove van Baalen ha incontrato esponenti dell’opposizione e del governo.

Fino a quando gli incontri hanno riguardato gli esponenti politici governativi, l’impressione che van Baalen dava era quella di un personaggio che miscelava arroganza ed ignoranza; pazienza, avevano pensato le autorità nicaraguensi, non è né il primo né l’ultimo esponente politico con siffatte caratteristiche a recarsi in visita nel paese dal 1979 ad oggi. Ma negli incontri con l’opposizione van Baalen ha offerto la definitiva prova delle due qualità già evidenziate, chiedendo letteralmente ed insistentemente ai vertici militari di promuovere un colpo di Stato contro il legittimo governo guidato da Daniel Ortega ed offrendo agli eventuali golpisti l’appoggio sia dell’Internazionale liberale che del Parlamento Europeo.

La risposta dei militari è stata, naturalmente, quella di spiegare al soggetto che l’esercito nicaraguense risponde alla Costituzione ed al potere politico, ma quella della Cancelleria nicaraguense è stata ancora più chiara: l’idiota ha avuto un decreto di espulsione e 24 ore di tempo per lasciare il paese. Ha protestato e minacciato il presunto esponente politico, ma ha capito rapidamente che era meglio sbrigarsi e lasciare il paese di Sandino. E così ha fatto, recandosi in Honduras, dove è corso ad abbracciare il golpista Micheletti al quale ha rinnovato l’appoggio politico suo e della setta di cui è presidente.

A Micheletti non sembrava vero: da quando si è illegittimamente insediato, van Baalen è il primo esponente politico che accetta d’incontrarlo pubblicamente e, soprattutto, dei molti ad averlo appoggiato in silenzio (il Dipartimento di Stato Usa in primo luogo), van Baalen è il primo a farlo apertamente. Avere l’appoggio di ipotetici liberali alla vigilia delle elezioni farsa, era merce politica da esibire.

“E’ stato un piacere dire al presidente Micheletti che il congresso dell’Internazionale liberale, due settimane orsono, lo ha eletto come uno dei suoi Vicepresidenti”. Queste, mica altre, le parole di van Baalen a Tegucigalpa. Parole vergognose cui hanno fatto seguito dichiarazioni da neurodeliri, come “con il suo coraggio, Micheletti ha reso possibile che il processo elettorale abbia luogo il 29 novembre: questo é un atto enorme, e valoroso in favore della democrazia”.  Dunque il golpista Micheletti è Vicepresidente dell’Internazionale liberale: due buffonate in una persona sola.


Lasciata Tegucigalpa, l’eurodeputato olandese é rientrato a Strasburgo: ancora euforico per aver visto la sua foto su un paio di giornali golpisti, dev’essersi convinto che la sua uscita dall’anonimato era ormai definitiva. Ha quindi convinto il suo gruppo al Parlamento Europeo a riunirsi ed a proporre un voto contro il Nicaragua. Il voto è stato espresso nell’ambito di una sessione dedicata ai “motivi urgenti” senza che fosse stata data preventiva informazione sul fatto che nella seduta si prevedesse un voto contro il Nicaragua. Il motivo del voto? “Minacce, insulti ed intimidazioni ricevute dalla delegazione dell’Internazionale liberale in Nicaragua”. Il gruppo socialista, i Verdi e la Sinistra Unita (Gue) non hanno partecipato al voto ed hanno protestato per la strumentalità e la scorrettezza dell’agire del gruppo liberale, che non ha avvertito le commissioni di quale risoluzione sarebbe stata oggetto del voto.

Ma la cosa sconcertante è che il Parlamento Europeo non sente il bisogno di una mozione di censura a van Baalen. Sarebbe bene ricordare che l’Unione Europea si è pronunciata unitariamente in maniera durissima contro il golpe in Honduras, contro il quale ha promosso sanzioni politiche e commerciali ed ha ripetutamente chiesto il reintegro al governo del deposto Presidente legittimo, Manuel Zelaya.

Van Baalen e i liberali devono essersi distratti nella circostanza. Avranno pensato che l’essere nati in Europa conferisce loro una patina di superiorità che li esime dal dovere della decenza. Si chiamano liberali ma stanno con i golpisti. Contraddizioni grandi per un gruppetto minuscolo di inutili.


 

di Michele Paris

Dopo tre mesi di incertezze e ripensamenti, Barack Obama ha alla fine ceduto alle richieste dei vertici militari americani dando il via libera all’invio di 30.000 soldati da impiegare in Afghanistan entro la metà del prossimo anno. La decisione definitiva è stata annunciata in diretta televisiva dal presidente presso l’Accademia Militare di West Point di fronte ad un pubblico di 4.000 cadetti, molti dei quali destinati a morire in territorio afgano nei prossimi mesi. Nonostante il richiamo a quell’unità che gli Stati Uniti avevano dimostrato all’indomani dell’11 settembre, il discorso dell’inquilino della Casa Bianca è sembrato estremamente contraddittorio, rivelando le profonde divisioni all’interno dell’establishment politico e tra gli stessi cittadini americani su un conflitto che appare ormai a molti senza via d’uscita.

Dopo otto anni di conflitto, oltre 900 soldati americani deceduti e più di 200 miliardi di dollari spesi, la sfida di Obama per rovesciare in Afghanistan una tendenza che ha visto il crescente controllo del paese da parte dei ribelli talebani, porta con sé non pochi rischi. L’appoggio ad un governo profondamente corrotto e screditato come quello di Karzai, l’intensificarsi delle azioni militari che inevitabilmente produrranno migliaia di ulteriori perdite tra la popolazione civile e l’inasprimento delle tensioni nel continente asiatico in seguito alla maggiore presenza americana, difficilmente si tradurranno da qui a un paio d’anni in risultati concreti. E le conseguenze politiche del prevedibile fallimento finiranno per pesare come un macigno sulle prospettive di Obama nelle elezioni presidenziali del 2012.

La promessa di nuove truppe che dovrebbero essere integrate dai contingenti di alcuni paesi europei - Italia compresa - è stata accompagnata dall’annuncio di un impegno per una “exit strategy”, il cui inizio è stato inverosimilmente fissato per la metà del 2011. La contemporanea espansione del coinvolgimento americano e il profilarsi di una fine della guerra, sia pure vincolata alle condizioni sul campo, riflette la necessità di Obama di districarsi tra lo scetticismo, da un lato, di una buona fetta dei parlamentari democratici e dell’opinione pubblica e il desiderio, dall’altro, dei militari e di un’opposizione repubblicana che sarà probabilmente decisiva in vista della prossima approvazione al Congresso dei fondi necessari all’escalation.

Il prolungamento dell’impegno militare americano costerà circa 30 miliardi di dollari solo nel prossimo anno e le risorse economiche per sostenerne il costo dovranno uscire da un dibattito parlamentare che si annuncia teso. Se i repubblicani - in gran parte entusiasti per l’invio di nuove forze ma delusi dalla scadenza fissata per il disimpegno militare - saranno pronti a rimediare a defezioni tra le file della maggioranza, già si sono detti contrari ad appoggiare una tassa aggiuntiva sui redditi proposta dai democratici per continuare a finanziare la guerra.

Dopo le delusioni incassate negli ultimi mesi, lo sconforto tra la sinistra del partito di governo e l’elettorato liberal è così aumentato ulteriormente all’indomani dell’annuncio di una strategia che molto ricorda quella avviata dall’allora presidente Bush nel 2007 per invertire le sorti del conflitto in Iraq, alla quale Obama si oppose. Come il cosiddetto “surge” iracheno, dicono dalla Casa Bianca, il piano stabilito per Kabul prevede la (ri)costruzione dell’esercito afgano e delle forze di polizia locali che dovrebbero farsi carico in futuro della sicurezza interna. A differenza di quanto avvenuto in Iraq, tuttavia, l’aiuto fornito all’Afghanistan sarà vincolato a determinati traguardi che il governo di Karzai dovrà raggiungere. Meno chiare sono però le conseguenze alle quali quest’ultimo andrà incontro in caso di mancato adempimento degli obblighi stabiliti da Washington.

Altro punto fondamentale della strategia americana sarà il Pakistan, da dove si teme un’uscita di scena troppo rapida degli Stati Uniti dall’Afghanistan, ma allo stesso tempo viene visto con timore un aumento delle forze occupanti nel paese confinante per possibili nuove ripercussioni interne. Per quanto Obama non abbia definito in maniera esplicita la posizione degli USA nei confronti di Islamabad, pare che già ci sia l’OK della Casa Bianca ad una maggiore presenza della CIA in questo paese e per un aumento delle incursioni dei droni che hanno causato centinaia di vittime civili negli ultimi anni ed alimentato un diffusissimo sentimento anti-americano.

Con la presenza in Afghanistan di militanti di Al-Qaeda ridotta, per stessa ammissione del Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Obama, Generale James L. Jones, a un centinaio di uomini, il pantano afgano a otto anni dall’invasione dimostra allora, e in maniera sempre più evidente, il carattere imperialista di un conflitto combattuto ormai contro la volontà della maggioranza delle popolazioni americana ed europea (per non parlare di quella afgana).

La decisione, che minaccia di avere conseguenze rovinose, oltre che per le condizioni di vita delle popolazioni locali e le sorti dei soldati impegnati, per le stesse prospettive dell’intera presidenza Obama, condurrà fatalmente ad un coinvolgimento americano della durata indefinita e dagli effetti destabilizzanti. Un’occupazione senza alcuna fine in vista e asservita unicamente ad assicurare a Washington una posizione dominante in un’area del pianeta ricca di risorse naturali e strategicamente fondamentale per controbilanciare la crescente influenza di altre potenze come Cina, India, Russia e Iran.


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