di Michele Paris

La pena capitale negli USA è un argomento che Barack Obama ha preso in considerazione solo alla lontana nel corso della sua campagna elettorale dello scorso anno. Una volta approdato alla Casa Bianca, la questione è poi completamente sparita dall’agenda di un presidente già oberato da problemi enormi e ben attento a non esporsi troppo su un argomento così delicato nei primi mesi del suo mandato. I poteri conferiti al presidente negli Stati Uniti in merito alla sorte dei condannati a morte nel circuito federale e i casi pendenti di sei detenuti nel braccio della morte che potrebbero finire presto sul suo tavolo promettono tuttavia un coinvolgimento di Obama nei prossimi mesi, quando sarà probabilmente costretto a chiarire la sue posizioni, a tratti contraddittorie, sulla pena di morte.

di Carlo Benedetti

Parte il “Nabucco”. Il già tanto progettato gasdotto è in pista. L’accordo, raggiunto ad Ankara dinanzi al presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, vede come firmatari Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. Tutti paesi che saranno attraversati per portare il gas del Mar Caspio in Europa senza passare dalla Russia. Comincia così una nuova pagina di geoeconomia. Eppure questo sospirato accordo intergovernativo non dissipa i forti dubbi di esperti, economisti e politici sulla sostenibilità finanziaria del costosissimo megagasdotto (almeno 7,9 miliardi di euro per 3.300 chilometri di tubi destinati a convogliare in Europa a partire dal 2015 fino a 31 miliardi di metri cubi l'anno) destinato a determinare il corso dei nuovi processi economici. Il progetto dovrebbe entrare in servizio nel 2014 con un costo stimato di 7,9 miliardi di euro, sostenuto dalla Commissione Ue, dagli Stati Uniti e, soprattutto, da diversi Paesi dell'est Europa, ansiosi di diminuire la loro dipendenza dal gas russo e dalle vie russe di approvvigionamento di gas naturale, rivelatesi negli ultimi anni a tratti incerte. E di conseguenza si avvia un processo di disgregazione economica.

di Giuseppe Zaccagni

Quella leggendaria di Mao Tze Tung cominciò nell’ottobre del 1934. Per 10mila chilometri le forze rivoluzionarie cinesi si spostarono dal Kiangsi alla regione dello Shaanxi settentrionale. Qui, una volta arrivati, i comunisti si stabilirono nella città di Yen-an, dove Mao fissò il suo quartier generale dando vita ad una nuova repubblica comunista. Ora a muoversi, invece, saranno gli uiguri (un’agguerrita minoranza di musulmani sui circa 20 milioni esistenti in tutta la Cina) che rifiutano il potere di Pechino. E questo vuol dire che, dopo i tibetani, si apre un nuovo banco di prova per Hu Jintao. Siamo nella regione autonoma dello Xinijang, dove un’avanguardia di circa 200 uiguri (l'etnia musulmana maggioritaria nella regione) forte dei suoi legami con l’estero, protesta nel quartiere musulmano d’Urumqi contro la polizia cinese, posta in difesa di un quartiere dove risiede la popolazione d’etnia Han (maggioritaria). I manifestanti hanno armi improvvisate, come pugnali legati a bastoni, tubi e pietre con cui si trovano a fronteggiare cordoni di polizia e militari. Si registrano scontri quotidiani e in questa lotta emerge sempre più un leader degli uiguri. E’ una donna e si chiama Rebiya Kadeer ed è la presidente del Consiglio mondiale degli uiguri (Cmo).

di Eugenio Roscini Vitali

Nei giorni scorsi due navi da guerra con le insegne della Stella di David, la Hanit e la Eilat, hanno attraversato il canale di Suez e si sono dirette verso il Golfo di Aden, dove da alcune settimane incrocia uno dei tre sottomarini Dolphin in forza alla Marina Militare israeliana. Un messaggio chiaro, che si va ad aggiungere alle manovre navali condotte qualche settimana fa nel Mar Rosso e all’accelerazione dei progetti volti a dare a Israele uno scudo antimissilistico. Fatti che confermano la grave situazione di instabilità e di insicurezza in cui versa il vicino Medio Oriente e che dimostrano come lo Stato ebraico sia pronto a dar seguito a quelle che fino a ieri erano solo promesse. Secondo una fonte anonima del quotidiano britannico The Times, i governi occidentali starebbero lavorando a un accordo con Gerusalemme che, in cambio di concessioni l’Autorità Nazionale Palestinese, avrebbe il sostegno di gran parte della comunità internazionale ad un attacco israeliano contro le installazioni nucleari iraniane.

di Michele Paris

L’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti e il rafforzamento di una maggioranza democratica al Congresso dopo le elezioni dello scorso novembre hanno risvegliato le speranze dei lavoratori americani per un clima politico più propizio alle proprie rivendicazioni, dopo decenni di politiche “business-friendly” tese a soffocare la rappresentanza sindacale nelle aziende. Tanto più che alcune recenti sentenze di corti federali e deliberazioni del Comitato Nazionale per le Relazioni Sindacali (National Labor Relations Board o NLRB) hanno appoggiato esplicitamente la parte dei lavoratori in una serie di controversie. Come quella, ad esempio, che ha coinvolto il gigante dell’industria estrattiva Massey Energy, costretto a riassumere 85 dipendenti iscritti al sindacato dopo averli licenziati nel corso dell’acquisizione della loro compagnia in West Virginia. La diversa aria che si respira a Washington tuttavia non ha aiutato, almeno per il momento, a sbloccare il progetto di legge che va sotto il nome di “Employee Free Choice Act” (EFCA), provvedimento chiave per consentire una più semplice sindacalizzazione della forza lavoro negli USA.


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