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di Michele Paris
A meno di due settimane dalla cerimonia ufficiale per la consegna del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama e la sua amministrazione hanno annunciato che gli Stati Uniti continueranno ad abbracciare la politica di George W. Bush sulla proliferazione delle mine anti-uomo, rifiutando di firmare il trattato internazionale che ne sancisce il bando. La persistente mancata adesione da parte degli USA ad un trattato sottoscritto ormai da 156 paesi, tra cui tutti gli altri membri della NATO, non fa altro che alimentare la frustrazione di buona parte degli elettori americani che in questi primi mesi della presidenza Obama, nonostante alcuni innegabili progressi, hanno visto ribaditi puntualmente non pochi metodi ed eccessi che avevano caratterizzato i due sciagurati mandati del suo predecessore.
La decisione di non firmare il cosiddetto Trattato di Ottawa è stata resa nota nel corso del briefing quotidiano al Dipartimento di Stato dal portavoce Ian Kelly, il quale ha spiegato che al termine di una revisione della propria politica, il governo degli Stati Uniti ha deciso non apportare modifiche in questo ambito alla strategia delineata dalla precedente amministrazione. Secondo Washington, la firma del trattato sulle mine anti-uomo non sarebbe compatibile con le esigenze della sicurezza nazionale americana e dei suoi alleati. Successivamente, il ministero degli Esteri USA ha chiarito che il processo di revisione sull’utilizzo delle mine è in realtà tuttora in corso, ma che in ogni caso il suo esito finale non porterà alla ratifica del trattato.
L’annuncio dell’invio per la prima volta di osservatori americani alla conferenza sulla revisione del trattato entrato in vigore nel 1999, che si terrà a Cartagena, in Colombia, dal 29 novembre al 4 dicembre prossimo, non ha placato le proteste delle organizzazioni umanitarie, né di alcuni parlamentari democratici. I più duri critici della decisione americana sono stati il senatore Patrick Leahy e il deputato Jim McGovern, entrambi tra i principali sostenitori del trattato al Congresso, i quali non hanno usato mezze misure per definire l’atteggiamento del loro governo un “errore” e un “insulto” nei confronti della comunità internazionale.
La posizione dell’amministrazione Obama sul bando di ordigni che fanno migliaia di vittime ogni anno - molte delle quali bambini - rappresenta anche una vittoria del Pentagono e dell’establishment militare americano, tradizionalmente ostile al trattato. La vicenda dimostra inoltre quanto negli USA rimanga estremamente diffuso il senso di diffidenza nei confronti dei trattati internazionali, visti come una limitazione alla libertà di azione americana sullo scacchiere mondiale.
Alle richieste dei vertici militari, Obama d’altra parte sta cedendo in maniera evidente in queste settimane anche su una delle questioni più delicate all’ordine del giorno. A dispetto della crescente avversione degli americani per il conflitto in Afghanistan, l’amministrazione democratica continua infatti a definirlo come una “guerra giusta” o “di necessità” e si appresta ad inviare altri 30.000 uomini a partire dal prossimo anno, rischiando una ulteriore destabilizzazione di un paese già completamente nel caos.
Se l’escalation militare in Afghanistan era quanto meno già contenuta nel programma elettorale dell’allora candidato democratico alla presidenza, su molti altri temi si è di fatto assistito ad una vera e propria sconfessione delle promesse di cambiamento. A dispetto della retorica di Obama sul multilateralismo, il ristabilimento della cooperazione internazionale o l’inversione di rotta rispetto ai metodi autoritari promossi nella lotta al terrorismo dal duo Bush-Cheney, in molti casi i miglioramenti sono risultati, nella migliore delle ipotesi, impercettibili.
La realtà con cui Obama una volta alla Casa Bianca si è scontrato è sembrata essere insomma quella di un sistema di potere consolidato che si estende ben al di là di un’amministrazione repubblicana ormai delegittimata agli occhi di gran parte dei cittadini americani. Malgrado la schiacciante vittoria elettorale sul rivale John McCain e l’ampia maggioranza democratica nei due rami del Congresso, Obama nel primo anno da presidente non ha saputo o voluto allontanarsi completamente dalla direzione intrapresa dagli Stati Uniti negli ultimi otto anni, sebbene il mandato popolare meritatamente conquistato nel novembre del 2008 avesse suggerito precisamente una svolta chiara e inequivocabile.
A partire dal suo insediamento alla Casa Bianca è iniziato allora un percorso accidentato, lungo il quale Obama da un lato ha lanciato segnali formalmente importanti, sia pure talvolta troppo timidi nella sostanza, come la chiusura del carcere di Guantánamo, il dialogo con i paesi rivali, la riforma di un sistema sanitario immorale e di un settore finanziario fuori controllo, così come la recentissima promessa di impegnare il proprio paese nella lotta al cambiamento climatico; dall’altro, in molti casi si è ritrovato a ricalcare le impronte lasciate dalla disprezzata amministrazione Bush.
Sul fronte dell’America Latina, ad esempio, i segnali incoraggianti dei primi tempi sono svaniti da qualche mese a questa parte. L’improvviso avallamento del golpe in Honduras ai danni del legittimo presidente, Manuel Zelaya, con l’annuncio del riconoscimento delle elezioni nonostante il mancato reinsediamento di quest’ultimo, rischiano di compromettere la cooperazione promessa con gli altri paesi sudamericani. Allo stesso modo, la firma di un accordo con il governo di Álvaro Uribe lo scorso mese di ottobre per ottenere l’accesso a sette basi militari in Colombia minaccia la stabilità e la pace dell’intero continente.
Alle parole di disgelo pronunciate da Obama nei confronti di Cuba e la cancellazione di alcune restrizioni relative ai viaggi e all’invio di rimesse in denaro verso l’isola, poi, ha fatto seguito la firma sul prolungamento dell’embargo per un altro anno, a dispetto del voto di condanna quasi unanime dell’ONU per il diciottesimo anno consecutivo. Così, sotto la spinta dei parlamentari anti-castristi, i passi avanti promessi verso la normalizzazione dei rapporti con L’Avana si sono risolti per ora in un nulla di fatto. E mentre Obama annuncia di attendere "segnali" da L'Avana, quelli che invia da Washington sono pessimi.
Lo sconforto dei sostenitori di Obama, soprattutto liberal e indipendenti, ha raggiunto però il culmine sulle questioni interne più delicate e sullo smantellamento della condotta antidemocratica dell’amministrazione Bush nella guerra globale al terrorismo. In questi ambiti infatti, sono stati quasi subito messi da parte, tra gli altri, gli impegni per la creazione di un sistema sanitario universale pubblico e per il controllo governativo sulle istituzioni finanziarie responsabili della crisi economica. Ugualmente, si è continuato a impiegare quei procedimenti dalla legalità quanto meno dubbia e tanto cari alla precedente amministrazione, come la detenzione indefinita per i sospettati di terrorismo o il trasferimento segreto di essi verso paesi terzi.
A nemmeno un anno dall’inizio della sua presidenza, Obama dispone teoricamente di tutto il tempo necessario per dare un’impronta di cambiamento al suo mandato. D’altro canto, tuttavia, le incertezze e i compromessi di questi primi mesi non prefigurano progressi sostanziali per l’immediato futuro. Soprattutto alla luce del fatto che il semplice avvicendamento alla guida del paese non sembra aver scalfito minimamente il sistema di potere americano né aver mutato gli interessi strategici di Washington su scala mondiale.
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di Michele Paris
Mentre l’amministrazione Obama si appresta ad annunciare l’invio di decine di migliaia di nuovi soldati in Afghanistan, la strategia americana deve fare i conti con un’ulteriore complicazione: la crescente influenza dell’India nel paese occupato dalle forze NATO all’indomani dell’11 settembre. L’ascendente di Nuova Delhi sul fragile stato afgano rischia infatti di inasprire le tensioni nella regione e di creare non pochi grattacapi agli Stati Uniti, impegnati a convincere il Pakistan - rivale storico dell’India - ad intensificare gli sforzi per combattere i talebani sul proprio territorio e contribuire così a stabilizzare un governo che Islamabad considera irrimediabilmente filo-indiano.
Fin dall’invasione dell’Afghanistan, l’India ha giocato un ruolo di primo piano nelle vicende di questo paese, fornendo innanzitutto un supporto decisivo agli americani in termini d’intelligence e favorendo i contatti con l’Alleanza del Nord anti-talebana. Scorgendo nell’occupazione afgana un’occasione unica per minare l’influenza del Pakistan in Afghanistan e promuovere i propri interessi geopolitici in un’area strategica del continente, l’India ha così progressivamente accresciuto la propria presenza. A tutt’oggi, Nuova Delhi ha investito 1,2 miliardi di dollari nella costruzione d’infrastrutture in Afghanistan, mentre oltre 4 mila cittadini indiani vi lavorano regolarmente nell’ambito delle costruzioni e della sicurezza.
Ulteriori progetti per la realizzazione di arterie stradali che collegano Iran, Afghanistan e India, tagliando fuori il Pakistan, minacciano di gettare ulteriore benzina sul fuoco nelle relazioni tra i vari paesi dell’area. Islamabad teme precisamente un accerchiamento e di veder ridotto il proprio ruolo di primo partner commerciale con l’Afghanistan, la cui quota di commercio estero è scambiato per oltre un terzo proprio con Islamabad. A ciò si aggiunga poi il dispiegamento di quasi 500 uomini delle forze di polizia indiane in territorio afgano, una presenza scaturita dal rapimento e l’uccisione di un ingegnere indiano da parte dei Talebani nel 2006.
L’intraprendenza indiana pone però un dilemma strategico agli Stati Uniti. Se Washington da un lato ha da tempo intrapreso un percorso di avvicinamento all’India in funzione di contenimento della Cina e, anche per questo, vede teoricamente di buon occhio un relativo coinvolgimento della più grande democrazia del pianeta in Afghanistan, dall’altro si trova costretta a muoversi con i piedi di piombo per non suscitare la reazione del Pakistan. Da questo paese dipendono infatti in buona parte le sorti della guerra al terrorismo che si consuma senza prospettive da otto anni a questa parte. Una nuova escalation del conflitto tra India e Pakistan è quindi quanto di peggio l’amministrazione Obama si possa augurare in questo momento.
Forse anche per questo le relazioni tra USA e India hanno fatto segnare un lieve raffreddamento con il cambio della guardia alla Casa Bianca. Mentre George W. Bush aveva promosso senza riserve l’ascensione dell’India a potenza planetaria - senza precedenti è stato, ad esempio, l’accordo sul nucleare nonostante Nuova Delhi non abbia mai firmato il Trattato di Non-Proliferazione - tra i due paesi si sono registrati alcuni attriti a partire da quest’anno. Già durante la sua campagna elettorale del 2008 d’altra parte, Obama aveva irritato il governo indiano quando aveva assicurato il contributo americano alla risoluzione del conflitto in Kashmir nell’eventualità di una collaborazione del Pakistan nella lotta contro Talebani e Al-Qaeda al confine con l’Afghanistan.
Allo stesso modo, in India non si guarda con favore agli sforzi di Obama per spingere il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad adottare una risoluzione che inviti tutti i governi del pianeta a firmare il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (NPT) e quello di Bando Complessivo dei Test Nucleari (CTBT). Entrambi i trattati secondo Nuova Delhi sono discriminatori e potrebbero mettere a rischio il proprio arsenale nucleare. Identici malumori stanno inoltre suscitando tra la classe politica e militare indiana le ipotesi avanzate da più parti negli Stati Uniti per coinvolgere una parte dei ribelli talebani in colloqui di pace con il governo di Karzai. Un’evoluzione che l’India - la quale non aveva mai riconosciuto il governo talebano salito al potere nel 1996 - vedrebbe inevitabilmente come un aumento dell’influenza pakistana a Kabul.
L’India d’altronde ha sempre indirizzato pesanti accuse nei confronti del Pakistan per un’indebita intromissione negli affari afgani. Non solo la presa del potere da parte dei Talebani a metà degli anni Novanta era stata appoggiata da Islamabad (e dagli USA), ma anche le attività del movimento fondamentalista sunnita fino a tempi più recenti hanno avuto il sostegno più o meno esplicito del potente servizio segreto pakistano (ISI), sempre in funzione anti-indiana. Nuova Delhi, così, non ha esitato ad accusare l’intelligence pakistana per il presunto coinvolgimento nei due attentati che hanno colpito la sua ambasciata a Kabul nel luglio del 2008 e lo scorso ottobre. Da parte sua Islamabad continua al contrario a lamentarsi dell’ingerenza indiana in Afghanistan e del sostegno offerto dal suo grande rivale al movimento separatista della provincia pakistana del Belucistan.
Nonostante le resistenze di Washington, da più parti in India si chiede da tempo una maggiore presenza anche militare in Afghanistan. I pochi soldati indiani attualmente presenti in territorio afgano si occupano infatti esclusivamente dell’addestramento delle truppe locali e partecipano a progetti umanitari. Un coinvolgimento militare più profondo nella lotta all’integralismo islamico, secondo la prospettiva di Nuova Delhi, determinerebbe effetti benefici allontanando il terreno del confronto con il Pakistan dal Kashmir e dalle città indiane all’Afghanistan occupato. Uno scenario realizzabile tuttavia solo con il consenso di una Casa Bianca ancora riluttante e che verrà certamente discusso nel corso dell’imminente visita del Primo Ministro Manmohan Singh nella capitale americana.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. I socialdemocratici tedeschi hanno un nuovo presidente: si chiama Sigmar Gabriel ed è stato ministro dell’Ambiente nel precedente governo di Angela Merkel. È lui l’homus novus dell’SPD, cui spetta il difficile compito di far risalire la china a un partito che, dopo i catastrofici risultati delle ultime elezioni, deve mettere in discussione la propria identità per poter riconquistare i dieci milioni di voti persi dal 1998. Eletto durante il congresso di partito di Dresda, Sigmar Gabriel ha ottenuto il 94,4% delle preferenze. Il neo-leader si è detto soddisfatto del risultato e non ha perso l’occasione di sottolineare l’importanza della compattezza all’interno del partito stesso: “È stato un ottimo inizio - ha detto Gabriel - ma, appunto, solo un inizio”.
Gabriel, in particolare, si è rallegrato della capacità dei politici presenti al congresso di guardare avanti e di creare un’atmosfera costruttiva nonostante la situazione critica degli ultimi tempi. “Ho vissuto il congresso come una liberazione, sentivo un gran bisogno di rappacificamento”, ha confessato Gabriel durante il suo discorso.
Giudicato da tutte le personalità interne all’SPD un successo, il convegno di Dresda ha segnato la direzione della rinascita del partito. “La libertà e il bene sociale sono per noi inscindibili”, ha specificato Gabriel. “La destra democratica vede l’economia di mercato come un ordine generale, in cui al singolo è data la possibilità di imporre il proprio diritto alla libertà, dove però, in caso di necessità, a farne le spese sono i più deboli”.
La nuova linea politica della SPD è stata approvata a Dresda con una sola voce contraria su quasi 500 presenti. Tra le altre cose, i socialdemocratici hanno annunciato la volontà di reintrodurre la tassa patrimoniale sui grandi possedimenti “per ristabilire la responsabilità comune del bene sociale” e quella di sopprimere le tasse sull’istruzione, “dall’asilo all’università”. L’interesse del congresso si è concentrato poi sull’Afghanistan, per cui i socialdemocratici esigono maggior chiarezza e una data di rientro per le truppe tedesche.
Le decisioni dei socialdemocratici non hanno mancato di sollevare numerose critiche da parte dei concorrenti politici. I conservatori-liberali hanno intravisto uno spostamento verso sinistra dei nuovi socialdemocratici: “L’SPD non è più un partito del popolo, è diventato clientelare” ha detto Hermann Groehe, il segretario generale della CDU, al domenicale Bild am Sonntag. “Il duello populista con Die Linke non farà che accentuarne la crisi”. Secondo i cristianodemocratici, l’SPD rischia di rinnegarsi e di perdere la propria identità.
Le delibere del congresso di Dresda, tuttavia, hanno sorpreso anche Die Linke: il vice-presidente della sinistra radicale, Kalus Ernst, ritiene “incredibile” la linea proposta da Gabriel, soprattutto nei confronti della tassa patrimoniale, poiché si contrappone alla politica di governo dell’SPD degli ultimi undici anni. Secondo Ernst, queste decisioni non risolvono il problema principale della SPD, che sta proprio nella mancanza di credibilità delle personalità politiche. I socialdemocratici rischiano di “rimuovere” la débacle storica delle ultime elezioni e di non affrontarla con la coscienza della sconfitta.
Con Gabriel, tuttavia, la Spd gioca una delle sue carte migliori: è un politico pragmatico e deciso, ed è capace di farsi valere. In qualità di ministro dell’Ambiente del precedente governo, Gabriel ha saputo dire di no al partito di Angela Merkel, che avrebbe voluto un ritorno al nucleare. E una personalità forte e, in un momento di crisi come quello attuale, é caratteristica da non sottovalutare.
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di Michele Paris
Da oltre una settimana a questa parte, la tensione tra Thailandia e Cambogia è salita alle stelle riportando alla luce rancori e diffidenze che hanno caratterizzato i rapporti tra i due paesi del sud-est asiatico negli ultimi cinquant’anni. In seguito alla nomina a proprio consigliere economico da parte del governo di Phnom Penh dell’ex primo ministro tailandese in esilio, Thaksin Shinawatra, Bangkok ha messo in atto una serie di proteste che hanno riacceso gli animi tra i due paesi confinanti e che minacciano di far riesplodere una crisi politica nella quale la Thailandia è precipitata da tre anni a questa parte.
I primi segnali delle intenzioni cambogiane si erano avuti lo scorso mese di ottobre nel corso di un meeting dei paesi appartenenti all’Associazione del Paesi del Sud Est Asiatico (ASEAN). In quell’occasione il primo ministro della Cambogia, Hun Sen, aveva dichiarato che Thaksin sarebbe stato il benvenuto nel suo paese, dal momento che il governo thailandese aveva consentito al leader dell’opposizione cambogiana, Sam Rainsy, di tenere un discorso a Bangkok nel quale aveva criticato il suo governo per gli scarsi risultati ottenuti sul fronte economico e dei diritti umani.
Già nel 2003, quando Thaksin era primo ministro, i due paesi erano giunti ai ferri corti dopo che l’ambasciata thailandese a Phnom Penh era stata data alle fiamme da un gruppo di dimostranti infuriati per le dichiarazioni di un’attrice thailandese circa la presunta appartenenza al proprio paese di un conteso tempio Khmer situato in una zona di confine. Un’accesa disputa su un altro tempio inoltre, quello di Preah Vihear, assegnato nel 1962 dalla Corte Internazionale di Giustizia alla Cambogia, provoca da tempo occasionali scontri tra i due vicini. Manifestazioni di gruppi di nazionalisti di entrambi i paesi sono esplose con particolare violenza nel luglio del 2008 e nello scorso aprile, quando i due eserciti sono stati protagonisti di scontri a fuoco che hanno provocato una manciata di morti.
Su rapporti già così incrinati si è innestata dunque la questione della nomina dell’ex primo ministro Thaksin, approvata ufficialmente il 5 novembre dal sovrano cambogiano Norodom Sihamoni. Per tutta risposta, il governo di Bangkok, guidato da Abhisit Vejjajiva, ha annunciato l’immediata “revisione di tutti gli accordi” stipulati tra i due paesi, tra cui un’intesa per lo sfruttamento delle risorse naturali - anch’esse contese - situate al di sotto delle acque del Golfo di Tailandia. Alla mossa di Bangkok ha fatto seguito il ritiro dell’ambasciatore cambogiano e, subito dopo, di quello tailandese.
La dura reazione del governo tailandese alla nomina a consigliere del governo cambogiano di Thaksin Shinawatra è dovuta precisamente alla controversa figura di un uomo politico deposto dal proprio incarico in un colpo di stato militare nel settembre del 2006, nonché dal massiccio seguito sul quale può ancora contare nel proprio paese dopo tre anni in gran parte trascorsi in esilio volontario. Miliardario e magnate delle telecomunicazioni, Thaksin ha una condanna in sospeso a due anni di carcere per violazione della legge tailandese sul conflitto d’interessi nell’ambito dei propri affari finanziari.
Da tre anni a questa parte, in Tailandia ha regnato l’instabilità politica. Dopo la dissoluzione del partito di Thaksin (Thai Rak Thai), a fine 2007 la giunta militare indisse nuove elezioni, vinte dagli stessi seguaci dell’ex primo ministro radunatisi nel nuovo Partito del Potere Popolare (PPP). I due deboli governi succedutisi sono stati poi entrambi dissolti da altrettante discusse sentenze della Corte Costituzionale che hanno spianato così la strada verso il potere al leader dei conservatori Abhisit Vejjajiva e al suo Partito Democratico, sostenuto dall’esercito, dalla monarchia e dalla influente burocrazia statale tailandese.
Alla guida di una fragile coalizione nella quale hanno trovato ospitalità molti membri del partito di Thaksin, l’attuale primo ministro thailandese deve fare i conti però con un malcontento diffuso causato dagli effetti della crisi economica e con svariati scandali e accuse di corruzione. Un clima politico acceso quello thailandese e reso ancora più precario dalle condizioni di salute dell’anziano sovrano Bhumibol Adulyadej. Con ampi strati della popolazione ben disposti verso un ritorno in Tailandia di Thaksin Shinawatra, Abhisit ha così cercato di sfruttare la controversia con il governo cambogiano per accusare l’ex primo ministro di scarso patriottismo. Da qui anche la richiesta di estradizione presentata a Phnom Penh, e immediatamente respinta, dopo l’arrivo di quest’ultimo nella capitale della Cambogia per un discorso tenuto di fronte ad economisti e membri del governo di Hun Sen.
Come quello thailandese, anche il governo cambogiano sta in qualche modo utilizzando l’incarico di consigliere affidato ad una personalità straniera - pratica peraltro consueta da parte di Phnom Penh, come dimostra l’impiego in veste di consigliere economico dell’attuale presidente sudcoreano Lee Myung-bak dal 2000 al 2007 - per sviare l’attenzione dai propri problemi interni. Anche qui d’altronde la recessione globale sta colpendo duramente. Inoltre, il regime di Hun Sen deve fronteggiare le continue accuse dei suoi oppositori di essere asservito agli interessi di un altro vicino, il Vietnam. Fu proprio quest’ultimo paese, infatti, ad installare l’attuale premier cambogiano nel 1985, dopo l’invasione che rovesciò il regime di Pol Pot.
I motivi di contrasto tra Thailandia e Cambogia risalgono altresì al loro passato coloniale. I sentimenti anti-francesi nutriti dai thailandesi si sono trasferiti sui cambogiani dopo la loro conquista dell’indipendenza da Parigi nel 1953. Più tardi, la guerra in Indo-Cina degli Stati Uniti avrebbe visto i due paesi su fronti opposti: mentre il regime militare tailandese era un fedele alleato americano, la Cambogia mantenne la sua neutralità. Negli anni Ottanta, infine, dopo la caduta dei Khmer Rossi la Tailandia diede rifugio a molti esponenti del regime dissolto. A dispetto dei difficili rapporti, Bangkok era comunque diventata il principale partner commerciale di Phnom Penh, ma negli ultimi anni questo rapporto di dipendenza si è allentato in seguito all’incremento degli investimenti nel paese di Cina, Giappone e Corea del Sud.
Nonostante le cause del conflitto in corso nel sud-est asiatico siano determinate sostanzialmente da questioni interne ai due paesi, le implicazioni potrebbero tuttavia avere ramificazioni ben più ampie. Questa porzione del continente sta diventando infatti un nuovo terreno di confronto tra gli interessi americani e quelli della Cina. Perché è appunto verso Pechino che negli ultimi anni sia la Cambogia sia la Tailandia, quest’ultima tradizionalmente un alleato strategico di Washington, stanno guardano sempre più insistentemente.
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di Fabrizio Casari
Sarà che il G2 è più interessante, sarà che con la fame nel mondo la propaganda non funziona, sarà soprattutto che dovrebbero andare a spiegare perché i soldi promessi non sono stati dati, sarà che solo uno deve presenziare per evitare di recarsi in un tribunale a Milano, ma il fatto è che i rappresentanti dei potenti d’occidente sono rimasti a casa. Niente summit sulla fame: il vertice Fao di Roma si svolge quindi alla presenza delle vittime e in assenza dei carnefici.
Per carità, nessuno stupore per le assenze, funziona così. Quando devono annunciare generosità i politici si presentano a favor di telecamera in mondovisione; quando devono spiegare cosa hanno fatto, un viceministro con delega serve alla bisogna. Evitiamo, per carità di patria, anche le previste lacrime di coccodrillo che definiranno il summit “un’occasione persa”, un “appuntamento mancato” e via con le amenità a mezzo stampa. Una delle più frequenti e ipocrite riguarda quella della presunta mega burocrazia della FAO. La scusa dei ricchi è che non pagano quello che dovrebbero anche per non ingrassare la burocrazia della FAO. Ma quanto costa questo “mostro”?
Complessivamente, 280 milioni di Euro all’anno: quanto una media impresa italiana. Il lavoro di centinaia di persone in tre quarti del pianeta costa, appunto, come una media impresa italiana. E’ questo lo scandalo? Certo, ci saranno anche nella FAO sprechi e spese inutili, ma davvero volete che sia questo il problema? Sarà intanto giusto ricordare che in seno alla FAO gli emolumenti dei funzionari del Nord sono dieci volte superiori a quelli del Sud. Così, per combattere gli sprechi…
Sono stati promessi interventi percentuali sui rispettivi PIL da tutti i paesi ricchi. Nessuno, Italia in testa (guarda caso) li ha mantenuti. A Roma si evidenzia invece una cosa: la distanza abissale tra la realtà di un Occidente che decide, scientemente, di perpetrare il genocidio per fame di quei due miliardi di persone che risultano ospiti sgraditi al tavolo delle risorse, destinate esclusivamente al nord del mondo. Numerosissime sono le balle confezionate dai governi del Nord per tentare di sottrarsi alle responsabilità storiche del genocidio alimentare. Vogliamo provare ad elencarne qualcuna? Cominciamo dalle risorse procapite?
Si chiede al sud del mondo di produrre maggior cibo attraverso l’agricoltura. Bene, buon proposito. Peccato però che per produrre alimenti servano braccia e tecnologie; le prime abbondano ma non mangiano, anche perché la terra non viene sfruttata, visto che le tecnologie necessarie vengono vendute a prezzi inarrivabili. Succede poi che, anche nei casi dove la produzione agricola riesce a raggiungere livelli soddisfacenti, sia per il fabbisogno interno che per l’esportazione, con i cui proventi si potrebbe affrontare il problema in chiave sistemica e non episodica, il Nord ricco impone, tramite il WTO, l’abbassamento drastico del valore dei prodotti sul mercato internazionale e l’ulteriore innalzamento del know-out per produrli.
Il risultato è ovvio: decine di milioni di persone e miliardi di ore di lavoro rendono briciole di reddito al sud ed eccedenze favolose per il Nord. E se il Sud cerca linee di credito agevolate per finanziare l’acquisto delle tecnologie necessarie, già carissime, interviene il colpo di grazia sotto le spoglie della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che impongono politiche di “aggiustamento strutturale” per ottenere miserie con interessi usurai.
All’Africa o all’Asia vengono destinate armi e guerre. Sistema efficace per imbandire le tavole e le gioiellerie delle grandi avenue e, nello stesso tempo, ridurre i commensali che non devono trovare posto a tavola. La ricapitalizzazione del Nord passa, come sempre è passata, dall’estrazione di materie prime e risorse dal sud. Le risorse di cui dispone il Sud vengono strappate, dalle viscere della terra fino alla biosfera. Il fatto è che la crisi di sistema del capitalismo liberista ha nella sua genesi la necessità di depredare, non quella di condividere.
L’equilibrio necessario tra il Nord opulento ed il Sud affamato prevederebbe ripensamenti (questi sì strutturali) dell’ideologia della crescita infinita in un pianeta dalle risorse che infinite non sono. Avrebbe bisogno di ripensare la ripartizione delle risorse e l’equilibrio dei consumi, la fine dello spreco - principale veicolo delle speculazioni - e una lettura globale della contraddizione tra sviluppo e ambiente. Nulla di tutto ciò è nemmeno vagamente presente nell’agenda dei grandi e dei meno grandi. Un conto é comandare, un altro é governare. In fondo non pagano nemmeno i più piccoli, ma solo i più poveri. Nell’anno in cui la spesa militare statunitense si presenta come la più alta della storia, ci sembra doveroso un pensiero per le vittime inserite nella relativa previsione di bilancio.