di Michele Paris

Tra le eredità dell’amministrazione Bush non ripudiate dal presidente Obama nonostante la retorica del cambiamento, ma anzi consolidate, vi è quella dei bombardamenti in paesi esteri per colpire presunti terroristi. La lunga mano di Washington finisce per colpire, talvolta senza alcuno scrupolo, anche cittadini americani sospettati di appartenere o fornire supporto ad una qualche rete terroristica in territorio straniero. La prassi dell’eliminazione fisica di connazionali che vengono definiti “nemici combattenti” è stata portata all’attenzione dell’opinione pubblica statunitense in tutta la sua pericolosità solo recentemente, in seguito ad una testimonianza del numero uno dell’intelligence a stelle e strisce, ammiraglio Dennis C. Blair.

Chiamato a rispondere alle domande dei membri della Commissione per i Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti, Blair ha ammesso che gli Stati Uniti conducono operazioni per colpire deliberatamente cittadini americani coinvolti in operazioni terroristiche. Secondo il direttore dell’Intelligence Nazionale, quando i servizi stabiliscono la necessità dell’uccisione di un cittadino americano legato a gruppi estremisti sul territorio di un altro paese sovrano, viene inoltrata una specifica richiesta alla Casa Bianca per poter procedere con l’operazione.

Le dichiarazioni dell’ammiraglio Blair seguono in realtà di qualche giorno un articolo di Dana Priest, la reporter-premio Pulitzer del Washington Post. Nell’articolo veniva spiegato l’impiego diffuso da parte dell’amministrazione Obama di questa pratica, promossa da Bush e Cheney già all’indomani degli attacchi dell’11 settembre. L’ex presidente repubblicano aveva infatti accordato alla CIA, e successivamente all’esercito, l’autorità di colpire cittadini americani all’estero in caso di “prove concrete” di un loro coinvolgimento in operazioni di pianifica di attentati o in azioni terroristiche vere e proprie.

Le persone da eliminare dovrebbero rappresentare una “minaccia costante ed imminente” nei confronti di altri cittadini o interessi americani. Una definizione alquanto generica che ha provocato incursioni dirette a colpire persone la cui colpevolezza era stata provata unicamente da un rapporto dell’intelligence americana. Sempre secondo il Post, attualmente sulla lista nera della CIA e del comando delle forze speciali (Joint Special Operations Command, JSOC) ci sarebbero tre cittadini americani da uccidere oppure catturare.

Tra gli obiettivi più famosi delle incursioni statunitensi, c’è il cittadino di passaporto americano Ahmed Hijazi, meglio noto come Kamal Derwish, ucciso in Yemen nel novembre 2002 da un missile lanciato da un drone RQ-1 Predator. Anche se l’attacco era ufficialmente destinato a colpire cinque sospetti affiliati ad Al-Qaeda che viaggiavano su un’auto assieme a Derwish, quest’ultimo era nel mirino della CIA per essere uno dei presunti organizzatori dell’attentato alla nave da guerra USS Cole, saltata in aria nell’ottobre del 2000 nel porto di Aden, causando la morte di 17 marinai americani.

Ugualmente bersaglio delle azioni segrete inizialmente approvate da George W. Bush per giustificare la caccia ai membri della rete di Osama bin Laden, e ampiamente adottate da Obama, è stato più recentemente anche Anwar al-Awlaqi, ex imam nativo del Nuovo Messico da qualche anno emigrato in Yemen. Considerato dal governo americano reclutatore e motivatore di futuri terroristi, al-Awlaqi il 24 dicembre scorso è sopravvissuto a un bombardamento approvato da Washington in territorio yemenita mentre era in corso quello che è stato descritto come un meeting tra alcuni leader del gruppo denominato Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Da parte delle associazioni a difesa dei diritti civili, le reazioni all’articolo del Washington Post e alla testimonianza dell’ammiraglio Blair al Congresso sono state molto accese. Oltre alle critiche per le poche informazioni rese pubbliche in quasi un decennio di operazioni coperte in varie parti del globo, grande preoccupazione è stata espressa per possibili abusi e la mancanza di controlli sull’operato del governo, dei servizi segreti e dei militari.

Il totale disprezzo per la legalità, che ha portato all’istituzione di una pratica che permette al presidente degli Stati Uniti di autorizzare l’esecuzione di omicidi di cittadini americani sul suolo di altri paesi, sembra superfluo ricordare, non può che indebolire ulteriormente l’autorità morale di un paese che si autodefinisce in guerra contro il terrore. Tanto più che queste operazioni, che si vorrebbero mirate a limitare i danni collaterali, finiscono quasi sempre per mietere un più o meno elevato numero di vittime civili innocenti.

La sola accusa di avere legami con un’organizzazione considerata terroristica, se sollevata da un’agenzia d’intelligence basta a scatenare la caccia all’uomo, indipendentemente dalla sua nazionalità e, teoricamente, in qualsiasi angolo del pianeta. Ciò può accadere anche nel caso in cui il sospettato non abbia mai intrapreso azioni violente nei confronti degli interessi USA, ma sia ritenuto semplicemente una non ben definita “minaccia” per possibili azioni future.

Una condotta colpevolmente abbracciata da un presidente che aveva promesso chiaramente la fine delle distorsioni di cui si era reso responsabile il suo predecessore. Una condotta che viola le leggi internazionali sui diritti umani e colpisce al cuore gli stessi principi sui cui si fonda la democrazia americana, andando a contraddire direttamente il Quinto Emendamento della Costituzione dove afferma senza equivoci che “nessuno… può essere privato della vita” - così come della “libertà o della proprietà” - “senza un regolare procedimento legale”.

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