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di Eugenio Roscini Vitali
Zine El Abidine Ben Ali è il nuovo presidente della Repubblica Tunisina, chiamato per la quinta volta consecutiva a guidare un Paese ormai assuefatto ad un modello di democrazia araba che a livello internazionale può rientrare solo in quei casi definiti come “particolari”. E’ dal 7 novembre 1987 che il settantatreenne ex generale guida il meno musulmano dei Paesi magrebini, dal giorno in cui, “deposto” per senilità Habib Bourguiba, si è auto proclamato Capo dello Stato.
Quattro mandati e ventidue anni di potere che sottolineano la scarsa attenzione della comunità internazionale verso un esempio di autoritarismo democratico che rasenta lo standard minimo dei regimi moderni. E’ un sistema politico consacrato dal “verdetto” delle urne che però dichiara la principale forza di opposizione, il Partito Democratico Progressista (Pdp), non eleggibile in 17 dei 76 distretti totali e che, durante la campagna elettorale, riserva al presidente Ben Ali e al suo partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (Rcd), il 97,22% degli spazi pubblicitari, lasciando al suo unico rivale rimasto in gara, Ahmed Brahim, lo 0,22%.
Per avere un’idea dell’affermazione e del potere che è nelle mani di Ben Ali, un sogno nel cassetto di molti altri leader politici europei e non, basta dare uno sguardo ai dati resi noti dall’agenzia di stampa Tunis Afrique Press (Tap). Innanzi tutto l’affluenza alle urne, che il 25 ottobre è stata pari all’89,45%: 4.737.367 votanti sui 5.296.008 aventi diritto; 7.718 schede nulle; 4.729.649 voti validi. Al presidente uscente sono andati 4.238.711, pari all'89,62%; ai sui tre avversari il restante 10,38%. Il segretario del Partito di Unità Popolare (Pup), Mohamed Bouchiha, ha ottenuto il 5,01%, 236.955 voti; al candidato dell'Unione Democratica Unionista (Udu), Ahmed Inoubli, sono andate 179.726 preferenze, pari al 3,80%; al leader del partito Ettajdid, Ahmed Brahim, unico vero avversario di Ben Ali, sono stati assegnati 74.257 voti, pari all’1,57%.
Il risultato delle elezioni parlamentari, tenutesi anch’esse il 25 ottobre, è stato praticamente la fotocopia delle presidenziali. I 214 seggi della Camera dei deputati, 161 eletti in altrettanti collegi uninominali e 53 votati in un unico collegio nazionale (seggi riservati per legge all'opposizione), sono stati distribuiti nel seguente modo: 161 al partito di governo, il Raggruppamento Costituzionale Democratico; 16 al Movimento Socialdemocratico di Ismail Boulahya (Mds), partito di opposizione che con la maggioranza condivide il programma politico; 12 al Partito di Unità Popolare; 9 all'Unione Democratica Unionista; 8 al Partito sociale liberale (Psl) di Mounir Beji; 6 al Partito dei Verdi per il Progresso (Pvp) di Mongi Khammassi, il leader ambientalista che appoggia il presidente Ben Ali; 2 al simbolo di Iniziativa democratica che raggruppa personalità indipendenti intorno agli ex comunisti del partito Ettajdid di Ahmed Brahim.
Nessun seggio alle 15 liste indipendenti e alle altre due formazioni politiche presenti alle elezioni, il Partito Democratico Progressista dell’avvocato Nejib Chebbi e il Forum democratico per il lavoro e le libertà (Fdtl) del medico tunisino Mustapha Ben Jafaar, entrambe già esclusi dalle liste per le presidenziali. Il primo per dichiarazioni improprie riguardo la legge elettorale, il secondo per non essere segretario del partito da almeno due anni, come previsto dalla legge elettorale entrata in vigore lo scorso anno.
Sin dalla sua ascesa al potere l’azione di governo dell’ex generale è stata finalizzata all’esclusivo contenimento di un sistema politico pluralista: una strategia che gli ha permesso di tenere in pugno il Paese per diversi anni e gli ha dato il tempo di preparare le basi per un sistema elettorale praticamente “ingessato”. Un cammino politico che Ben Ali è riuscito a completare nel 2002, con la legge costituzionale che per la carica di Presidente della Repubblica ha abrogato il limite dei tre mandati e ha innalzato l’età massima per la candidatura da 70 a 75 anni e con la norma che stabilisce nel 25% il tetto massimo dei seggi assegnati in Parlamento all’opposizione.
Un’opposizione in larga parte filo-governativa, perfettamente inserita in un contesto in cui il binomio politica-economia fonda le sue basi su un programma di privatizzazione iniziato negli anni Ottanta, un progetto di sviluppo definito dall’Occidente un vero e proprio miracolo, al quale però può partecipare solo chi è vicino al regime o con lui condivide il controllo dei beni.
In Tunisia il bisogno politico di cambiamento e modernizzazione non è una cosa nuova. All’indomani dell’Indipendenza, il pragmatico e tenace presidente Habib Bourguiba segna le linee strategiche delle riforme politiche e sociali che faranno uscire il Paese dalla dramma della fame e dalla povertà, linee strategiche che avrebbero imposto grandi sacrifici: la rinuncia al pluralismo, alla costruzione dei valori democratici e alla salvaguardia dei diritti umani. E’ passato mezzo secolo da quei giorni ed oggi la Tunisia rappresenta un modello di apertura all’Occidente: un Paese laico, sensibile nei riguardi dei diritti della donna ed attento alle problematiche relative all’istruzione.
Un Paese che nei confronti dell’islam attua una politica di contenimento, tendente ad assicurare un contesto interno particolarmente stabile ed adeguato ad un mercato aperto ai partner europei e americani. Un “paese emergente”, costruito sui modelli definiti dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea, che hanno dettato le nuove regole dello sviluppo e che nel 1995, con l’accordo di associazione con l’UE, hanno proiettato la Tunisia nell’economia globale.
Il miracolo economico tunisino, quello targato Ben Ali, quello che oggi sventola la bandiera del rinnovamento e parla di partenariato con l’Europa, di Processo di Barcellona e di aree di libero scambio, deve comunque fare i conti un Pese spaccato in due, con un divario di tra nord e sud che con gli anni è diventato praticamente incolmabile. Deve fare i conti con una democrazia che è rimasta congelata alla fase embrionale, con una stampa imbavagliata, con una potente macchina di sicurezza che soffoca le proteste sindacali, con i grandi bacini minerari di fosfato che raddoppiato la produzione e tagliano i posti lavoro, con i giovani disoccupati che non vogliono emigrare. E’ con queste cose che la governance che nel 1999 ha vinto le elezioni con il 99,5% delle preferenze, nel 2004 si è assicurata il 94,5% dei consensi e oggi torna a vincere con quasi il 90% del voti, che deve fare i conti.
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di Luca Mazzucato
Efi Brenner ha diciotto anni, ha appena finito il liceo e questa settimana, insieme a più di cento coetanei, finirà in prigione. Perché l'obiezione di coscienza in Israele è un crimine. L'abbiamo intervistato per sapere della lettera che, insieme ai suoi colleghi, ha scritto a Netanyahu per rivendicare il diritto a non essere complice dell'Occupazione.
Qual è il percorso che ti ha portato a diventare obiettore di coscienza?
Da quando avevo sedici anni, in classe è cominciato il lavaggio del cervello. È prassi comune che degli ufficiali dell'IDF tengano lezioni sul sionismo e sul valore morale dell'esercito. Vengono e ti dicono: “I soldati tuoi fratelli sono morti per difenderti, è giusto che anche tu ora faccia la tua parte e prenda il loro posto, per il bene di Israele.” La propaganda sionista è martellante, ma da subito ho sentito che c'era qualcosa di sbagliato. Ho iniziato a cercare su Internet notizie sull'Occupazione e sul popolo palestinese e mi si sono aperti gli occhi. A quel punto ho deciso di andare a vedere con i miei occhi cosa succede nei Territori e non ho più avuto alcun dubbio. Sono andato spesso alle manifestazioni contro il muro a Bil'in e Na'alin. Finché non vai in West Bank e non parli con i palestinesi e non ti scontri con la violenza dell'esercito, non puoi veramente capire cosa succede. Uno dei nostri obiettivi è fermare questo lavaggio del cervello che gli studenti subiscono. Lo scopo della scuola è l'apprendimento, non la propaganda militare.
A cosa va incontro chi rifiuta di servire nell'esercito israeliano?
Quando l'esercito mi ha mandato la lettera di chiamata alla leva, un anno fa, io ho preso carta e penna e ho risposto che mi rifiutavo di prendere in mano le armi. In teoria, esiste un ufficio dell'esercito preposto al vaglio delle domande di obiezione, ma non risponde mai alle richieste. Né io né alcuno degli altri centinaia di obiettori abbiamo ricevuto risposta. A quel punto, viene il giorno in cui devi presentarti per venire reclutato, e se non ti presenti finisci in galera. La prima volta ci stai dai sette ai ventotto giorni, in isolamento, poi vieni rilasciato. L'esercito ti manda a chiamare una seconda volta dopo alcuni mesi e, se rifiuti ancora, il giudice ti rispedisce in prigione per qualche mese. E così via, anno dopo anno.
Qual è lo scopo della lettera che voi “shministim,” neo-diplomati, avete scritto?
Siamo un centinaio di firmatari quest'anno, studenti di tutte le parti del Paese, Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e altre città. Abbiamo deciso di prendere l'iniziativa e rivendicare apertamente il nostro diritto a non essere parte dell'Occupazione. Nella lettera, ci impegniamo a predere parte attivamente contro l'Occupazione e denunciare i crimini che il governo israeliano continua a commettere da quarantadue anni a questa parte dietro la maschera della sicurezza. Prima di tutto, vogliamo che tutti gli studenti israeliani si rendano conto di quello che succede ogni giorno nei Territori, dell'oppressione che scateniamo contro la popolazione palestinese. Pochi lo sanno, e ancora meno si domandano se abbia senso o meno servire in questo nostro esercito. Vogliamo mostrare che l'Occupazione non è inevitabile, che si può battere, a cominciare dal rifiuto a esserne parte.
Vogliamo tendere una mano ai nostri fratelli palestinesi e mostrare loro che gli israeliani non sono solo i soldati che li umiliano ogni giorno ai check point: anche al di qua del Muro ci sono israeliani che lottano per la pace e per i loro diritti. Anche noi, come loro, siamo pronti ad assumerci la piena responsabilità delle nostre azioni e finire anche in prigione se necessario.
A chi avete indirizzato la vostra lettera e quali reazioni avete avuto?
Abbiamo spedito la lettera al premier Netanyahu, al Ministro dell'Istruzione, al Capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi e ai presidi delle scuole superiori di tutto il paese, perché si apra un dibattito sull'obiezione di coscienza. Ne hanno parlato molti giornali e la questione è diventata pubblica. Stiamo cercando di portare il dibattito anche al di fuori di Israele [si possono seguire le iniziative su www.whywerefuse.org]. Alcuni di noi sono in viaggio in America, dove la comunità ebraica è molto radicata, per mostrare che il sionismo non è l'unica faccia di Israele e si può combattere; altri sono andati in Sudafrica per creare un legame con i loro movimenti per i diritti umani. Un nostro compagno obiettore farà un giro del sud Italia nelle prossime settimane, passando per una conferenza di ONG a Palermo, poi all'Università di Bari e di Lecce.
Quali sono state le reazioni della tua famiglia?
La scorsa settimana, l'edizione locale di “Yedioth Ahronot” ha aperto con un lungo servizio su di me e sulla mia obiezione di coscienza. Dopo aver letto l'articolo, i miei genitori mi hanno cacciato di casa, non vogliono più vedermi. Ma alcuni amici attivisti mi stanno ospitando, per qualche giorno finché non andrò in carcere. A differenza della mia famiglia, i miei compagni di classe e i miei amici rispettano la mia scelta, il mio rifiuto delle armi. Anche se non la condividono, pensano che siano una scelta legittima. Questo mi fa sperare che alla fine la nostra lotta vincerà e che l'obiezione diventerà un diritto per tutti i ragazzi israeliani.
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di Eugenio Roscini Vitali
Le dinamiche politiche delle guerre che per quasi vent’anni hanno devastato una delle più complesse regioni dell’Africa Centrale, possono essere capite solo se verranno trovate soluzioni pacifiche e durature agli eventi che le hanno causate. A dirlo è Martin Shaw, professore di politica e relazioni internazionali preso l’università britannica del Sussex, che in un articolo pubblicato su openDemocracy parla della recrudescenza delle violenze nelle province orientali dell’Ituri, di Haut-uele e del Nord Kivu. C’é questo ritorno alla ferocia, che é un fenomeno tutt’altro che isolato, piuttosto la corsa ad una nuova stagione di follia, una follia omicida spesso irrefrenabile che per oltre due decenni ha insanguinato questa parte dell’Africa.
La storia del conflitto interno congolese inizia da lontano, dal 1960, da quando uno dei principali protagonisti della lotta per l'indipendenza, Patrice Émery Lumumba, viene ucciso proprio grazie al tradimento di una leadership al soldo degli interessi stranieri: per quasi quarant’anni il Belgio, la Francia e gli Stati Uniti sosterranno le presidenze congolesi e, al solo scopo di difendere il controllo dei grandi giacimenti minerari (cobalto, diamanti, uranio, rame, manganese e stagno), aiuteranno il regime corrotto di Joseph Desiré Mobutu. Questi é un “capo” incapace di far fronte ai problemi interni di una nazione attanagliata dalla povertà e ai focolai di tensioni causati dall’afflusso massiccio di rifugiati scappati dal genocidio ruandese, focolai che dal 1994 incendieranno la parte centro-orientale del Paese e che si trasformeranno in uno scontro interetnico di dimensioni spaventose.
Due conflitti, la Prima e la Seconda guerra del Congo, che dal 1993 al 1997 e dal 1998 al 2003 causeranno la morte di più di cinque milioni di civili e la fuga di tre milioni e mezzo di persone e che coinvolgeranno 25 gruppi armati e gli eserciti di otto nazioni. Scontri armati che a fasi alterne continueranno anche dopo la fine delle ostilità, soprattutto nelle province orientali dell’Ituri, di Haut-uele e del Nord Kivu, dove negli ultimi dodici mesi 1.300.000 persone sono state costrette a lasciare i loro villaggi e migliaia di individui indifesi hanno perso la vita. Popolazioni che scappano dal fuoco incrociato delle varie fazioni, che cercano rifugio nella foresta, costrette a lasciare tutto quello che hanno per sfuggire alla morte e alla violenza e che i molti casi cadono comunque vittime della brutalità dei loro aguzzini. Azioni provocatorie, attacchi tesi a riaccendere un conflitto che nel 2005 sembrava essersi spento e che dimostrano quanto fragili siano gli accordi fino ad ora assunti dalle parti.
Secondo Shaw, il fatto più significativo della recente crisi congolese è che i massacri, gli stupri e i rapimenti sono il risultato di azioni portate avanti da un gruppo proveniente da un paese vicino, l’Esercito di Resistenza del Signore (LRA), l’organizzazione armata guidata da Joseph Kony, conosciuta per aver punito tutti coloro che andavano in bicicletta con la mutilazione delle natiche o per aver predicato l’uccisione dei polli bianchi e dei maiali. La necessità di esportate la violenza dalle foreste ugandesi al Congo orientale scaturirebbe dal fatto che durante gli ultimi anni il visionario leader degli “olum”, incriminato dalla Corte Penale Internazionale (ICC) per le atrocità commesse nell’Uganda settentrionale, è stato messo alle corde dalle forze governative del presidente Yoweri Museveni.
Costretto ad attraversare il Nilo Alberto, Kony si è spostato ad ovest, oltre Nebbi ed Arua, verso il Congo nord orientale, in un’area scarsamente protetta e difficilmente presidiabile dove l’LRA ha potuto organizzare un’ampia zona di operazioni. Ed è qui che l’ex chierichetto di Odek, un villaggio a pochi chilometri da Gulusi, Uganda settentrionale, ha dato il via ad una nuova mattanza, una carneficina degna del suo pedigree: 33 capi d’accusa per crimini di guerra e crimini contro l’umanità tra cui omicidio, riduzione in schiavitù, stupro, maltrattamenti, sfruttamento, attacchi intenzionali contro i civili, saccheggio, induzione allo stupro e rapimento di circa 20 mila bambini che ha poi reso soldati o schiavi sessuali del suo esercito.
Anche se i vertici militari di Kampala continuano ad affermare che in Uganda le basi dell’LRA sono state tutte distrutte e che l’organizzazione è ormai allo sbando, in realtà la capacità operativa di questo gruppo non sembra essere stata del tutto pregiudicata. Chi è che quindi che sostiene Kony e i suoi uomini? Persone vicine al presidente Museveni e il premier Apolo Nsibambi sono certe che dietro all’Esercito di Resistenza del Signore ci sia la mano del governo di Khartoum, che da una parte partecipa insieme all’Uganda alla campagna di repressione delle organizzazioni criminali e dall’altra mantiene stretti legami con Joseph Kony. Motivo? Il governo guidato dal presidente Omar Hasan al-Bashir vorrebbe destabilizzare l’area e minare il trattato di pace globale firmato nel 2005 con i ribelli del Sudan meridionale, un accordo che prevede un referendum popolare per l’indipendenza che si dovrebbe tenere nel 2011 e la conseguente perdita dei profitti derivanti dallo sfruttamento degli oltre due miliardi di barili di greggio presenti a sud della città di Abyei.
Afflitta da una delle più sanguinose guerre dei nostri tempi, la Repubblica democratica del Congo sta cercando di stabilizzare la regione ospitando la più grande missione di pace che le Nazioni Unite abbiano mai messo in capo e ogni forma d’iniziativa volta a raggiungere una pace duratura. Gli sforzi sembrano però inutili, soprattutto in relazione alle sanguinose vicende degli ultimi mesi che sono la dimostrazione pratica di quanto le guerre congolesi debbano essere considerate conflitti a carattere internazionale, sui quali hanno pesato e pesano ancora gli interessi di tutte le nazioni che vi hanno partecipato. Lo sconfinamento dell’Esercito di Resistenza del Signore di Joseph Kony richiama infatti l’attenzione sull’intricata rete di alleanze che attraversano l’Africa centrale e che parte dal genocidio rwandese e dal progetto di conquista dello Zaire di Mobutu avanzato dal Fronte Patriottico Rwandese di Paul Kagame per arrivare alla guerre civili del Sudan e dell’Angola.
Tra le fitte foreste pluviali che uniscono la Repubblica Democratica del Congo alla Repubblica Centro Africana, all’Uganda e al Sudan ogni traffico è lecito: armi, droga, schiavi, diamanti, coltan e cassiterite; transazioni che coinvolgono tutti, dai signori della guerra ai soldati, dai governi compiacenti a quelli corrotti; incontri riusciti e falliti, delegazioni che vanno e che vengono.
Un territorio dove la violenza è di casa, una strategia il cui obiettivo è quello di terrorizzare le popolazioni locali, quelle che subiscono quotidianamente omicidi, rapimenti e abusi sessuali. Storie di estrema brutalità, di persone bruciate vive, di sevizie e di stupri, di bambini obbligati ad uccidere i genitori, di bambine destinate a diventare oggetti sessuali, di neonati strappati alle madri. Storie che ci riguardano, che riguardano il mercato dell'elettronica, dei semiconduttori e dei superconduttori che usiamo tutti i giorni.
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di Michele Paris
Dopo giorni di frenetici colloqui e insistenti pressioni, il presidente afgano Hamid Karzai ha finito per piegarsi alle richieste dei leader delle potenze occidentali occupanti, accettando il responso della commissione elettorale internazionale che aveva dichiarato nulli quasi un milione e mezzo di voti nelle presidenziali di agosto. Dopo l’accettazione del verdetto anche da parte del suo avversario - l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah - sono iniziati i preparativi per una sfida di secondo turno fissata al 7 novembre e che si preannuncia estremamente delicata a causa delle precarie condizioni di sicurezza in cui versa buona parte del paese e delle persistenti possibilità di nuovi brogli elettorali.
A partire da venerdì della settimana scorsa, il presidente della Commissione Esteri del Senato americano, John Kerry, ha incontrato Karzai per ben cinque volte nel palazzo presidenziale di Kabul per trasmettergli il messaggio della Casa Bianca. Per salvare la faccia di fronte alla comunità internazione e consentire di mantenere una parvenza di legalità alle elezioni presidenziali era necessario infatti acconsentire ad un ballottaggio, da tenersi oltretutto il più presto possibile per evitare le difficoltà logistiche inevitabilmente prodotte dall’inverno in Afghanistan.
Convinto dagli argomenti dell’ex candidato democratico alla Casa Bianca, nonché dalle telefonate del Primo Ministro britannico Gordon Brown e del Ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, Karzai alla fine è inevitabilmente apparso in una conferenza stampa nella capitale afgana al fianco dello stesso Kerry, dell’inviato speciale dell’ONU Kai Eide e dell’ambasciatore USA Karl Eikenberry per annunciare la sua sottomissione agli ordini di Washington.
Alle prese con la richiesta dei vertici militari in Afghanistan di inviare nel paese occupato dall’autunno del 2001 altri 40.000 uomini, il presidente Obama per bocca del suo capo di gabinetto Rahm Emanuel, seppure parzialmente smentito pochi giorni dopo dal Segretario alla Difesa Gates, aveva chiaramente dichiarato di voler attendere di avere un interlocutore credibile a Kabul prima di prendere una decisione definitiva. Per sollecitare Karzai e il suo entourage a non frapporre ostacoli ad un secondo turno per scegliere il prossimo presidente afgano e porre fine allo stallo politico, Obama ha così messo in moto i pesi massimi della sua amministrazione e del Congresso.
Oltre a John Kerry, si sono fatti carico di “convincere” Karzai, anche con minacce più o meno sottili, il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, il consigliere per la sicurezza nazionale, generale James L. Jones, e lo stesso numero uno del Pentagono, Robert Gates. Questi ultimi due pare abbiano anche comunicato esplicitamente al Ministro della Difesa afgano Abdul Rahim Wardak che le scelte di Karzai avrebbero potuto influire sul processo decisionale in corso alla Casa Bianca per l’invio di nuove truppe fortemente volute dal governo di Kabul. Una minaccia decisiva a quanto sembra, visti i rischi concreti di crollo del suo regime in caso di mancato incremento delle forze di occupazione occidentali e il ricordo del feroce trattamento riservato dai Talebani all’ultimo presidente filo-sovietico dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah; evirato, torturato, trascinato per le strade della capitale e ucciso con un colpo di pistola prima di venire appeso ad un lampione nel settembre del 1996.
Nonostante la dichiarazione ufficiale di Obama, con la quale ha salutato la decisione di Karzai di acconsentire al ballottaggio con Abdullah come un gesto di rispetto della legalità e della volontà del popolo afgano, l’intera vicenda ha ricordato, se mai fosse stato necessario, chi siano i veri detentori del potere in questo paese. La decisione di sbloccare l’impasse e fissare il secondo turno elettorale è stata presa a Washington e imposta ad un presidente-fantoccio ampiamente screditato sia in Afghanistan sia a livello internazionale. Karzai, d’altra parte, rimane malgrado tutto l’alternativa più accettabile per gli Stati Uniti che vedono a questo punto il ballottaggio di novembre come l’unica occasione per restituirgli una qualche credibilità agli occhi del mondo e degli elettori afgani.
Nel primo turno delle elezioni presidenziali del 20 agosto scorso, Hamid Karzai era stato accreditato inizialmente del 54,6% delle preferenze, un risultato che gli avrebbe permesso di riconquistare immediatamente la presidenza. Alle sue spalle, Abdullah Abdullah aveva raccolto il 27,8%. Assieme ai risultati provvisori erano iniziati a diffondersi però anche le accuse di brogli in moltissime sezioni, molte delle quali esistenti solo sulla carta e usate esclusivamente per gonfiare il bottino di voti dei candidati. Dopo l’analisi dei ricorsi presentati da più parti, la commissione elettorale delle Nazioni Unite (IEC) ha cancellato quasi un milione di voti assegnati a Karzai - e poco più di 200 mila al suo principale sfidante - fissando il suo risultato finale al 49,7%, cioè appena al di sotto della maggioranza assoluta dei consensi necessaria per evitare un secondo turno.
I colloqui di Karzai con i rappresentati dei governi occidentali si sono incrociati negli ultimi giorni con le trattative portate avanti assieme allo staff di Abdullah per un possibile accordo di governo che avrebbe scongiurato l’ipotesi del ballottaggio tra i due sfidanti. Secondo alcuni giornali americani, il negoziato, naufragato rapidamente visti anche i rapporti molto freddi tra i due, era stato sollecitato da Washington, da dove ci si augurava di includere in un governo di unità nazionale anche il candidato decisamente filo-americano Ashraf Ghani, fermo al 2,7% al primo turno. Sia Karzai che Abdullah hanno però successivamente dichiarato di non essere stati spinti verso un accordo da nessuno nella comunità internazionale.
Il ballottaggio del 7 novembre rischia in ogni caso di andare nuovamente in scena tra manipolazioni del processo elettorale ed intimidazioni della resistenza talebana che imperversa nelle aree orientali e meridionali del paese. Con un risultato che finirà verosimilmente per rinforzare la presenza americana sul campo e confermare un governo corrotto e screditato a Kabul. D’altronde, se la volontà del popolo afgano fosse veramente rispettata, come si dovrebbe dedurre dalle dichiarazioni di Obama e degli alleati occidentali, le forze di occupazione avrebbero dovuto lasciare l’Afghanistan già da tempo. Un’avversione all’escalation militare condivisa anche dai cittadini americani, ormai ben poco sensibili alla propaganda della guerra “giusta” dopo gli attacchi dell’11 settembre e alle pressioni della destra per aumentare quanto prima il contingente militare. Secondo un recente sondaggio del Washington Post, infatti, la percentuale degli americani contrari all’invio di nuove truppe è salita negli ultimi mesi al 61%.
Per stessa ammissione dell’amministrazione Obama poi, il motivo scatenante l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 sarebbe ormai venuto meno. Nel corso di un’intervista rilasciata alla CNN il 4 ottobre scorso, il generale James L. Jones aveva dichiarato che la presenza nel paese di militanti legati ad Al-Qaeda è stimabile nell’ordine di un solo centinaio. A ciò si aggiungano alcuni rapporti dell’intelligence, che hanno evidenziato la scissione in atto tra i Talebani e gli uomini di Osama bin Laden in Afghanistan.
Un massiccio incremento di truppe in questo paese, in definitiva, non farebbe che accrescere il risentimento già sufficientemente diffuso nei confronti degli USA, alimentando ancor di più pericolosi sentimenti nazionalistici. Basti pensare alla reazione avuta pochi giorni fa dai politici e dalla popolazione civile in Pakistan dopo l’approvazione da parte del Congresso americano di un pacchetto di assistenza di 7,5 miliardi di dollari. Se l’invio di aiuti in denaro ha suscitato proteste così accese, nel caso del Pakistan a causa dei vincoli ad essi legati che sminuirebbero la sovranità del governo locale, c’è da chiedersi seriamente quale sarebbe la risposta all’indomani di un aumento sempre più probabile del contingente militare americano in Afghanistan.
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di Michele Paris
A poco più di otto mesi dall’accordo di spartizione del potere in Zimbabwe tra il presidente Robert Mugabe e il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai, nubi minacciose si prospettano all’orizzonte dei rapporti tra i due storici rivali in un paese ormai da anni in piena crisi economica e sociale. Dopo la controversa elezione presidenziale dello scorso anno, l’allora presidente sudafricano, Thabo Mbeki, aveva mediato un fragile patto per un governo congiunto tra i due pesi massimi della politica dello Zimbabwe. Una tregua complicata che ha tuttavia prodotto in questi ultimi mesi qualche timido segnale di miglioramento, ma che appare ora messa seriamente in pericolo dall’ostilità dell’85enne presidente che guida il paese africano con il pugno di ferro da quasi trent’anni.
A far esplodere nuovamente la crisi politica in tutta la sua asprezza nel paese africano è stato l’ennesimo arresto subìto la settimana scorsa dal candidato di Tsvangirai alla carica di vice-ministro dell’Agricoltura, il possidente bianco Roy Bennett, accusato da tempo di possesso di armi da fuoco a scopo di compiere atti di terrorismo. Nonostante il rilascio dietro cauzione dopo qualche giorno, il suo partito - MDC (Movement for Democratic Change) - ha annunciato il boicottaggio delle prossime riunioni del governo di coalizione con i membri del partito di Mugabe, ZANU-PF (Zimbabwe African National Union-Patriotic Front). Quest’ultimo si era più volte rifiutato di confermare Bennet nel suo incarico finché sottoposto ad un procedimento legale, peraltro definito da tutti gli esponenti dell’opposizione come una farsa motivata da ragioni puramente politiche.
“È nostro diritto svincolarci da un partner politico disonesto e inaffidabile” ha affermato il primo ministro Tsvangirai nel corso di una conferenza stampa tenuta nella capitale, Harare. La mossa del principale partito che da un decennio si oppone al regime di Mugabe, però, è apparsa a più di un’osservatore contraddittoria e non priva di rischi. Tsvangirai, infatti, ha lasciato intendere che il suo partito rimarrà al governo, anche se interromperà ogni trattativa con il presidente e i suoi uomini che mantengono tuttora il controllo di alcuni ministeri chiave.
Secondo alcuni, l’annuncio del boicottaggio sarebbe da intendersi piuttosto come un invito ai paesi facenti parte della Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC) - garanti dell’accordo tra Mugabe e Tsvangirai - per intervenire sul presidente e convincerlo a rispettare gli accordi per la condivisione del potere stipulati ormai oltre un anno fa. Il primo ministro dello Zimbabwe nei prossimi giorni illustrerà i problemi della sua coabitazione con Mugabe ad alcuni leader dell’organizzazione regionale sudafricana, tra cui i presidenti del Mozambico Armando Guebuza, del Sudafrica Jacob Zuma, dell’Angola José Eduardo dos Santos e del Congo Joseph Kabila, quest’ultimo presidente in carica dell’SADC.
La netta presa di posizione dell’ex sindacalista, più volte arrestato nell’ultimo decennio di opposizione al dominio di Mugabe, riflette d’altronde anche la crescente frustrazione di un partito che continua ad essere intimidito dall’apparato di potere presidenziale. Lo ZANU-PF controlla tuttora il sistema giudiziario del paese, che utilizza come strumento politico per sopprimere il dissenso e colpire gli oppositori, come nel caso di Roy Bennet. Ogni tentativo poi di liberare la stampa dallo stretto controllo del regime viene deliberatamente ostacolato, così come il percorso verso la stesura di una nuova Costituzione. Numerose candidature di membri dell’MDC a posti chiave del governo sarebbero inoltre impedite e la creazione di gruppi paramilitari armati verrebbe impiegata nel paese per terrorizzare oppositori e cittadini comuni.
Nelle elezioni presidenziali del marzo 2008, la vittoria di Morgan Tsvangirai non era stata sufficiente ad evitare una sfida di secondo turno con il presidente in carica dal 1987 (dal 1980 al 1987 Mugabe aveva ricoperto l’incarico di primo ministro). La tornata elettorale era stata seguita da polemiche circa i risultati - Tsvangirai aveva sostenuto di aver superato la soglia del 50% - e soprattutto da violenti scontri nel paese fomentati dai sostenitori dello ZANU-PF. Con l’inasprirsi del clima politico nel paese, il leader dell’MDC aveva finito con il ritirarsi dal ballottaggio, andato in scena solo alla fine di giugno, lasciando strada a Robert Mugabe. Dopo la reazione di condanna della comunità internazionale, a luglio erano iniziate le trattative per una soluzione pacifica del conflitto che avrebbero portato al già ricordato accordo di settembre e al governo di unità nazionale, insediatosi dopo molte difficoltà nel febbraio di quest’anno.
Pressato da più parti, Tsvangirai aveva cercato così di fare buon viso a cattivo gioco, accettando di collaborare con l’uomo che in passato aveva orchestrato almeno tre tentativi di assassinio nei suoi confronti. Le condizioni economiche dello Zimbabwe nel corso dello stallo politico in atto, erano intanto rapidamente deteriorate, con un tasso elevatissimo di disoccupazione e un’iperinflazione totalmente fuori controllo. I modesti progressi degli ultimi mesi sul fronte della situazione economica e la relativa serenità del clima politico, nonostante le persistenti incomprensioni tra i due partiti di governo, rischiano però ora di lasciare spazio a nuove tensioni e ad un riacutizzarsi della crisi.
Le bande armate legate allo ZANU-PF nelle campagne sembrano aver ripreso la loro attività intimidatoria, mentre i ministri di Mugabe minacciano apertamente di procedere con l’attività di governo senza Tsvangirai e l’MDC. Il partito del presidente potrebbe cioè agire nuovamente senza controllo, com’era già accaduto nei mesi trascorsi tra le elezioni presidenziali e l’accordo con l’opposizione, quando vennero fatte due nomine oggi al centro dello scontro politico, quella del governatore della Banca Centrale, Gideon Gono, e del Ministro della Giustizia, Johannes Tomana, entrambi fedelissimi di Mugabe. L’abbandono del gabinetto da parte dell’MDC d’altra parte non può che rallegrare il partito del presidente, fin dall’inizio in gran parte ostile all’accordo e al lavoro più o meno apertamente per farlo naufragare.
Ad affiancare Mugabe e il suo partito nel prossimo consiglio dei Ministri dovrebbe rimanere quanto meno il leader di una fazione dell’MDC, il vice primo ministro Arthur Mutambara. Per quanto riguarda invece le sorti dell’accordo di spartizione del potere, oltre all’eventuale presa di posizione dei vicini stati sudafricani, sarà da valutare attentamente il bilancio per il 2010 che il Ministro delle Finanze Tendai Biti, segretario dell’MDC, sarà chiamato a presentare entro il prossimo ottobre. In caso di un’ulteriore escalation del conflitto tra le due parti, Tsvangirai ha già annunciato di voler indire nuove elezioni sotto l’egida dell’SADC, dell’Unione Africana e dell’ONU.
Al di là dei toni molto aspri, alcuni giornali africani hanno rivelato un tentativo dello stesso Mugabe di ristabilire i contatti con il suo rivale. Sia pure tutt’altro che entusiasta di condividere il potere con l’uomo politico che lo ha strenuamente combattuto negli ultimi anni, l’autocrate dello Zimbabwe forse non sembra rappresentare attualmente la linea più intransigente all’interno del suo partito. Ciò lascia intravedere qualche spiraglio per resuscitare una cooperazione che rimane tuttavia estremamente complicata.
Un ulteriore passo indietro per la ex Rhodesia, d’altronde, renderebbe ancora più disastrosa la condizione degli oltre 12 milioni di abitanti di un paese che, dopo la conquista dell’indipendenza dalla Gran Bretagna (1965) era rimasto per molti anni un modello di sviluppo nell’intero continente africano. Gli aiuti economici dall’occidente, infatti, continuano ad arrivare con il contagocce e nuovi e più ingenti interventi di assistenza rimangono vincolati ai progressi politici che la coabitazione tra Mugabe e Tsvangirai riuscirà auspicabilmente a conseguire nei prossimi mesi.