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di Michele Paris
Nella Spagna odierna di Zapatero è possibile finire sotto processo per aver indagato sui crimini commessi durante la dittatura franchista. Questo é infatti ciò che sta accadendo al giudice investigativo Baltasar Garzón, salito alla ribalta delle cronache mondiali nel 1998, quando spiccò un mandato di cattura nei confronti di un Pinochet convalescente in Gran Bretagna. Alcune organizzazioni spagnole di estrema destra hanno ottenuto la citazione in giudizio del noto magistrato, colpevole, a loro dire, di aver cercato di rendere giustizia a centinaia di migliaia di vittime del regime di Francisco Franco, nonostante l’amnistia garantita dal governo di transizione nel 1977.
La Corte Nazionale spagnola ha accettato di aprire un procedimento a carico di Garzón su richiesta delle associazioni civiche di destra Manos Limpias e Libertad y Identitad, le quali sostengono che il giudice abbia abusato dei propri poteri nell’accusare formalmente il “Caudillo” e 34 suoi ex generali e ministri di crimini contro l’umanità. In base a queste accuse è stata successivamente ordinata la riesumazione di migliaia di vittime seppellite in fosse comuni.
L’indagine di Garzón era partita nell’ottobre dello scorso anno ed era stata immediatamente salutata da più parti, compresi parecchi esponenti del Partito Socialista al governo (PSOE), come un “processo simbolico a Franco”. Garzón da parte sua si era però affrettato a togliere qualsiasi connotato politico all’inchiesta, puntando esclusivamente a cercare di far luce sulla sorte delle persone sparite e finite negli ingranaggi del sistema di repressione franchista.
Il lavoro del giudice della Corte Criminale di Madrid non aveva tuttavia incontrato i favori del Partito Popolare (PP) all’opposizione né, soprattutto, della Chiesa Cattolica, entrambi preoccupati per le possibili conseguenze della riapertura di “vecchie ferite del passato”. In seguito a queste proteste, con una mossa a sorpresa, il Procuratore Generale dello Stato Cándido Conde-Pumpido decise di prendere una posizione ufficiale contro l’indagine aperta da Garzón, che avrebbe passato allora il caso, e la responsabilità degli scavi per riportare alla luce le fosse comuni del regime, ai vari tribunali regionali spagnoli.
L’offensiva nei confronti del magistrato troppo zelante ha finito per infiammare la destra spagnola. A febbraio di quest’anno così, il Ministro della Giustizia Mariano Fernández Bermejo è stato costretto alle dimissioni dopo essere finito sotto il fuoco incrociato delle polemiche per aver partecipato ad una battuta di caccia con lo stesso Baltasar Garzón, il quale solo pochi giorni prima aveva incriminato alcuni membri del PP nell’ambito di una inchiesta per corruzione su appalti pubblici. Pochi mesi più tardi, sarebbe toccato a Garzón finire sotto inchiesta - poi archiviata - per presunti compensi non dichiarati ricevuti da una Università americana tra il 2005 e il 2006.
La debolezza del governo di Zapatero di fronte alle pressioni dell’opposizione, ma anche del governo americano, si è manifestata infine con l’approvazione di una legge che ha posto dei limiti alla facoltà dei magistrati spagnoli di inquisire cittadini di qualsiasi nazionalità per crimini di guerra e contro l’umanità. Proprio grazie al principio della “giurisdizione universale” per crimini particolarmente gravi, Garzón aveva chiesto l’arresto dell’ex dittatore cileno e, più recentemente, si era cimentato con un’indagine ai danni di George W. Bush e di alcuni membri della sua amministrazione per aver autorizzato interrogatori con metodi di tortura a Guantánamo e nelle altre prigioni segrete della CIA.
Alla prima udienza in tribunale, Garzón ha sostenuto in maniera appassionata il suo dovere di “indagare i fatti e scoprire le responsabilità in nome delle vittime” del franchismo. A suo parere, i crimini commessi dagli autori della sparizione di oltre 100 mila persone non possono in nessun modo beneficiare di provvedimenti di amnistia. In suo favore è intervenuta anche la Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ), chiedendo l’annullamento del procedimento contro il giudice spagnolo che, in caso di condanna, rischia la sospensione e la rimozione dal proprio incarico. Secondo la Commissione, il tentativo di interferire nel processo giudiziario appare “particolarmente preoccupante”, in quanto si tratta di gravi crimini contro l’umanità che la Spagna ha il dovere di perseguire. Provvedimenti di amnistia per tali crimini, inoltre, sono resi nulli dalle leggi dell’Unione Europea sui diritti umani.
Per l’associazione Manos Limpias invece, il procedimento ai danni di Garzón appare a tutti gli effetti come il primo passo verso la delegittimazione del lavoro di un giudice che si riterrebbe “al di sopra della legge”. Dal suo sito ufficiale, addirittura, il gruppo di estrema destra definisce Garzón “un tumore maligno all’interno del sistema giudiziario” iberico e che deve essere rimosso a tutti i costi. Dal 1997, i vertici di Manos Limpias hanno presentato 18 denunce contro l’operato di uno dei candidati alla presidenza della Corte Penale Internazionale, tutte puntualmente archiviate.
La capacità di sollevare una simile questione da parte di un’organizzazione che conta appena 6.500 iscritti testimonia dell’influenza di cui gode l’estrema destra in Spagna a trent’anni di distanza dalla transizione del paese verso la democrazia. Manos Limpias è stata fondata da Miguel Bernard nel 1995, in seguito alla dissoluzione del suo partito, Derecha Española. Nostalgico franchista, Bernard ispira la sua azione politica a quella di Blas Piñar, ex parlamentare all’epoca di Franco e animatore del Movimiento Nacional, vero e proprio epicentro ideologico del fascismo negli anni della dittatura.
A sua volta fondatore di alcuni partiti di destra durante la transizione (Fuerza Nueva, Frente Nacional), Piñar può essere considerato inoltre come una sorta di padre spirituale di molti membri del Partido Popular di Aznar prima e ora di Rajoy, creato nel 1989 da un altro ex franchista, Manuel Fraga Iribarne, con il contributo dei fuoriusciti di varie formazioni di destra del dopo-Franco. Con l’apertura del processo a Baltasar Garzón, la Spagna rischia insomma di gettare nell’ombra la sorte di oltre 300 mila oppositori del franchismo assassinati, 500 mila detenuti per reati politici e 500 mila costretti all’esilio.
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di Luca Mazzucato
New York. Il Palazzo di Vetro, in questa prima Assemblea Generale dell'era Obama, ha avuto un protagonista assoluto: Mahmoud Ahmadinejad. In un'intervista esclusiva per la CBS, Kouric cerca di mettere alle strette il presidente iraniano, che si difende contrattaccando. Poche ore dopo, la notizia dell'esistenza di nuove centrifughe segrete smentisce le sue dichiarazioni e precipita l'Iran in guai seri.
Per essere il presidente di un paese dove non esiste (più) libertà di stampa, Ahmadinejad dimostra di conoscere qualche trucco e riesce a tratti quasi a cavarsela anche di fronte all'esperta giornalista della CBS, che un anno fa aveva fatto a pezzi Sarah Palin, rendendola lo zimbello degli Stati Uniti. Ahmadinejad si difende dalle accuse della Couric, ricordando le tragedie dell'Iraq, dell'Afghanistan e della Palestina e ricordando che, a conti fatti, neanche in America le cose vanno a gonfie vele. Ma ancora una volta, il suo rifiuto di ammettere l'esistenza dell'Olocausto demolisce la sua credibilità di fronte al pubblico occidentale.
Rispondendo alle domande sulla durissima repressione seguita alle elezioni in Iran, con migliaia di arresti, torture e diversi assassinii di oppositori politici, Ahmadinejad non batte ciglio. Couric gli mostra una foto di Neda, la ragazza ammazzata in diretta durante una manifestazione pacifica contro i brogli nelle elezioni e gli legge le testimonianze di cittadini iraniani torturati. Il presidente si dice dispiaciuto per la morte di Neda, rifiuta le accuse di brogli e di torture e, anzi, denuncia il fatto che i disordini siano stati creati ad arte dai governi occidentali per metterlo in difficoltà. Infine contrattacca, ricordando alla CBS che il numero di cittadini uccisi ogni giorno negli Stati Uniti è di molto superiore al numero di morti durante gli scontri a Teheran.
Ha fatto scalpore la notizia che, fra pochi giorni, due delegazioni ufficiali da Washington e da Teheran s’incontreranno per discutere dei rapporti bilaterali tra i due paesi, per la prima volta in trent'anni. Couric va subito al sodo, chiedendo conferma al presidente iraniano riguardo alla sua recente dichiarazione, nella quale sostiene che il programma nucleare iraniano è parte integrante delle trattative. Ahmadinejad conferma questo fatto e, a sorpresa, si dice disponibile ad acquistare il combustibile nucleare se qualcuno glielo venderà (ringraziando Putin).
Couric prosegue chiedendo perché l'Iran non lasci entrare gli ispettori dell'ONU nelle sue centrali, ma Ahmadinejad contesta questo fatto, citando l'ultima ispezione di Settembre, in cui l'AIEA ammette la piena collaborazione dell'Iran e la natura pacifica del programma nucleare. Peccato che, poche ore dopo l'intervista alla CBS, in un annuncio scoop al G20, Obama, Sarkozy e Brown mostrino le prove di una centrale di arricchimento finora rimasta segreta e Ahmadinejad, costretto a confermarne l'esistenza, vanifichi di fatto le prove di dialogo e porti a far precipitare la crisi in un nuovo drammatico capitolo.
Riguardo all'accusa di bloccare le ispezioni, secondo Ahmadinejad “ci sono paesi che hanno diecimila testate nucleari e le hanno persino usate in passato. Non credete che siano i paesi come l'America a dover essere ispezionati, invece di paesi che non ne posseggono? Inoltre, c'è una legge internazionale e dev'essere valida per tutti”, aggiunge riferendosi ad Israele.
Couric fa notare che il programma nucleare iraniano è particolarmente pericoloso, visto l'appoggio dell'Iran ai gruppi terroristici internazionali. Qui però Ahmadinejad ribalta l'accusa con disinvoltura: “E' chiaro quali stati favoriscono il terrorismo: i terroristi in Afghanistan e in Iraq sono più potenti ora o prima dell'invasione degli USA e della NATO? Persino la produzione di droghe illegali è quadruplicata. Dal giorno in cui gli Stati Uniti sono sbarcati in Iraq, centinaia di migliaia di persone sono morte: chi è quindi il terrorista qui? A Gaza a Gennaio sono morte tremilatrecento persone sotto tonnellate di bombe. Chi è il terrorista?” Fin qui, poco da obiettare, ma Ahmadinejad si spinge oltre, tirando fuori la sua carta preferita, quella dell'Olocausto, e si chiede perché i palestinesi debbano soffrire per colpa di azioni compiute da governi europei sessant'anni fa” aggiungendo che “il mito dell'Olocausto è stato trasformato in un'arma dalle sue stesse vittime per coprire le proprie azioni terroristiche”.
Infine, Couric chiede conto ad Ahmadinejad della sua dichiarazione che definisce “l'Olocausto una menzogna basata su una rivendicazione mitologica e indimostrabile” e, mostrandogli una foto di Auschwitz, gli domanda se pensa si tratti di un fotomontaggio. Ahmadinejad si lancia in una lunga digressione sul concetto di mito; quindi ammette che, anche se l'Olocausto fosse accaduto, “perché insistere su questo fatto quando nella Seconda Guerra Mondiale morirono sessanta milioni di persone? Non sappiamo cosa successe sessant'anni fa, però sappiamo di preciso che è un pretesto per occupare la Palestina”. Incalzato per alcuni minuti dalla Couric, il presidente iraniano si rifiuta di ammettere che l'Olocausto sia veramente esistito, “mentre tutti, anche in America, si rifiutano di discutere del genocidio in Palestina per mano del regime sionista.” Detto da chi non riconosce l’orrore della Shoah, è davvero paradossale.
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di Michele Paris
Muovendosi con una insolita rapidità, i due rami del parlamento statale del Massachusetts hanno approvato questa settimana una disposizione che ha consentito al governatore democratico, Deval Patrick, di nominare il successore al Senato degli Stati Uniti di Edward (“Ted”) Kennedy, deceduto il 25 agosto scorso per un cancro al cervello. Mentre la legge elettorale prima della modifica rendeva necessaria l’attesa di una speciale elezione suppletiva per riempire il seggio vacante, grazie all’intervento legislativo il governatore di uno degli stati più democratici del paese ha potuto invece riconsegnare immediatamente al presidente Obama la fatidica soglia dei 60 senatori nella Camera alta del Congresso, numero necessario per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione in vista del delicatissimo voto sulla riforma sanitaria.
Nell’ultima fase della sua malattia, il senatore Kennedy aveva sottoposto una richiesta personale al parlamento del Massachusetts per cambiare la legislazione corrente e permettere ad un senatore ad interim di occupare il suo seggio in attesa dell’elezione suppletiva, successivamente fissata per il 19 gennaio prossimo. La supplica dell’autorevole membro della famiglia Kennedy, se da un lato aveva ottenuto l’appoggio del governatore dello stato, di buona parte dei politici democratici locali e della Casa Bianca, aveva tuttavia suscitato molte polemiche ed accuse di opportunismo nei confronti del partito che detiene la maggioranza alla Camera e al Senato statali.
Il provvedimento infatti è stato valutato da molti come un voltafaccia dei democratici, i quali nel 2004 avevano precisamente introdotto una risoluzione che impediva al governatore di nominare un successore per un seggio vacante al Senato, delegando piuttosto la scelta agli elettori. In quell’occasione, il Partito Democratico temeva che, in caso di successo del Senatore del Massachusetts John Kerry, nelle presidenziali contro George W. Bush, il governatore repubblicano Mitt Romney avrebbe potuto scegliere un suo compagno di partito da spedire al Congresso di Washington.
Dopo alcuni giorni di scontri frontali tra maggioranza e opposizione e all’interno dello stesso Partito Democratico, la Camera del Massachusetts ha dato il via libera alla modifica con una maggioranza di 95 a 58; cinque giorni più tardi è toccato al Senato dare l’OK con 24 voti a favore e 16 contrari (di cui 11 democratici). La palla è passata così al governatore Deval Patrick che ha potuto operare la propria scelta per nominare il nuovo senatore che occuperà il posto di Ted Kennedy fino al 19 gennaio, quando si terrà la consultazione elettorale, una volta trascorso il periodo di tempo richiesto dalla legge. Il senatore che prevarrà nell’elezione speciale rimarrà poi al Senato per i tre anni che ancora sarebbero rimasti a Kennedy prima di esaurire il suo mandato di sei.
Il relativamente ampio favore incontrato dalla proposta di modifica della legge elettorale, e la celerità con la quale è stata passata dal Congresso statale, testimonia della profonda influenza tuttora esercitata dal clan Kennedy negli ambienti democratici, in particolare nel loro stato di provenienza. Proprio i due figli di Ted Kennedy - il deputato degli Stati Uniti Patrick J. e l’uomo d’affari Edward M. jr. - con la vedova Vicki, erano stati tra i più accesi sostenitori del nuovo provvedimento. Allo stesso modo, i membri della famiglia Kennedy hanno fatto molte pressioni sul governatore del Massachusetts affinché la sua scelta per il nuovo senatore ricadesse su un ex collaboratore di Ted.
Come da copione, Deval Patrick ha così nominato Paul G. Kirk jr. alla carica di senatore degli USA fino al gennaio prossimo. Da sempre fedelissimo dei Kennedy, il 71enne Kirk è stato segretario del Partito Democratico dal 1985 al 1989, assistente speciale di Ted Kennedy tra il 1969 e il 1977 ed attualmente presidente della John F. Kennedy Library Foundation di Boston. Al momento del suo giuramento, il neo-senatore ha promesso di farsi da parte al termine del breve mandato ad interim, promessa richiesta dal governatore per la nomina, nonostante non vi siano nel nuovo testo di legge indicazioni che gli impediscano di presentarsi nell’elezione suppletiva, e di avvalersi per il suo incarico a Washington dell’identico staff di Ted Kennedy.
Oltre a Kirk, gli altri principali candidati alla ambita poltrona di secondo senatore del Massachusetts - la prima è attualmente occupata da John Kerry - erano almeno l’ex governatore dello stato e candidato democratico alle presidenziali del 1988, Michael Dukakis, la ex vice-governatice Evelyn Murphy e il docente di Harvard e opinionista televisivo Charles Ogletree. Proprio l’aver messo da parte Dukakis ha fatto storcere il naso a qualche liberal. Sconfitto nettamente da George H. W. Bush ventuno anni fa per la corsa alla Casa Bianca, Dukakis rimane una figura molto stimata tra i democratici di sinistra del New England, non da ultimo per il fatto di essersi sempre battuto per un sistema sanitario più equo.
Proprio la battaglia in corso sulla riforma della sanità aveva spinto Ted Kennedy a cercare di installare un suo successore in tempi brevi al Senato, dove i numeri per i democratici e le divisioni interne rendono molto dubbia un’approvazione del progetto in discussione. Con l’arrivo di Paul G. Kirk, il partito del presidente Obama tornerà però ad avere da subito una maggioranza di 60 senatori (58 democratici più due indipendenti) per raggiungere la soglia minima necessaria ad evitare che i repubblicani prolunghino a oltranza la discussione in aula di un qualsiasi provvedimento (“filibuster”).
I repubblicani del Massachusetts hanno cercato in tutti i modi di impedire, o quanto meno ritardare, l’approvazione della modifica alla legge elettorale. Come ultimo tentativo, è stata infine presentata un’istanza presso il tribunale della contea di Suffolk per bloccare quella che il Partito Repubblicano considera una mossa anticostituzionale da parte del governatore Deval Patrick. Secondo la costituzione dello Stato, infatti, una legge approvata dal parlamento locale normalmente entra in vigore solo dopo 90 giorni, a meno che non abbia i caratteri dell’urgenza.
Per ottenere tale status, il governatore deve obbligatoriamente indirizzare una comunicazione al Segretario dello Stato, dichiarando che la legge in questione richiede l’immediata applicazione per motivi di particolare emergenza. Malgrado alcuni parlamentari avessero chiesto al governatore di chiedere un parere alla Corte Suprema del Massachusetts circa l’opportunità della sua azione, il Segretario dello Stato - il democratico William Galvin - ha posto fine a qualsiasi discussione accettando la “dichiarazione di emergenza”, definendola una procedura di routine.
In alternativa, la legislatura statale avrebbe potuto evitare questo procedimento approvando la legge con il voto favorevole dei due terzi dell’assemblea, obiettivo che era apparso però subito irraggiungibile, a testimonianza della poca convinzione di molti democratici nei confronti di una modifica che essi stessi avevano bocciato cinque anni fa.
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di Paola Vallatta
Un martello fa eco all’altro battendo sulla latta al mercato Dantokpa di Cotonou, il più grande mercato del Benin, crocevia internazionale d’Africa occidentale. È la zona dei fabbri: il ritmo di battuta è sostenuto, il rumore assordante. Tra le lamiere, le assi e i pezzi di cartone che formano la struttura del mercato, siedono uomini, ragazzi e pure bambini. Questi ultimi si alzano presto, mangiano poco e spesso nel mercato dormono pure. Vanno a cercare pezzi di lamiera e metalli nelle discariche e li portano al mastro-padrone, poi cominciano con il battere e il levare.
I piccoli vengono da villaggi a 10, 20, 50 chilometri da Cotonou e rimangono a lungo, fino a quando non hanno 18-20 anni. Secondo Justine Michayi, direttore esecutivo dell’Afamies, Association des Femmes Amies, piccola Ong legata a Emmaus che opera anche nel mercato di Cotonou, i ragazzini lavoratori di Dantokpa sono circa 400. Mastro fabbro va a cercarli nei villaggi più poveri e ipnotizza i genitori con il miraggio di un radioso futuro a Cotonou, terra promessa dove potranno imparare un mestiere, in seguito guadagnare molto denaro e infine contribuire al benessere di tutta la famiglia.
Mettere il ragazzo in apprendistato costa meno che mandarlo a scuola, così il mastro si fa dare una piccola somma e porta con sé il bambino. In Benin questi cuccioli d’uomo inviati alla ricerca di un avvenire migliore presso un artigiano o presso famiglie più benestanti di quella d’origine vengono chiamati bambini “prestati”, ma questa definizione pudica maschera in effetti una sorta di schiavitù.
La sorte del ragazzino varia a seconda del grado di umanità relativa del fabbro-padrone: molti vengono maltrattati, picchiati, affamati. I genitori non nutrono sospetti: di tanto in tanto il datore di lavoro invia piccoli pacchi al villaggio. Qualche scatola di riso, alcuni barattoli di conserva, un po’ di sale sono sufficienti per tranquillizzare i genitori: se il figlio manda questa roba significa che tutto procede nel migliore dei modi possibili. La realtà che vivono i piccoli, invece, è fatta solo di lavoro, spesso pure di stenti, sette giorni su sette. Per anni, fino a quando non si raggiunge la maggiore età, in genere. E, quando accade, molti si scoprono sordi: l’incessante frastuono dei colpi menati ai metalli, nel quale sono vissuti a lungo, ha rovinato il loro udito. Per sempre.
La signora Michayi e la sua associazione hanno iniziato a interessarsi a questo traffico di bambini nel 2003. All’inizio non si occupavano dei ragazzi del mercato, ma delle bambine impiegate come domestiche nelle famiglie benestanti, certamente sfruttate, quasi sempre maltrattate e, spesso, violentate dai padroni. Un fenomeno che riguardava 100 mila ragazzine nel solo Benin (le cifre fornite dall’Unicef contano complessivamente 200 mila bambini schiavi in Benin); piccole che venivano talvolta portate anche in altri paesi, Ghana o Costa d’Avorio, per esempio: tutte le condizioni perché si potesse parlare di schiavitù, lungo viaggio compreso, si trovavano così riunite.
Grazie anche all’interessamento dell’Afamies, la Brigata per la protezione dei minori è dovuta intervenire e, attualmente, la tratta delle bimbe è ufficialmente debellata. “Se continua, ed è probabile che continui”, dice la signora Michayi, “riguarda certamente molte meno ragazze ed è, sostanzialmente, clandestina”. Anche se molte famiglie, almeno a Cotonou, continuano a impiegare le bambine come domestiche.
È proprio cominciando a occuparsi di minori che Justine Michayi ha scoperto l’esistenza dei piccoli schiavi del mercato di Dantokpa. Per loro è riuscita a trovare un minuscolo locale nel cuore dell’area dove si trovano i fabbri, nel quale accogliere i bambini. Qui possono raccontare la loro storia, vengono informati dei diritti dell’infanzia e, due volte la settimana, il martedì e il giovedì, per due ore hanno lezione di francese.
Naturalmente far lavorare i minori sotto i 14 anni è proibito dalla legge anche in Benin, ma, per qualche misterioso motivo, questi piccoli fabbri non paiono evidentemente abbastanza sfruttati perché la Brigata per la protezione dei minori intervenga. Robert, Stéphane, Clément, Thierry e Marc (i nomi sono stati cambiati nell’interesse dei bambini stessi) sanno più o meno scrivere i numeri e il loro nome e riescono a leggere le semplici frasi scritte in stampatello sulla lavagna (una parte di parete verniciata di nero). Il più piccolo, Robert, ha otto anni e lavora al mercato da uno e mezzo. Scrive i numeri a rovescio e non riesce a concentrarsi, ma poi svela il perché: ha fame, non ha ancora mangiato nulla. E una volta che si è riempito la pancia va molto meglio e sorride più facilmente. Marc, il maggiore del piccolo gruppo, ha 15 anni e lavora a Dantokpa da otto. Sembra più sereno e sicuro di sé e ci fa da guida nell’esplorazione della zona.
Robert, Stéphane, Clément, Thierry e Marc fanno parte dei 50 ragazzini (su 400) che hanno accesso alle attività dell’associazione. “Quelli che vengono da noi sono una cinquantina”, conferma Madame Michayi, “ma, attenzione, non sono sempre necessariamente gli stessi 50”. Poi conclude: “scuola a parte, cerchiamo di aiutarli anche sotto il profilo sanitario. Se si feriscono, e accade, non si curano a dovere, anche perché non hanno alcuna protezione malattia. Così cerchiamo fondi per pagare loro un’assicurazione: bastano pochi euro all’anno (per la precisione 500 franchi CFA, ovvero 0,75 centesimi, al mese), ma, spesso, non abbiamo neppure quelli”.
C'è anche una piccola struttura benino-italiana, riconosciuta come Ong dallo stato beninese nel maggio 2008, che si occupa di bambini "prestati". Ha sede a Ouidah, a 42 km. da Cotonou, alla Maison de la Joie, ed è nata per iniziativa di Flavio Nadiani, di sua moglie Thérèse, degli amici Justine e Christian. Lì vivono attualmente circa 30 ragazzi (dai tre ai 20 anni) e cinque donne, che gestiscono un piccolo ristorante. La “Casa della Gioia” è come una grande famiglia: Justine e Christian hanno cinque figli, che coabitano con gli altri bambini. Alcuni di loro sono orfani, altri abbandonati; qualcuno ha uno o più parenti (ci sono quattro sorelline che vivono alla Maison insieme a nonna e zia, per esempio); tutti vanno a scuola, sono seguiti e, a partire dai 14 anni, collaborano alle faccende domestiche.
La Maison e i suoi abitanti si mantengono grazie ai proventi del turismo responsabile, a contributi privati, alle adozioni a distanza, e, in parte, anche grazie ai ricavi del piccolo ristorante. Dice Flavio: “A volte i sogni si realizzano. Ho cominciato a fare volontariato in Benin diversi anni fa e, durante uno di questi viaggi, ho incontrato Thérèse, che ora è mia moglie. Nel frattempo anche l’amica del cuore di Thérèse, Justine, si sposava con il suo compagno Christian e ho cominciato a conoscere il Benin sul serio insieme a loro. Quando si sono trasferiti a Ouidah, ho trovato la città dei miei sogni e ho deciso che lì avrei costruito casa. Una grande casa, con tante camere e tanto spazio, per ospitare Justine, Christian e i loro cinque figli.
Ben presto la casa ha cominciato a riempirsi di altri bambini bisognosi e di madri in difficoltà: era nata una comunità. Al momento di battezzare la casa, come si usa in Africa, non ho avuto dubbi: era come se già avesse un nome, la Casa della Gioia, la Maison de la Joie, il luogo dove almeno qualche bambino può ritrovare il sorriso”.
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New York. Un mese di bombardamenti, guerriglia casa per casa, millequattrocento palestinesi e tredici israeliani morti: la Striscia di Gaza, già duramente provata da guerre ed embargo, ridotta ad un cumulo di macerie fumanti. Una commissione d'inchiesta dell'ONU, guidata da un giudice “ardente sionista”, ha raccolto prove inconfutabili contro l'establishment israeliano. L'accusa ufficiale potrebbe portare all'incriminazione internazionale dei leader politici e militari israeliani: Ehud Olmert, Tzipi Livni, Ehud Barak, Gabi Ashkenazi e dei comandanti che guidarono l'attacco contro Gaza l'inverno scorso. Ma l'amministrazione Obama ha preso le distanze dalla commissione, perché troppo critica con Israele.
A capo della commissione d'inchiesta ONU sui fatti di Gaza è un giudice americano dalle credenziali a prova di bomba. Si tratta del sudafricano Richard Goldstone, che presiedette i tribunali internazionali sul genocidio in Ruanda e in ex-Jugoslavia e, più recentemente, sulle vicende del Darfur. Nell'editoriale pubblicato giovedì sul New York Times, Goldstone difende le conclusioni della sua inchiesta e lancia un appello ad Israele e ad Hamas affinché perseguano i propri criminali di guerra. Nel caso in cui le due parti trascurino di farlo, Goldstone si appella ai governi del pianeta perché diano corso giuridico alle accuse: “I governi occidentali hanno di fronte una sfida, perché hanno spinto per perseguire i criminali in posti come il Darfur, ma ora devono fare lo stesso con Israele, un loro alleato e uno stato democratico.”
I risultati dell'inchiesta sono estremamente dettagliati e contengono i nomi dei civili massacrati e le precise circostanze in cui i crimini di guerra sono avvenuti. Goldstone non ha poteri di polizia, ma rimbalza la palla ai diretti interessati, chiedendo ad Israele di perseguire i soldati responsabili dei massacri e a Hamas di processare chi lanciava i razzi Qassam e Katyusha contro le città israeliane. Si rammarica inoltre della mancata collaborazione di Israele, che ha anzi cercato in tutti i modi di ostacolare i lavori della commissione, vietandone ad esempio l'ingresso nel proprio territorio.
La reazione dello stato ebraico è stata immediata e, come di consueto, durissima. Il ministro degli esteri Lieberman, beffardo, denuncia come “la commissione non si sia fatta minimamente confondere dai fatti.” Ma l'accusa di anti-semitismo sbandierata dal governo israeliano, questa volta fa un buco nell'acqua. Il giudice Goldstone, infatti, è un grande amico d'Israele e fervente sionista. Sua figlia, in un'intervista in ebraico alla radio dell'IDF, ha fatto notare come la presenza del padre nella commissione ne abbia semmai addolcito di molto le conclusioni!
Con la fine ufficiale della “guerra globale al terrorismo” di George W. Bush, la mano libera di cui Israele ha goduto per otto anni potrebbe segnare il passo. Molti sono i segnali diplomatici che fanno presagire a dei cambiamenti. Con i risultati ufficiali della commissione Goldstone in mano, l'imminente Assemblea Generale delle Nazioni Unite potrebbe portare ad un grosso imbarazzo per lo stato ebraico. Il fronte dei paesi islamici e in via di sviluppo ha tra le mani un documento ufficiale in cui si descrivono dei crimini di guerra perpetrati da militari e politici israeliani.
Tel Aviv è sotto accusa anche riguardo al suo arsenale atomico. Al recente meeting dell'Agenzia Internazione per l'Energia Atomica (AIEA), per la prima volta in diciotto anni è stata affrontata la questione dell'arsenale nucleare israeliano. Con un voto a grandissima maggioranza, gli ispettori nucleari hanno espresso “preoccupazione riguardo le capacità nucleari d'Israele, e le minacce alla sicurezza in Medio Oriente sollevate dalla proliferazione nucleare.” L'agenzia, sotto forti pressioni per via del programma nucleare iraniano, ha deciso di affrontare a carte scoperte la decennale politica di ambiguità nucleare israeliana. Il voto è stato possibile per il cristallizzarsi dell'inedita alleanza tra paesi islamici e paesi in via di sviluppo, contro gli Stati Uniti e il suo alleato di ferro mediorientale.
Nonostante le accuse di crimini di guerra e le denunce sul suo arsenale nucleare, però, il supporto incondizionato degli Stati Uniti ad Israele pare tuttavia continuare, nonostante il recente disaccordo sul congelamento degli insediamenti illegali in West Bank. In questi giorni di fine estate, dopo il fallimento della missione dell'inviato della Casa Bianca Mitchell, che non è riuscito ad ottenere alcuna concessione né dai palestinesi né dagli israeliani, Washington non pare avere ancora un'idea precisa di cosa fare riguardo al processo di pace. L'amministrazione Obama, dopo aver aspettato alcuni giorni in silenzio, ha infine criticato i risultati della commissione Goldstone, perché troppo faziosi contro Israele.
Resta da vedere se l'opposizione americana sarà sufficiente per fermare eventuali incriminazioni internazionali contro quegli israeliani che ora, ufficialmente, sono stati dichiarati criminali di guerra. In risposta, alcuni commentatori israeliani si chiedono provocatoriamente se Obama permetterà a Goldstone di indagare anche sulla guerra in Afghanistan, dove i bombardamenti americani stanno facendo continue stragi di civili. Come a dire: se gli americani compiono incessanti massacri in Afghanistan e in Iraq, allora perché se Israele attacca Gaza per tre settimane tutto il mondo protesta?