di Luca Mazzucato

L'esercito israeliano avrebbe ucciso giovani palestinesi per prelevarne gli organi, lungo un periodo di molti anni: questo lo scoop dell'agosto scorso del giornale svedese Aftonbladet. Il governo israeliano accusò la Svezia di antisemitismo e pretese le scuse ufficiali del suo governo, che però difese il suo quotidiano in nome della libertà di stampa. Ora arriva la conferma ufficiale che questa agghiacciante storia di traffico di organi è tragicamente vera: vi sta investigando niente meno che la Knesset, il parlamento israeliano.

La pubblicazione del reportage di Donald Bostrom, l'estate scorsa, accese una feroce guerra diplomatica tra Israele e Svezia, rischiando di mettere in crisi i già tesi rapporti tra i due stati. In seguito a questa bufera mediatica, che non accenna a placarsi a mesi di distanza, la ricercatrice americana Nancy Scheper-Hughes, professore di antropologia all'Università di Berkeley, ha deciso di rendere pubbliche alcune interviste per fare chiarezza sull'intera vicenda. Scheper Hughes fa parte dell'organizzazione medica “Organ Watch,” con sede a Berkeley e che studia il traffico planetario di organi a partire dal 1999.

La prova schiacciante fornita dalla professoressa americana è un'intervista a Jehuda Hiss, l'ex capo dell'Istituto Forensico Israeliano, in cui il medico racconta che i suoi dipendenti raccoglievano pelle, cornee, valvole cardiache e ossa da corpi di israeliani, palestinesi e immigrati. “La pelle,” dice Hiss, “andava ad una speciale banca di tessuti dell'esercito, per il loro uso interno, mentre le parti del corpo venivano usate dagli ospedali per trapianti su cittadini israeliani.” Hiss spiega che le persone mandate a raccogliere gli organi erano dei militari, spesso studenti di medicina, “che lo facevano informalmente e senza permesso, dunque era tecnicamente illegale.”

Dopo la pubblicazione dell'intervista al dottor Hiss, il governo israeliano ha ritirato le accuse di antisemitismo alla Svezia e ha confermato che la pratica di prelevare organi da giovani palestinesi senza il consenso della famiglia è però terminata nel 2000. Tuttavia Ahmed Tibi, durante la recente discussione alla Knesset, ha portato alla luce casi del tutto analoghi risalenti a quest'anno e chiesto l'apertura di un'indagine ufficiale. Il viceministro della sanità ha accolto la richiesta e autorizzato l'indagine.

In un'intervista ad Al Jazeera, l'autore svedese dello scoop svela alcuni retroscena che hanno portato alla scoperta e mettono in dubbio la versione del ministero israeliano. “Lo staff dell'ONU venne da me lo scorso anno e disse che dovevo investigare su questa faccenda. Giovani palestinesi stavano sparendo in certe zone della West Bank, per tornare cinque giorni più tardi al villaggio come cadaveri, su cui era stata eseguita un'autopsia contro il volere della loro famiglia.” Secondo Bostrom, manca la prova certa che i giovani siano stati uccisi all'interno di questo scenario di traffico di organi, ma un'indagine approfondita è necessaria per svelare l'identità delle vittime di questo scempio e chiarire chi è coinvolto nel traffico all'interno delle istituzioni israeliane, per fermare questo crimine nel caso sia tuttora in corso.

di Mario Braconi

Se Abdul Umar Mutallab non è riuscito riuscito ad uccidere 278 persone facendo esplodere il volo NorthWest 256 Amsterdam-Detroit è stato un puro caso: a proteggere fortunosamente centinaia di vite innocenti, una serie di circostanze del tutto fortuite: la scarsa dimestichezza con la sporca lotta terrorista del velleitario quaedista figlio-di-papà, certamente più a suo agio sui campi ben curati della British International School del Togo o nelle stanze moquettate della sua mansion a Marylebon che nei polverosi "compound" di addestramento del network internazionale del terrore. La scarsa potenza della bomba o l'errata miscelazione dei suoi componenti, in grado di produrre niente più che una fiammata di un metro - pericolosissima ma non necessariamente fatale all'interno di un apparecchio moderno e ben tenuto - come si spera siano quelli su cui ci spostiamo. La presenza a bordo di un misterioso "angelo salvatore", Jasper Schuringa, probabilmente un "angelo custode" della sicurezza di quelli che si trovano ormai immancabilmente (e comprensibilmente) a bordo di tutti gli aerei che viaggiano verso e dagli Stati Uniti.

Anzi, per la verità, ad analizzare freddamente la vicenda, per l'equilibrio psicologico di chi è costretto a frequenti trasferte aeree intercontinentali, è molto più rassicurante pensare che Schuringa non sia, come vuole la vulgata giornalistica, un regista in vacanza dotato di grande forza d'animo e presenza di spirito. Certo, è triste accantonare il pensiero piacevole di un atto di coraggio e di altruismo per trasformarlo in una missione ben retribuita, ma è particolarmente angosciante pensare che la probabilità di poter abbracciare una persona cara al termine di un viaggio aereo sia una funzione del coraggio di uno sconosciuto.

Poiché non vi sono stati morti, Janet Napolitano, Homeland Security Secretary, con una uscita spiegabile solo con la determinaziona cieca di chi vuole mantenere con le unghie un posto di lavoro che ha perso ogni diritto di occupare, ha dichiarato alla CBS: "Il sistema ha funzionato." Sarebbe stato meno ridicolo e più dignitoso ammettere che il sistema, così come è, rende impossibile la vita ai viaggiatori più o meno sani di mente con ispezioni e controlli snervanti, senza riuscire ad impedire che a bordo degli aerei un demente riesca nell'impresa di trasportare una siringa di esplosivo cucita nelle mutande.

Un sistema che si è dimostrato imbelle, burocratico, pletorico e controproducente, nonostante (o forse proprio in conseguenza del fatto che) prevede una schedatura massiva di potenziali terroristi – a gennaio del 2009 il "data mart" conteneva la bellezza di 564.000 nomi, corrispondenti a 500.000 possibili identità - lo sfrido di 64.000 unità (!) è dovuto alle varianti dei nomi, che, considerando la grande abilità degli americani ad leggere e scrivere nomi non anglosassoni aggiunge un altro pizzico di suspence alla lotta al terrore...

Infatti, 400.000 di quei nomi (con i caveat di cui sopra), costituiscono il Terrorist Screening Data Base (TSDB), ovvero la primaria fonte USA delle identità dei sospetti di terrorismo; all'interno di questo numero, sarebbero 4.000 i record associati a persone "no-fly", cioè cui è vietato sorvolare gli USA, mentre per 14.000 di essi l'accesso ad un volo da e verso gli USA è possibile solo dopo solo dopo ulteriori verifiche. Tutto questo dispendio di energie non ha però impedito a Abdul Umar Mutallab di scorrazzare allegramente in aereo per tutto il mondo, dallo Yemen alla Nigeria, dalla Nigeria agli USA, via Amsterdam, con un biglietto comprato in Ghana in contanti.

Eppure, il comportamento di Abdul Umar Mutallab ha dato numerosi segnali di preoccupazione e di sospetto: le sue considerazioni pro-attentato dell'11 settembre, mai nascoste, perfino negli ambienti climatizzati e vellutati in cui ha fatto lezione; il fatto che, una volta recatosi in Dubai per imparare l'arabo, abbia improvvisamente rotto con la famiglia dopo aver optato per una altra scuola sita in Yemen, un ulteriore e rinomato serbatoio di odio anti-occidentale low-cost. In Yemen opera Anwar al-Awlaki - a meno che non sia stato ucciso da un attacco militare yemenita a Shabwa - americano, ingegnere, professore universitario, reclutatore di assassini (come Nidal Malik Hasan, reponsabile della strage di Fort Hood) e "guida spirituale" dei terroristi dell'11 settembre.

Con un simile CV, gli Americani hanno pensato bene di farlo espatriare in Yemen, via Londra, anziché trattenerlo in patria per fargli qualche domanda; il fatto che il ricco e potente padre di Abdul Umar Mutallab, di casa negli USA, abbia avvisato le autorità nigeriane ed americane delle cattive frequentazioni del figlio, esprimendo nel contempo sorpresa alla notizia che gli era stato concesso un visto negli USA. Urgono alcune considerazioni inevitabili: forse che al figlio di un ricco signore non si possono creare problemi? O forse non si devono infastidire troppo i passeggeri stressati dal traffico delle Feste? O forse è necessario che gli USA adesso spendano qualche miliardo di dollari per dotarsi delle costosissime macchine "annusatrici" in grado di tracciare anche particelle infinitesimali di esplosivo? Ci stiamo preparando ad un’altra guerra? Non è dato saperlo. Nel frattempo, in bocca al lupo a chi viaggia in aereo – con questa “sicurezza”, ne abbiamo tutti bisogno.

di Michele Paris

Mentre in patria continuano ad animare un movimento conservatore che si oppone strenuamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, le potenti chiese evangeliche americane da qualche tempo hanno esportato più o meno surrettiziamente le loro battaglie oscurantiste nel continente africano. Ovviamente, con risultati a dir poco disastrosi per il rispetto dei diritti umani. A far scoppiare il caso dell’influenza nefasta di alcuni fanatici religiosi d’oltreoceano in Africa, è stata una legge fortemente discriminatoria nei confronti dei gay in discussione al Parlamento ugandese.

In questo paese, come in altri del continente, la classe politica sta infatti cavalcando una pericolosa corrente omofobica, che ormai in molti collegano all’esplosione del cristianesimo evangelico fondamentalista di stampo americano in Africa. Tra le conseguenze peggiori ci sarebbero appunto alcune leggi approvate, o ancora in fase di studio, estremamente severe sull’orientamento sessuale dei cittadini.

A dare lo slancio ad un clima di intolleranza diffusa nei confronti degli omosessuali in Uganda pare sia stato un convegno tenuto nella capitale, Kampala, lo scorso mese di marzo, nel quale ci si proponeva di “esporre la verità nascosta dietro l’omosessualità e le reali intenzioni degli omosessuali”. Protagonisti assoluti del seminario sono stati tre cittadini americani, esponenti di spicco del movimento evangelico: Scott Lively, attivista anti-gay e presidente dell’associazione cristiana conservatrice “Defend the Family International”, Don Schmierer e Caleb Lee Brundidge; questi ultimi autoproclamatisi “guaritori dall’omosessualità”.

L’organizzatore di questo incontro, l’ex elettricista ugandese diventato pastore Stephen Langa, ha successivamente promosso una raccolta di firme tra genitori preoccupati dell’opera di reclutamento secondo loro in corso nelle scuole del paese da parte di gay e lesbiche. Tale petizione è stata poi presentata al parlamento e pochi mesi più tardi si è trasformata nella legge attualmente in discussione e che potrebbe entrare in vigore in Uganda entro la fine dell’anno (“Anti-Homosexuality Bill”).

Mentre l’omosessualità in Uganda è già reato, il nuovo testo prevede pene fino all’ergastolo e, nel caso l’accusato abbia precedenti penali, sia malato di AIDS o la sua “vittima” risulti inferiore ai 18 anni, addirittura la pena di morte. Inoltre, ogni cittadino a conoscenza di “attività omosessuali” è tenuto ad informarne le autorità di polizia, pena il carcere fino a tre anni. Per i cittadini ugandesi residenti all’estero che si macchiassero di questo reato sarebbe poi richiesta l’estradizione. Bersaglio della legge non sono solo gli omosessuali, ma anche gruppi e associazioni che si battono per i diritti LGBT, i cui membri rischieranno pene detentive fino a sette anni.

Se il provvedimento all’analisi in Uganda rischia di rappresentare un pericoloso precedente per l’Africa, altri due paesi vicini si sono già incamminati su questa strada. A inizio anno, infatti, il Burundi ha adottato una legge che prevede fino a due anni di carcere per chi viene accusato di avere relazioni omosessuali. In Ruanda, invece, la pena potrebbe salire fino a dieci anni per chiunque “pratichi o incoraggi altre persone ad avere relazioni o qualsiasi pratica omosessuale” se una legge simile a quella ugandese allo studio del parlamento verrà approvata.

La crescente penetrazione in Africa di un Evangelismo mutuato da quello americano più conservatore è riconducibile in gran parte, come già anticipato, ai legami di molte importanti personalità di mega-chiese statunitensi con leader politici e religiosi locali. Uno di questi è il potentissimo e popolarissimo fondatore della chiesa evangelica californiana, Saddleback Church, il pastore Rick Warren.

Quest’ultimo, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 2008, aveva addirittura ospitato i candidati Obama e McCain per una discussione pubblica trasmessa in diretta TV. Lo scorso gennaio era stato poi al centro di polemiche, innescate soprattutto dalla comunità gay americana, dopo essere stato scelto per recitare la tradizionale “invocazione” nel corso della cerimonia inaugurale del presidente Obama a Washington.

Da sempre contrario all’allargamento dei diritti degli omosessuali negli USA, Warren vanta forti legami con i vertici politici di Uganda e Ruanda, dove il messaggio fondamentalista della sua chiesa ha una fortissima eco. Warren è infatti amico personale dei presidenti dei due paesi, l’ugandese Yoweri Museveni (e la moglie Janet, che in varie occasioni ha tenuto discorsi presso la Saddleback Church) e il ruandese Paul Kagame. Secondo un giornale ugandese, nel corso di una sua visita a Kampala l’anno scorso Warren avrebbe fornito tutto il suo sostegno ai vescovi anglicani del paese schierati contro i gay, dichiarando apertamente che “l’omosessualità non può essere considerata un modo di vita naturale e perciò da essa non può derivare alcun diritto”.

Molto strette sono poi anche le sue relazioni con il principale attivista anti-gay in Uganda, il pastore pentecostale educato in America, Martin Ssempa. Acceso sostenitore della legislazione omofobica in fase di approvazione e anch’egli più volte ospitato nelle vesti di predicatore da Warren in California, Ssempa ha lavorato per il programma statunitense istituito dall’ex presidente Bush per la lotta all’AIDS (PEPFAR) e basato principalmente sull’astinenza. Nel paese africano, Ssempa si è contraddistinto per svariate manifestazioni contro gli omosessuali e per la pubblicazione di elenchi di gay e lesbiche corredati da fotografie e informazioni personali.

La demagogia omofobica che si sta diffondendo tra le chiese evangeliche in Africa, pur risentendo dell’ideologia di estrema destra di alcuni gruppi religiosi cristiani americani, riflette allo stesso tempo tutte le resistenze opposte dal continente alle influenze occidentali, di cui l’omosessualità sembra apparire appunto come una delle più deleterie. Per i pastori evangelici africani poi, la retorica contro i gay è uno strumento fondamentale per combattere il puritanesimo di un Islam con cui appaiono in aperta competizione per la conquista delle anime.

Per i leader evangelici statunitensi, di riflesso, l’ascendente delle loro chiese in Africa consente di estendere il loro potere e la loro influenza, ma anche di ampliare i propri interessi economici, in quello che numericamente sta diventando il continente più importante per la fede cristiana. In paesi dove la maggior parte della popolazione vive in condizioni di estrema miseria e dove sono in atto rapidi cambiamenti sociali, spesso percepiti come imposti dall’occidente, il messaggio integralista delle chiese riformate americane, intriso di puritanesimo e intransigenza, finisce così per trovare un terreno molto fertile. Con effetti però sempre più drammatici nei confronti di qualsiasi comportamento ritenuto “deviante”.

di Alessandro Iacuelli

La vicenda assume i contorni di un giallo. Il corpo senza vita del fisico nucleare Antonio Ferrigno, 54 nni, è stato ritrovato il giorno di Natale nella sua abitazione di Rijswijk, in Olanda, da suo figlio e poi da altri familiari accorsi. Lo scienziato aveva smesso di dare notizie di sé dalla vigilia di Natale, non si sa al momento se fosse già morto o meno, a causa del massimo riserbo da parte dell'autorità giudiziaria olandese.

L'esame autoptico ha rivelato che la morte non è dovuta a cause naturali. Il silenzio stampa della polizia olandese sulle indagini è dovuto anche al delicato lavoro che Ferrigno svolgeva nei Paesi Bassi: era infatti capo esaminatore dell'ufficio internazionale brevetti dell'Aia. In pratica, ogni nuova richiesta di brevetto veniva vagliata dal suo ufficio.

Scompare così, avvolto in un alone di mistero, in piene feste natalizie, un fisico noto a livello internazionale con un curriculum di tutto rispetto: per capire bene per quali motivi l'uomo possa essere morto, visto che c'è il serio sospetto che non si tratti di una morte naturale, occorre prima comprendere chi era Antonio Ferrigno.

Originario di Cava de' Tirreni, una laurea con lode all'Università di Salerno, un dottorato di ricerca a Napoli, alcuni anni come ricercatore all'Università di Berlino. Un numero elevatissimo di pubblicazioni scientifiche in tutto il mondo ed un'attività di ricerca indirizzata verso il miglioramento di alcuni aspetti della Teoria della Relatività Generale. Poi, il trasferimento in Olanda, quando vince un importante concorso presso l'Ufficio Internazionale Brevetti, in rappresentanza del nostro Paese. Forse l'uomo giusto al posto giusto: Ferrigno, oltre ad essere uno scienziato ed un esperto di alta tecnologia, era anche un esperto conoscitore delle lingue: inglese, francese, tedesco, oltre all'olandese e alla lingua madre italiana. La sua carriera all'Aja è stata un'ascesa inarrestabile, fino a diventare il capo esaminatore delle nuove richieste di brevetto.

E' forse in questa direzione, se non si è trattato di cause naturali, che si potrebbe trovare il "movente" della sua morte: Ferrigno era responsabile dei brevetti relativi ai nuovi ritrovati su scala mondiale in materia di pacemaker.

Antonio Ferrigno, nonostante gli impegni professionali, trovava il tempo per dedicarsi ad un'intensa attività sociale e civile in Olanda: era dirigente e tesoriere della sede Com.It.Es dei Paesi Bassi, il comitato degli italiani residenti all'estero, uno degli organismi rappresentativi della collettività italiana, previsti dalla legge sugli italiani all'estero. I Com.It.Es., infatti, contribuiscono ad individuare le esigenze di sviluppo sociale, culturale e civile della comunità di riferimento e cooperano con l'Autorità consolare nella tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini italiani.

Nel 2001, le sue ricerche, mai fermatesi, nel campo della Relatività Generale, sembrano arrivare ad uno sbocco, con la pubblicazione sulla prestigiosa rivista americana "Galilean Electrodynamics", di un suo articolo reputato molto importante, e che lo porta alla definitiva notorietà in campo scientifico.

Il pomeriggio di Natale, il figlio teenager allarmato perché non lo sentiva, si è recato a casa sua, nella Burgermeester Elsenlaan a Rijswijk. Il ragazzo ha trovato il padre morto, con le mani legate e in una pozza di sangue, "in condizioni disumane" come ha riferito poi la figlia più grande. Nell'elegante appartamento la polizia non ha trovato alcuna traccia di scasso. Secondo i primi rilievi autoptici, l'uomo era deceduto da qualche giorno. La stessa sera del 25 dicembre, la salma è stata trasportata all'ufficio di medicina legale.

La Polizia sta indagando sulle circostanze del delitto, ma è chiusa nel più stretto riserbo e non si sbilancia su alcuna ipotesi. Di sicuro si sa che come fisico nucleare, esaminatore di richieste di brevetto all'Ufficio Internazionale, potrebbe non essere stato ricattabile. Forse il delitto si potrebbe ricondurre alla sfera personale. Un amico della vittima riferisce anche che ultimamente Ferrigno aveva ricevuto minacce e aggressioni telefoniche.

Il presidente del Com.It.Es in Olanda racconta: "Da quando Antonio è entrato a far parte del Com.It.Es, ho avuto un vero collaboratore, totalmente disponibile, instancabile ed efficace. Era tecnicamente preparato, ma era anche molto vicino alla comunità. Nelle riunioni più accese era lui che arrivava a mitigare gli animi, dicendo in modo rassicurante “ma cosa possiamo fare per la nostra gente?” Per questo era stato proprio Ferrigno il motore propulsore per organizzare la Giornata Italiana nel Limburgo, per avvicinare i membri della nostra comunità e capire i loro problemi".

Antonio Ferrigno sarà tumulato in Italia nella sua città natale, a Cava dei Tirreni, dove avranno luogo i funerali, secondo un desiderio che aveva espresso precedentemente. Ora, si attende la verità sulle circostanze e sul movente della sua morte.

di Eugenio Roscini Vitali

Nel 2003, alle domande dei giornalisti sui danni collaterali in Afghanistan ed Iraq, il comandante delle truppe d’invasione, il Generale Tommy Ray Franks, rispondeva: “noi non contiamo i morti”. Alla fine del novembre scorso, fonti governative irachene annunciavano che, a sei anni e mezzo dall’inizio dell’occupazione, gli 88 civili rimasti uccisi negli ultimi trenta giorni  rappresentavano un record positivo, il minimo storico mai raggiunto dall’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”. La mattina dell’8 dicembre 2009, otto giorni dopo il confortante annuncio del contestato governo al-Maliki e a poche ore dalla notizia di nuove elezioni, fissate dal Parlamento per 7 marzo 2010, una serie di potenti deflagrazioni, avvenute nell’arco di pochi minuti, colpivano varie zone di Baghdad causando la morte di 127 persone ed il ferimento di almeno 450 civili.

Un bilancio di sangue causato da cinque autobombe fatte esplodere nel centro della capitale e che verrà accompagnato dai quattro attentati del 15 dicembre, tre nei pressi della Zona verde della capitale ed uno nella città di Mossul, nei quali perderanno la vita cinque persone e altre 14 rimarranno ferite. Si è aperta così la strada verso la transizione democratica, una strada fatta anche di numeri, vittime su cui si misura il successo o il fallimento della colossale operazione messa in piedi dall’amministrazione Bush nel 2003, una guerra che secondo il presidente americano avrebbe dovuto rendere quel paese una nazione libera e democratica, un modello per tutto il Medio Oriente, “un esempio di nazione vitale, pacifica e capace di auto governarsi”.

Per intensità gli attacchi dell’8 dicembre sono stati simili a quelli avvenuti il 25 ottobre scorso contro il Ministero della Giustizia e il Governatorato di Baghdad, in cui erano morte 155 persone, e a quelli del 19 agosto in cui avevano perso la vita 95 iracheni. Prima di allora altri quindici grandi attentati con centinaia di vittime.
 
Dall’8 dicembre l’idea di Baghdad come una città sicura inizia ad offuscarsi e dopo il panico dei primi momenti iniziano ad emergere i soliti dubbi, interrogativi su questioni che come al solito rimarranno irrisolte. Il primo riguarda sicuramente il numero delle vittime, anche in questo caso diverso da quello diramato dagli organi di governo: 77 secondo le autorità, 127 per i media iracheni indipendenti; una replica di quanto avvenuto due giorni prima con le vittime della scuola elementare di Sadr City, notizia liquidata dai telegiornali vicini al governo con un servizio di circa quaranta secondi. Numeri ufficiali sui quali si gioca la credibilità di un establishment che cerca di trascinare il paese fuori dal pantano della guerra civile e per farlo continua a sostenere che negli ultimi 18 mesi gli attentati in Iraq sono fortemente diminuiti.

In ottobre le autorità di Baghdad hanno diffuso una notizia secondo la quale tra il 2004 ed il 2008 i morti causati dalle violenze sarebbero stati 85 mila. Prendendo in esame l’intero conflitto, l’Iraq Body Count, il progetto sulla sicurezza che dal 2003 registra le vittime della guerra irachena, parla di 94.705 -103.336 morti; nell’ottobre 2006, Lancet aveva pubblicato numeri numero totalmente diversi: 655 mila iracheni rimasti uccisi a causa degli effetti dell’invasione.

Anche se molti analisti ritengono che a partire dal 2008 l’Iraq è diventato un paese sicuramente più sicuro e che questo è dovuto principalmente alla consolidata distribuzione settaria avvenuta in seguito ai violenti scontri registrati tra il 2005 e il 2007, c’è comunque chi si interroga  ancora sugli effetti della guerra scatenata dall’amministrazione Bush contro il regime di Saddam Hussein. Dubbi che riaffiorano soprattutto ora che dall’altra parte del mondo si comincia a puntare il dito contro chi continua a giustificare le finalità di quel conflitto. Tony Blair, che nel 2010 sarà chiamato a rispondere della decisione di invadere l’Iraq, continua infatti ad affermare che deporre il dittatore iracheno sarebbe stato comunque “giusto”, anche di fronte alla certezza che non esisteva alcun arma di distruzione di massa. A convincere Blair della necessità di schierarsi al fianco di George W.Bush sarebbe stata la “consapevolezza” che il leader iracheno “rappresentava una minaccia per tutta la regione”.

Sta di fatto che a sei anni e mezzo di distanza dall’invasione e a pochi mesi dal ritorno a casa di tutti i militari americani, l’Iraq deve ancora fare i conti con la sicurezza, un’emergenza che con il passare del tempo diventerà sempre più un affare iracheno, un affare che può essere riassunto nelle parole di Abbas al Bayati, membro della Commissione Difesa del Parlamento iracheno: “la popolazione ha bisogno di risposte convincenti dai comandanti della sicurezza” perché “se la sicurezza verrà meno, crollerà tutto”.


 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy