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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Bush se n'è andato ma la sua dottrina torna di moda alla Casa Bianca. L'ex-presidente americano andrà fiero dell'ultimo discorso di Barack Obama e della sua pesante escalation militare in Afghanistan. Nonostante la presenza di Al Qaeda sia stata debellata, gli USA nell'ultimo anno hanno raddoppiato le truppe, ufficialmente per “prevenire il ritorno di questo cancro” nel paese. Facendosi beffe non solo degli afghani, ma della stessa maggioranza di americani, contraria alla guerra.
Se lo scopo dell'occupazione militare dell'Afghanistan fosse stato debellare il network terrorista di Osama Bin Laden e i suoi campi di addestramento, Barack Obama potrebbe senz'altro proclamare “missione compiuta,” come fece Bush all'indomani dell'invasione irachena. Ma al contrario del tragicomico autogol di Bush allestito su una portaerei a San Diego, questa volta la missione è stata portata a termine con successo. Come ha confermato il generale James Jones, consigliere per la Sicurezza Nazionale, la presenza di Al Qaeda in Afghanistan “è stata ridotta a meno di cento combattenti, nessuna base, nessuna capacità di lanciare attacchi contro di noi e i nostri alleati.”
Se Al Qaeda è stata sconfitta, a cosa serve la colossale escalation militare che porterà il numero di truppe americane ad un totale di centomila unità? Obama ha fornito la nuova versione dei fatti: si resta in Afghanistan per prevenire il ritorno degli jihadisti. Bentornata guerra preventiva. Per quanto possa sembrare paradossale, questa è la nuova/vecchia strategia americana.
La commentatrice liberale americana Rachel Maddow ha fatto un breve esperimento mediatico in diretta su MSNBC, sovrapponendo i due discorsi tenuti a West Point da Obama questa settimana e da Bush nel 2002, all'indomani dell'invasione. Gli Stati Uniti non possono lasciare l'Afghanistan perché “se aspettassimo che le minacce si materializzino pienamente, avremmo atteso troppo a lungo. Dobbiamo portare l'attacco in campo nemico, scompaginare i suoi piani e confrontare le minacce più insidiose prima che vengano alla luce.” Parole di Barack Obama? No, si tratta di George W. Bush e della famosa dottrina sulla guerra preventiva che avrebbe portato da lì a un anno all'attacco all'Iraq. Chi pensava che quella dottrina fosse stata sepolta per sempre tra le aberrazioni della storia, si sbagliava di grosso.
Secondo Obama, l'escalation militare in Afghanistan servirà a creare una polizia e un esercito afghano e “nell'estate 2011 le truppe americane potranno cominciare il ritiro”, giusto in tempo per la campagna elettorale per le elezioni presidenziali dell'anno successivo (ma il Segretario alla Difesa Gates ha già corretto il tiro verso il 2013).
Tutto il Pentagono è schierato per l'aumento delle truppe, forte del successo della celebre “surge”, l'escalation che nel 2007 portò ad un definitivo miglioramento della situazione in Iraq. A Baghdad, la feroce guerra civile tra i diversi gruppi armati, sciiti contro sunniti e jihadisti contro tutti, causava ogni giorno decine di morti civili iracheni. La popolazione civile era stremata dalle tensioni etniche e dai continui attacchi dei militanti e dunque l'escalation americana, portando sicurezza in alcune zone del paese e ponendo fine alla carneficina, riuscì in parte a vincere il consenso della popolazione. Grazie soprattutto all'idea di mettere a libro paga i combattenti sunniti al prezzo di dieci dollari al giorno.
In Afghanistan, le truppe occidentali dovrebbero stanare e sconfiggere la resistenza talebana. Ma questi militanti non stanno orchestrando una guerra civile. I loro attacchi sono per lo più rivolti contro le forze di occupazione occidentali e contro le strutture del governo Karzai, considerate al soldo dell'esercito americano. Dunque un'operazione analoga alla “surge” irachena avrebbe l'effetto opposto di aumentare la violenza della guerra, non diminuirla. L'origine del conflitto in Afghanistan è la presenza stessa delle truppe straniere. La soluzione al conflitto, dunque, non è militare, ma politica: si tratta della “riappacificazione” tra Karzai e il Mullah Omar, voluta dallo stesso Karzai, che si è detto pronto ad aprire il dialogo con il capo della resistenza.
Il vero problema è il Pakistan: lì si sta combattendo la guerra sporca delle forze della CIA, che agiscono sotto copertura e bombardano incessantemente le zone al confine con l'Afghanistan usando i famigerati “droni,” velivoli senza pilota comandati elettronicamente. Le stragi di civili, causate dai droni americani, hanno fatto infuriare la popolazione pakistana, per la quale Osama Bin Laden è ormai molto più popolare dello stesso presidente pakistano. Ma per assicurarsi la stabilità in Pakistan, il Congresso USA ha letteralmente inondato il paese di soldi: sette miliardi e mezzo di dollari in cinque anni solo in aiuti civili, oltre ai 5,8 miliardi già regalati finora. Il 76% dei quali, secondo il Boston Globe, sono letteralmente spariti.
Ma se le truppe in Afghanistan non servono a sconfiggere i terroristi, e se per fermare la guerra con i talebani sono in arrivo dei negoziati tra Karzai e il Mullah Omar, allora a cosa servono questi centomila soldati americani? A chiederselo sono ormai la maggioranza degli americani. Il 55% della popolazione disapprova il modo in cui Obama sta gestendo la guerra (era solo il 34% in Marzo). Un'opposizione in aumento costante che rappresenta un ostacolo pesantissimo sul futuro politico del presidente, la cui popolarità è in caduta libera (dal 70% di quest'inverno è passata al 51%).
L'escalation in Afghanistan è off limits per la sinistra del partito democratico, già messa alle strette dalla battaglia sulla riforma sanitaria. Il risparmio di 26 miliardi di dollari derivante dal ritiro delle truppe dall'Iraq verrà spazzato via dall'aumento di 30 miliardi all'anno della nuova escalation. Portando così il bilancio militare americano per il prossimo anno a raggiungere l'ennesimo record di 774 miliardi di dollari. Le spese per la guerra aumentano a dismisura, togliendo linfa vitale al budget per il piano di stimolo occupazionale in discussione giovedì alla Casa Bianca. Si è tornati allo scontro “armi contro burro” in voga tra i democratici durante la guerra del Vietnam.
Il parallelo con la guerra del Vietnam offre probabilmente l'unica chiara chiave di lettura di questa escalation militare. Secondo Tom Engelhardt della rivista liberale The Nation, Obama si è trasformato da “comandante in capo” a “comandato in capo”, piegando il capo di fronte alle richieste insubordinate dei suoi generali, che da mesi chiedevano un'escalation in stile Vietnam.
La situazione in cui si trova Obama è molto simile a quella in cui si trovò il presidente democratico Lyndon Johnson nel 1964. Con una situazione drammatica in patria, mentre preparava la prima grande riforma sanitaria (proprio come Obama ora) e le leggi per i diritti civili, LBJ decise la massiccia escalation militare che portò dopo molti anni ad una rovinosa sconfitta, con tre milioni di morti vientnamiti e sessantamila morti americani.
“Non penso che valga la pena combattere questa guerra e non penso che riusciremo a venirne fuori. È il più grande dannato casino che abbia mai visto,” diceva LBJ, mentre con l'altra mano firmava l'ordine di aumento delle truppe. Ritirarsi avrebbe provocato “l'effetto domino,” la caduta nelle mani dei comunisti di tutti i paesi confinanti. Pericolo rosso ieri, guerra al terrore oggi, cambia il pretesto ma non il risultato. Per non apparire “debole sulla sicurezza”, Barack Obama ha fatto sua la guerra in Afghanistan fin dalla campagna elettorale e, con questa escalation, vuole raggiungere un seppur minimo risultato che gli permetta di “ritirarsi con onore” fra qualche anno.
L'inquietante parallelo con la guerra in Vietnam viene richiamato quotidianamente sui media americani e senza dubbio entrerà a far parte del discorso politico nei prossimi anni. Persino il Nobel per la pace ad Obama ricorda sinistramente quello conferito ad Henry Kissinger nel 1973, dopo una conferenza di pace che certamente non pose fine alla guerra e nonostante il suo ruolo cruciale nel colpo di Stato in Cile e nel bombardamento della Cambogia. Rimane una magra consolazione: pensate a quante più truppe avrebbe spedito Barack Obama a Kabul se non gli avessero dato il Nobel per la Pace!
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di Fabrizio Casari
Johannes Cornelis van Baalen, parlamentare europeo, è il Presidente dell’Internazionale liberale, una specie di setta degli inutili che potrebbe riunire le sue assisi internazionali in una cabina del telefono. L’influenza dell’organizzazione, poi, è simile al nulla e quindi presiederla non rappresenta certo l’aspirazione massima per nessuno. Ma Johannes van Baalen si sente investito di una vera e propria missione politica; si agita molto e fa di tutto per rendersi utile ai circoli dell’estrema destra europea e statunitense. Le sue recenti avventure l’hanno visto protagonista di un giro per l’America centrale dove, alla testa di una delegazione quantomeno imbarazzante, ha offerto il meglio di sé. La prima tappa del suo viaggio è stata il Nicaragua, dove van Baalen ha incontrato esponenti dell’opposizione e del governo.
Fino a quando gli incontri hanno riguardato gli esponenti politici governativi, l’impressione che van Baalen dava era quella di un personaggio che miscelava arroganza ed ignoranza; pazienza, avevano pensato le autorità nicaraguensi, non è né il primo né l’ultimo esponente politico con siffatte caratteristiche a recarsi in visita nel paese dal 1979 ad oggi. Ma negli incontri con l’opposizione van Baalen ha offerto la definitiva prova delle due qualità già evidenziate, chiedendo letteralmente ed insistentemente ai vertici militari di promuovere un colpo di Stato contro il legittimo governo guidato da Daniel Ortega ed offrendo agli eventuali golpisti l’appoggio sia dell’Internazionale liberale che del Parlamento Europeo.
La risposta dei militari è stata, naturalmente, quella di spiegare al soggetto che l’esercito nicaraguense risponde alla Costituzione ed al potere politico, ma quella della Cancelleria nicaraguense è stata ancora più chiara: l’idiota ha avuto un decreto di espulsione e 24 ore di tempo per lasciare il paese. Ha protestato e minacciato il presunto esponente politico, ma ha capito rapidamente che era meglio sbrigarsi e lasciare il paese di Sandino. E così ha fatto, recandosi in Honduras, dove è corso ad abbracciare il golpista Micheletti al quale ha rinnovato l’appoggio politico suo e della setta di cui è presidente.
A Micheletti non sembrava vero: da quando si è illegittimamente insediato, van Baalen è il primo esponente politico che accetta d’incontrarlo pubblicamente e, soprattutto, dei molti ad averlo appoggiato in silenzio (il Dipartimento di Stato Usa in primo luogo), van Baalen è il primo a farlo apertamente. Avere l’appoggio di ipotetici liberali alla vigilia delle elezioni farsa, era merce politica da esibire.
“E’ stato un piacere dire al presidente Micheletti che il congresso dell’Internazionale liberale, due settimane orsono, lo ha eletto come uno dei suoi Vicepresidenti”. Queste, mica altre, le parole di van Baalen a Tegucigalpa. Parole vergognose cui hanno fatto seguito dichiarazioni da neurodeliri, come “con il suo coraggio, Micheletti ha reso possibile che il processo elettorale abbia luogo il 29 novembre: questo é un atto enorme, e valoroso in favore della democrazia”. Dunque il golpista Micheletti è Vicepresidente dell’Internazionale liberale: due buffonate in una persona sola.
Lasciata Tegucigalpa, l’eurodeputato olandese é rientrato a Strasburgo: ancora euforico per aver visto la sua foto su un paio di giornali golpisti, dev’essersi convinto che la sua uscita dall’anonimato era ormai definitiva. Ha quindi convinto il suo gruppo al Parlamento Europeo a riunirsi ed a proporre un voto contro il Nicaragua. Il voto è stato espresso nell’ambito di una sessione dedicata ai “motivi urgenti” senza che fosse stata data preventiva informazione sul fatto che nella seduta si prevedesse un voto contro il Nicaragua. Il motivo del voto? “Minacce, insulti ed intimidazioni ricevute dalla delegazione dell’Internazionale liberale in Nicaragua”. Il gruppo socialista, i Verdi e la Sinistra Unita (Gue) non hanno partecipato al voto ed hanno protestato per la strumentalità e la scorrettezza dell’agire del gruppo liberale, che non ha avvertito le commissioni di quale risoluzione sarebbe stata oggetto del voto.
Ma la cosa sconcertante è che il Parlamento Europeo non sente il bisogno di una mozione di censura a van Baalen. Sarebbe bene ricordare che l’Unione Europea si è pronunciata unitariamente in maniera durissima contro il golpe in Honduras, contro il quale ha promosso sanzioni politiche e commerciali ed ha ripetutamente chiesto il reintegro al governo del deposto Presidente legittimo, Manuel Zelaya.
Van Baalen e i liberali devono essersi distratti nella circostanza. Avranno pensato che l’essere nati in Europa conferisce loro una patina di superiorità che li esime dal dovere della decenza. Si chiamano liberali ma stanno con i golpisti. Contraddizioni grandi per un gruppetto minuscolo di inutili.
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di Michele Paris
Dopo tre mesi di incertezze e ripensamenti, Barack Obama ha alla fine ceduto alle richieste dei vertici militari americani dando il via libera all’invio di 30.000 soldati da impiegare in Afghanistan entro la metà del prossimo anno. La decisione definitiva è stata annunciata in diretta televisiva dal presidente presso l’Accademia Militare di West Point di fronte ad un pubblico di 4.000 cadetti, molti dei quali destinati a morire in territorio afgano nei prossimi mesi. Nonostante il richiamo a quell’unità che gli Stati Uniti avevano dimostrato all’indomani dell’11 settembre, il discorso dell’inquilino della Casa Bianca è sembrato estremamente contraddittorio, rivelando le profonde divisioni all’interno dell’establishment politico e tra gli stessi cittadini americani su un conflitto che appare ormai a molti senza via d’uscita.
Dopo otto anni di conflitto, oltre 900 soldati americani deceduti e più di 200 miliardi di dollari spesi, la sfida di Obama per rovesciare in Afghanistan una tendenza che ha visto il crescente controllo del paese da parte dei ribelli talebani, porta con sé non pochi rischi. L’appoggio ad un governo profondamente corrotto e screditato come quello di Karzai, l’intensificarsi delle azioni militari che inevitabilmente produrranno migliaia di ulteriori perdite tra la popolazione civile e l’inasprimento delle tensioni nel continente asiatico in seguito alla maggiore presenza americana, difficilmente si tradurranno da qui a un paio d’anni in risultati concreti. E le conseguenze politiche del prevedibile fallimento finiranno per pesare come un macigno sulle prospettive di Obama nelle elezioni presidenziali del 2012.
La promessa di nuove truppe che dovrebbero essere integrate dai contingenti di alcuni paesi europei - Italia compresa - è stata accompagnata dall’annuncio di un impegno per una “exit strategy”, il cui inizio è stato inverosimilmente fissato per la metà del 2011. La contemporanea espansione del coinvolgimento americano e il profilarsi di una fine della guerra, sia pure vincolata alle condizioni sul campo, riflette la necessità di Obama di districarsi tra lo scetticismo, da un lato, di una buona fetta dei parlamentari democratici e dell’opinione pubblica e il desiderio, dall’altro, dei militari e di un’opposizione repubblicana che sarà probabilmente decisiva in vista della prossima approvazione al Congresso dei fondi necessari all’escalation.
Il prolungamento dell’impegno militare americano costerà circa 30 miliardi di dollari solo nel prossimo anno e le risorse economiche per sostenerne il costo dovranno uscire da un dibattito parlamentare che si annuncia teso. Se i repubblicani - in gran parte entusiasti per l’invio di nuove forze ma delusi dalla scadenza fissata per il disimpegno militare - saranno pronti a rimediare a defezioni tra le file della maggioranza, già si sono detti contrari ad appoggiare una tassa aggiuntiva sui redditi proposta dai democratici per continuare a finanziare la guerra.
Dopo le delusioni incassate negli ultimi mesi, lo sconforto tra la sinistra del partito di governo e l’elettorato liberal è così aumentato ulteriormente all’indomani dell’annuncio di una strategia che molto ricorda quella avviata dall’allora presidente Bush nel 2007 per invertire le sorti del conflitto in Iraq, alla quale Obama si oppose. Come il cosiddetto “surge” iracheno, dicono dalla Casa Bianca, il piano stabilito per Kabul prevede la (ri)costruzione dell’esercito afgano e delle forze di polizia locali che dovrebbero farsi carico in futuro della sicurezza interna. A differenza di quanto avvenuto in Iraq, tuttavia, l’aiuto fornito all’Afghanistan sarà vincolato a determinati traguardi che il governo di Karzai dovrà raggiungere. Meno chiare sono però le conseguenze alle quali quest’ultimo andrà incontro in caso di mancato adempimento degli obblighi stabiliti da Washington.
Altro punto fondamentale della strategia americana sarà il Pakistan, da dove si teme un’uscita di scena troppo rapida degli Stati Uniti dall’Afghanistan, ma allo stesso tempo viene visto con timore un aumento delle forze occupanti nel paese confinante per possibili nuove ripercussioni interne. Per quanto Obama non abbia definito in maniera esplicita la posizione degli USA nei confronti di Islamabad, pare che già ci sia l’OK della Casa Bianca ad una maggiore presenza della CIA in questo paese e per un aumento delle incursioni dei droni che hanno causato centinaia di vittime civili negli ultimi anni ed alimentato un diffusissimo sentimento anti-americano.
Con la presenza in Afghanistan di militanti di Al-Qaeda ridotta, per stessa ammissione del Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Obama, Generale James L. Jones, a un centinaio di uomini, il pantano afgano a otto anni dall’invasione dimostra allora, e in maniera sempre più evidente, il carattere imperialista di un conflitto combattuto ormai contro la volontà della maggioranza delle popolazioni americana ed europea (per non parlare di quella afgana).
La decisione, che minaccia di avere conseguenze rovinose, oltre che per le condizioni di vita delle popolazioni locali e le sorti dei soldati impegnati, per le stesse prospettive dell’intera presidenza Obama, condurrà fatalmente ad un coinvolgimento americano della durata indefinita e dagli effetti destabilizzanti. Un’occupazione senza alcuna fine in vista e asservita unicamente ad assicurare a Washington una posizione dominante in un’area del pianeta ricca di risorse naturali e strategicamente fondamentale per controbilanciare la crescente influenza di altre potenze come Cina, India, Russia e Iran.
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di Emanuela Pessina
La Svizzera è il primo Paese al mondo che impedirà per legge la costruzione di nuovi minareti: domenica 29 novembre il 57,7 per cento del popolo elvetico ha detto “sì” al divieto tramite referendum. Ma non tutti, nella Repubblica Elvetica, festeggiano i risultati: il governo svizzero, da parte sua, sa che ne va della credibilità del Paese e teme le reazioni diplomatiche negative del mondo. Gli oppositori dei minareti, infatti, non si sono espressi soltanto contro la costruzione di quelle esotiche torri, presenti in quasi tutte le moschee, dalle quali il muezzin chiama alla preghiera i devoti di Allah: la questione è molto più profonda e controversa.
L’iniziativa per il referendum è partita da un piccolo gruppo all’interno del SVP, il partito popolare conservatore che costituisce anche la maggior forza politica della Svizzera. “Si trattava di una minoranza con posizioni ai limiti del fascismo”, ha ricordato il professore svizzero Jean Ziegler al quotidiano tedesco Tagesspiegel. “Ma ora il piccolo fuoco si è sparso in tutta la Repubblica Elvetica”.
Una delle cause di questa inaspettata vittoria, forse, è da ricercare nella campagna condotta dai promotori del referendum, una campagna ai limiti della razionalità. Gli oppositori hanno presentato i minareti come il simbolo della “pretesa di dominio dell’Islam” sulla Svizzera cristiana: più che di una questione religiosa, si è votato contro la“dimensione politica dell’Islam”.
Secondo i padri del referendum, il “no” ai minareti ha rappresentato il rifiuto della Svizzera libera alle “leggi quasi medievali imposte dalla religione musulmana”, “alla lapidazione delle donne”e “all’educazione all’odio verso l’Occidente in cui vengono cresciuti i giovani musulmani”. Con il referendum, la Svizzera cristiana ha detto “no” agli omicidi d’onore, ai matrimoni combinati, al burqa e al fanatismo religioso dell’Islam.
Nella loro campagna, gli oppositori dei minareti hanno saputo organizzare abilmente un mix di pregiudizi e cliché: il popolo svizzero ha detto “no” all’idea di Islam creata su misura dai promotori del referendum. Che, da parte loro, non nascondono la gioia per i risultati di domenica. “Sono davvero soddisfatto”, ha commentato il deputato svizzero nazional-conservatore Ulrich Schlueer (SVP). L’SVP è l’unico partito che ha sostenuto l’iniziativa in maniera ufficiale.
Ma c’è anche chi mostra ragionevoli preoccupazioni rispetto alla decisione popolare anti-minareti e cerca, inutilmente, di limitarne i danni. Secondo il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung, il ministro della Giustizia svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, è apparsa scioccata dal risultato del referendum: Widmer- Schlumpf è preoccupata per la credibilità politica degli svizzeri nel mondo. Il ministro ha tentato di tranquillizzare i colleghi europei, precisando che “non si è trattato di un voto contro l’Islam”, ma non è stata convincente.
Il ministro degli Esteri elvetico Micheline Calmy-Rey, da parte sua, si è preoccupata di ricevere gli ambasciatori di alcuni Paesi islamici, come Iran e Arabia Saudita, e ha invitato al dialogo: "Abbiamo interessi comuni", ha sottolineato il ministro Micheline Calmy-Rey. Chi ha seguito con attenzione la vicenda, tuttavia, non può dimenticare, dai media del mondo islamico ai singoli musulmani svizzeri, poiché l’indignazione è tanta. E rischia di trasferirsi sugli affari: non è da escludere, infatti, che l’esito del referendum possa indurre alcuni paesi arabi a ritirare i depositi in Svizzera per allocarli in altri paradisi bancari; sarebbe un colpo gravissimo per l’economia elvetica.
La maggiore autorità clericale in Egitto, Mufti Ali Goma, ha parlato di un'offesa per tutti i musulmani nel mondo, invitando tuttavia i credenti musulmani a non lasciarsi provocare. L'autorità spirituale sciita libanese, Mohammed Hussein Fadlallah, invece, ha definito il referendum senza mezzi termini "razzista". Anche in Europa qualcuno ha già preso le distanzedalla posizione svizzera: il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt ha definito il voto in Svizzera un "segnale negativo", mentre alcuni politici tedeschi ritengono "improbabile” un risultato simile in Germania.
Due settimane fa, una popolare rivista svizzera, Star, aveva condotto un sondaggio sullo stesso tema: allora, tuttavia, solo il 37 per cento degli intervistati si era detto contrario alla costruzione dei minareti (contro il 57,7 percento del referendum). La differenza tra questi valori avrebbe mostrato un divario preoccupante tra l’opinione pubblica reale degli svizzeri e quella espressa pubblicamente: secondo i sociologi, i cittadini sanno cosa è politicamente ragionevole e lo esprimono pubblicamente, ma poi votano altrimenti per altri motivi più forti della ragione. Lo sbalordimento e la preoccupazione sono grandi. Soprattutto perché la confusione potrebbe essere contagiosa e ripetersi in qualsiasi altra nazione, poiché non è più la ragione a comandare.
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di Michele Paris
Con poco meno del 53% dei consensi, il candidato della sinistra unita sotto le insegne del Frente Amplio, l’ex tupamaro José “Pepe” Mujica, si è aggiudicato il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Uruguay. Il 74enne ex senatore socialista ha sconfitto al secondo turno il candidato conservatore Luis Alberto Lacalle, succedendo così al popolare presidente uscente Tabaré Vázquez, impossibilitato a cercare un secondo mandato dalla Costituzione del piccolo paese sudamericano. Nonostante i suoi precedenti, Mujica nei prossimi cinque anni non dovrebbe discostarsi significativamente dal suo predecessore, protagonista di un percorso di riforma progressista all’insegna del pragmatismo che ha ridotto il livello di povertà e disoccupazione senza intaccare la fiducia degli investitori.
Dopo la tornata elettorale del primo turno lo scorso mese di ottobre, Mujica aveva raccolto la maggioranza dei voti, senza tuttavia superare la soglia del 50%. Alle sue spalle si erano piazzati Lacalle, presidente uruguaiano dal 1990 al 1995, e Pedro Bordaberry, figlio dell’ex dittatore Juan Maria Bordaberry che guidò il paese negli anni Settanta. I voti dei due candidati sconfitti, appartenenti ai due partiti che avevano monopolizzato la scena politica uruguaiana dall’indipendenza fino al 2005 (Partido Nacional e Partido Colorado), avevano fatto temere un possibile ritorno di Lacalle al secondo turno. Già dai primi exit polls si era però intuito il successo di Mujica, il quale grazie anche agli elevatissimi indici di gradimento di Tabaré Vázquez ha conquistato la presidenza con un margine tra i sette e i dieci punti percentuali sul suo rivale.
Proprio cinque anni fa, la coalizione composta da una quarantina di raggruppamenti politici che va dai trotskisti ai cristiano-democratici, creata nel 1971, era riuscita ad interrompere il dominio dei due partiti principali. Nel Frente Amplio erano successivamente confluiti gli ex ribelli tupamaro come Pepe Mujica, vera e propria forza trascinatrice del raggruppamento politico. Costretto in carcere per tredici anni durante la dittatura, il presidente eletto dell’Uruguay ha condotto una campagna elettorale all’insegna della moderazione, distanziandosi dal suo passato di guerrigliero che ha invece quasi sempre occupato le cronache a lui dedicate dalla stampa internazionale.
In un’intervista rilasciata la scorsa estate, Mujica aveva infatti dichiarato di non credere più alle “stupide ideologie degli anni Settanta”, riferendosi alla “predilezione incondizionata per tutto ciò che è pubblico, al disprezzo per gli uomini d’affari e all’odio per gli Stati Uniti d’America”. L’esperienza del carcere, a suo dire, ha contribuito in maniera decisiva al crollo dell’illusione di poter conseguire il cambiamento sociale tramite la lotta armata rivoluzionaria.
Nonostante le differenti personalità di Tabaré Vázquez e Pepe Mujica, prudente e schivo il primo quanto spontaneo e aperto quest’ultimo, le linee di politica economica del governo uruguaiano dovrebbero rimanere pressoché inalterate. L’enfasi sulla giustizia sociale che ha caratterizzato gli ultimi cinque anni ha d’altra parte contribuito ad abbassare il livello di povertà in Uruguay dal 32% del 2004 al 20% attuale, così come la crescita economica è oscillata tra il 7 e il 12% fino all’anno scorso. Il tasso di disoccupazione è ugualmente sceso dal 21% del 2002 all’8% del 2009, mentre a dispetto della crisi globale l’economia del paese ha fatto segnare una modesta crescita anche nell’anno in corso.
Artefice dei successi del presidente uscente è stato il ministro dell’Economia Danilo Astori, leader della formazione social-democratica Asamblea Uruguay (affiliata al Frente Amplio), appena eletto vice-presidente di Mujica. Grazie ad una tassa progressiva che ha gravato sui redditi medio-alti, Astori e Vázquez hanno potuto così consolidare una crescita relativamente equa nel paese, mettendo in atto una politica redistributiva che, tra l’altro, ha allargato considerevolmente la copertura del sistema sanitario. Allo stesso tempo, alcuni progressi importanti si sono registrati sul fronte delle indagini sui crimini della dittatura e dei diritti civili.
Se è innegabile che la presenza alla guida dell’Uruguay di un ex guerrigliero tupamaro farà percepire a molti una possibile maggiore sintonia con i governi di Hugo Chávez o di Evo Morales, è assai più verosimile che la presidenza di Mujica sarà all’insegna della continuità con quella del suo predecessore. Infatti, sia nell’ambito della politica interna, sia nei rapporti con gli altri paesi sudamericani, lo stesso Mujica ha più volte sottolineato di voler percorrere una “via di mezzo”, ispirandosi, per sua stessa ammissione, alla moderazione del potente vicino brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva. Ma, quali che saranno le inclinazioni particolari del nuovo Presidente, il voto conferma come l’Uruguay prosegue il suo cammino democratico e progressista, rafforzando l’asse democratica del continente che ha deciso, da diversi anni, di percorrere la strada dell’integrazione latinoamericana e dell’indipendenza da Washington.