di Stefania Pavone

Che Al Fatah, partito di Abu Mazen, sia alle soglie di una crisi profonda, è testimoniato dai continui rinvii su cui si gioca la partita di un attesissimo congresso. Ma il futuro di una formazione politica che, con la geniale invenzione dell’Olp - creatura politica partorita dalla mente di Arafat - ha fondato le basi del nazionalismo arabo della Palestina, sembra sospeso nell’aria. Troppe le contraddizioni interne, debole l’impianto programmatico e politico e anche piuttosto confuso a dire il vero. Ma il momento della verità, lento ma inesorabile si avvicina. La crisi attuale di Al Fatah sta strangolando il partito al punto che autorevoli commentatori esteri ritengono che esso sia al punto di snodo di una crisi epocale, che minaccia direttamente la sua stessa continuità storica.

di Michele Paris

La liberazione dal carcere per detenuti politici di Evin, nei pressi di Teheran, della giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi, è stata accolta con grande sollievo dai vertici diplomatici di Washington, impegnati nel complicato tentativo di riavvicinamento alla Repubblica Islamica dopo tre decenni di gelo. Il caso della reporter freelance per la Radio Pubblica Americana (NPR) e la BBC ha destato l’indignazione generale dei giornalisti occidentali (soprattutto americani), i quali nelle scorse settimane avevano fatto a gara per chiedere la sua immediata scarcerazione e condannare senza mezzi termini la carenza della libertà di stampa in Iran, nonché la sistematica violazione del diritto ad un processo equo in questo paese. Se la libertà concessa alla giornalista iraniano-americana rappresenta un piccolo ma innegabile successo della strategia di Obama nei confronti dell’Iran e fa registrare in qualche modo uno storico passo avanti nei rapporti tra i due paesi, l’intera vicenda ha messo in luce tuttavia l’ipocrisia del giornalismo “mainstream” occidentale, ben attento - salvo qualche rara eccezione - a dimenticare il pessimo bilancio degli Stati Uniti per quanto riguarda l’arresto e la detenzione prolungata di giornalisti (soprattutto arabi) senza sufficienti prove di colpevolezza.

di Alessandro Iacuelli


Un improvviso allarme arriva da un'organizzazione afghana per i diritti umani che l'11 maggio ha dichiarato che delle persone, in particolare dei civili, siano state colpite da armi al fosforo bianco durante uno scontro tra truppe americane e ribelli. In effetti, i medici afghani della provincia di Farah hanno in cura 16 pazienti con gravi ustioni, dopo lo scontro armato avvenuto il 4 maggio scorso. Ustioni che i medici classificano come "inusuali". La commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan ha deciso di aprire un’inchiesta sul possibile uso di fosforo bianco o di equivalenti armi chimiche di tipo incendiario contro i civili durante lo scontro. Nader Nadery, un membro di questa commissione, ha dichiarato al governatore di Farah che anche molti dei cadaveri ritrovati hanno il corpo fuso o ricoperto da ustioni estese.

di Carlo Benedetti

A Mosca e a Washington, in questo momento, sembra che prevalgano le posizioni più pragmatiche degli ultimi anni. La parola d’ordine comune – sempre nel quadro di un ritratto mondiale sfaccettato e problematico - è quella che annuncia che il futuro non dovrà essere peggio del passato. Ed è con questo “spirito” che le due capitali vanno verso precisi appuntamenti di ordine politico, militare e diplomatico. E così partono insieme verso un summit - che si terrà a Mosca dal 18 al 20 maggio - durante il quale il russo Medvedev e l’americano Barack si troveranno faccia-a-faccia per rinnovare il Trattato sulla riduzione delle armi strategiche al fine anche di allontanare le eventuali tensioni. L’intera questione è sul tavolo delle due diplomazie, dal momento che la proliferazione delle armi di distruzione di massa, in primis quelle nucleari, costituisce la principale minaccia del secolo. È dunque necessario – rilevano Mosca e Washington - compiere più chiari e coraggiosi passi in avanti. Soprattutto nei tre principali settori che compongono il Trattato di non proliferazione: il disarmo, l'uso pacifico del nucleare e, appunto, la non proliferazione.

di Elena Ferrara

All’anagrafe diplomatica la lotta continua. Perché ancora non si è raggiunta una decisione definitiva su chi potrà chiamarsi, ufficialmente, “Macedonia”. E mentre la situazione si fa sempre più complessa, l’Europa non parla e non agisce con l’autorità di cui potrebbe disporre. I macedoni di Skopje rivendicano il nome sostenendo che è un Doc; i greci di Atene sostengono, invece, che il marchio è loro. Intanto si muove qualcosa pur se con toni e commenti diversi. C’è il segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer il quale, direttamente dalla “Republika Makedonija”, fa sapere di sperare che venga risolta quanto prima la disputa sul nome che oscilla fra interpretazioni e applicazioni diverse. E’ questa controversia - ha ribadito l’uomo della Nato - l'unico ostacolo che resta per l'adesione del paese balcanico all'Alleanza Atlantica. La Nato, aggiunge Scheffer, non è coinvolta direttamente negli sforzi per trovare una soluzione, anche se l'Alleanza vorrebbe vedere tale questione “chiusa il più presto possibile”.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy