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di Eugenio Roscini Vitali
Bombardamenti aerei e colpi di mortaio, sono questi i suoni che “a intermittenza” tormentano la vita dei contadini e dei pastori yemeniti che fuggono dalle province settentrionali di Saada, Hajjah, Al Jawf e da quella più interna di Amran. Riyadh, che negli ultimi decenni non aveva mai intrapreso azioni militari unilaterali, è preoccupata per la situazione di instabilità che attanaglia lo Yemen e cerca di arginare la crisi colpendo duramente i guerriglieri Zaydi, che intanto esportano il conflitto nelle province arabe di Jazan, Asir e Najran. Oltre confine gli F-15 e i Tornado della Royal Saudi Air Force bombardano le aree di Jabal Rumaih, Jabal Dukhan e Wadi al Mouked, mentre gli M198 howitzer da 155mm del Saudi Arabian Army martellano i rifugi dei ribelli che, giorno dopo giorno, riprendo il controllo del territorio.
Questo lo scenario di un conflitto che si è riacceso lo scorso 11 agosto e che ora, con le denunce dei rappresentanti dell’ Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhrc) e dell’Islamic Relief Worldwide, assume un aspetti ancora più brutali: mentre i raid dell’aviazione yemenita colpiscono i campo profughi allestiti dalle organizzazioni umanitarie, un gran numero di adolescenti, tra cui molti bambini, sarebbe stato arruolato tra le fila delle guerriglia.
A Sanaa sono certi che l’Operazione terra bruciata (Operation Scorched Earth), la campagna militare con la quale l’esercito yemenita e le forze saudite hanno deciso di soffocare la rivolta zaydita, stia mettendo i ribelli in forte difficoltà, ma le notizie diffuse negli ultimi giorni delle agenzie internazionali lasciano pensare che la crisi sia tutt’altro che vicina dal finire. Secondo quanto riportato dall’emittente iraniana Press Tv, il 4 dicembre scorso i guerriglieri del movimento Houthi, il gruppo armato nel quale confluiscono i militanti Zaydi che combattono contro le discriminazioni che colpiscono le popolazioni sciite del nord, avrebbero respinto le incursioni delle truppe saudite e, nonostante gli attacchi missilistici e i raid dell’aviazione, sarebbero stati in grado di mantenere il controllo della zona di confine che si trova nei pressi del villaggio di Ghawiyah.
Negli stessi giorni, il Saudi Arabian Army avrebbe reagito alla perdita di alcuni tanks, distrutti dai ribelli nei pressi del monte Mamdouh, lanciando decine di razzi nell’area di Jabal Dukhan; nella stessa azione sarebbero stati anche colpiti alcuni villaggi ed uccisi numerosi civili. Stessa cosa nei giorni successivi, quando ad operare è stata l’aviazione saudita: 13 attacchi contro i distretti di Malahit e Saqain con il rilascio di oltre 100 missili.
Sono quasi un milione le persone coinvolte in un conflitto che dall’agosto scorso ha già causato circa 175 mila profughi. Nel campo di Al-Mazraq, nella provincia occidentale di Hajjah, arrivano più di 900 civili al giorno, donne e bambini malnutriti, spaventati e disorientati da una guerra che li sta condannando alla povertà più assoluta. I rifugiati interni si vanno ad aggiungere al drammatico problema dei somali fuggiti dalla guerra che dilania il Corno d’Africa: 100 mila secondo alcune stime; 15 mila nella periferia di Aden, in una sorta di quartiere-baraccopoli nella zona urbana di Basatene, e circa 10 mila nel campo profughi di al-Kharaz.
Per gli altri, lo status di rifugiato ha poco valore. Lontani dalla principale comunità della diaspora somala che ha sede a Nairobi, i più sfortunati sono spesso costretti a vivere sui marciapiedi o all’interno delle bidonville sorte nei pressi del complesso dell’Unhcr di Sana’a, disoccupati, affamati ed ormai sgraditi anche al più povero dei paesi arabi. A questi si aggiungono poi gli eritrei e gli etiopi che scappano dalla repressione, dai disastri climatici e dalla povertà e che nello Yemen non godono neanche dello status di rifugiati.
Alla guida dello Yemen da oltre trent’anni, Ali Abdallah Saleh sta sicuramente attraversando un momento difficile, uno dei peggiori del suo “regno”. Stretto tra le fiammate di violenza che sempre più frequentemente incendiano il sud e una ribellione che a nord sta assumendo i connotati di una vera e propria guerra civile, Saleh deve fare i conti con enormi squilibri sociali e regionali: lo Yemen è uno dei paesi più poveri del mondo, strangolato dalle pressioni esterne e da scontri interni alimentati dalla corruzione che imperversa nelle stanze del notabilato politico. Dopo aver pagato a durissimo prezzo gli effetti della prima Guerra del golfo (Ali Abdallah Saleh appoggio Saddam Hussein ai tempi dell’invasione del Kuwait) il regime si è però lentamente riavvicinato a Riyadh e nella lotta al terrorismo internazionale è diventato, in Medio Oriente, uno dei più fedeli alleati della Casa Bianca.
La sensazione è che, comunque, le poche ricchezze del paese non affluiscano nel sud sunnita, da dove proviene l’80% dei proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, e non arrivino neppure nel nord sciita, dove la popolazione è praticamente alla fame, ma finiscano nelle tasche dei clan dominanti che sostengono il governo e il presidente Saleh. Il timore è che nello scenario yemenita stiano confluendo diverse crisi: la guerra civile al nord, il movimento separatista al sud, la presenza di cellule terroristiche sempre pronte a colpire gli Usa nella penisola Araba. Sta di fatto che mentre il governo accusa l’Iran di voler spaccare il paese aiutando i ribelli a restaurare l’imamato Zaydita, la minoranza sciita, discriminata sia sotto il punto di vista religioso che politico, denuncia come il regime lasci l’estrema regione settentrionale nella povertà più assoluta.
Secondo molti esperti la ribellione in atto nelle province settentrionali di Saada, Hajjah, Al Jawf e in quella più interna di Amran, trova le sue radici nella fallita unificazione del 1990; rispetto alla guerra civile del 1994, quando a guidare la guerriglia c’erano i vecchi leader del partito socialista, la rivolta zaydita ha però connotati strategici più ampi. Il fattore più rilevante è infatti il peso che riveste Teheran all’interno del conflitto: alla fine di ottobre, il quotidiano saudita Al-Watan, ha pubblicato un articolo nel quale parla di crisi diplomatica tra Arabia Saudita ed Iran e delle accuse yemenite nei confronti del regime degli Ayatollah, reo secondo Sanaa di sostenere i ribelli Houthi. L’apprensione deriverebbe dal notevole aumento delle attività iraniane nel Mar Rosso e dal tentativo della Repubblica Islamica di trasformare lo Yemen in una nuova area scontro.
Una tesi avvalorata dalla catturata a fine ottobre di un cargo carico di armi anticarro destinato alla guerriglia zaydita; dal sospetto dell’esistenza in Eritrea di campi di addestramento Pasdaran per i combattenti Houthi; dalle dichiarazioni rilasciate da Sheikh Abdallah Al-Mahdoun, uno dei comandanti della guerriglia che in un’intervista rilasciata ad un giornale arabo rivelerebbe il ruolo svolto dall’Iran nel conflitto yemenita, la massiccia fornitura di armi e di addestramento che oltre ai Guardiani della Rivoluzione starebbe ora coinvolgendo anche gli esperti Hezbollah arrivati dal Libano.
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di Michele Paris
Alla tavola rotonda voluta da Barack Obama alla Casa Bianca lunedì scorso erano presenti - di persona o in videoconferenza - quasi tutti i numeri uno delle grandi banche di investimenti di Wall Street. Con l’aumentare dell’irritazione dei cittadini americani nei confronti di quanti vengono giustamente additati come i principali responsabili della crisi finanziaria, nelle intenzioni del presidente l’incontro doveva costituire un rimprovero a Wall Street e, allo stesso tempo, un invito a riaprire i cordoni del credito a favore di aziende e consumatori in difficoltà. Il meeting, tuttavia, si è risolto in nient’altro che una farsa, messa in scena per cercare di placare la rabbia popolare verso istituzioni finanziarie tuttora in grado di manovrare a loro piacimento le vicende politiche di Washington.
A quella che un anonimo amministratore delegato presente ha definito una semplice “iniziativa propagandistica” hanno partecipato, tra gli altri, Kenneth Chenault, amministratore delegato e presidente di American Express, Jamie Dimon, amministratore delegato e presidente di JPMorgan, Richard Fairbank, amministratore delegato e presidente di Capital One, Robert Kelly, amministratore delegato di Bank of New York Mellon, e Ken Lewis, amministratore delegato e presidente fino al 31 dicembre prossimo di Bank of America. Collegati in videoconferenza erano invece i leader dei tre colossi Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup, rispettivamente Lloyd Blankfein, John Mack e Richard Parsons.
Questi ultimi avevano annunciato anticipatamente di non potersi recare nella capitale statunitense, ufficialmente a causa della nebbia che a inizio settimana ha impedito gli atterraggi all’aeroporto Reagan di Washington. A molti, però, il gesto è sembrato una chiara ritorsione per le parole che lo stesso Obama aveva pronunciato domenica sera ai microfoni della CBS. Nel corso della popolare trasmissione “60 Minutes”, il presidente aveva mostrato tutta la sua comprensione per la rabbia diffusa nel paese verso i banchieri di Wall Street - definiti spregiativamente “fat cats”. Lo scorso anno, d’altra parte, quando in una situazione di grande panico l’allora Segretario al Tesoro, Henry Paulson, convocò i banchieri con un preavviso di poche ore, essi si precipitarono ad un incontro dal quale in molti uscirono con cospicui assegni staccati dai contribuenti.
Con un tasso ufficiale di disoccupazione al 10%, la crisi dei mutui ancora intensa e i tagli devastanti alla spesa pubblica in molti stati per far fronte a pesanti deficit di bilancio, le grandi banche americane si apprestano a chiudere l’anno con profitti da record, nonché a distribuire decine di milioni di dollari di bonus ai loro dirigenti. Il tutto grazie all’enorme flusso di liquidità dirottato a loro beneficio dal Tesoro americano - sia sotto l’attuale amministrazione che la precedente - per scongiurare i rischi di fallimento.
Allo stesso modo, le pratiche speculative che hanno contribuito a generare una crisi finanziaria senza precedenti sono proseguite solo grazie al denaro pubblico. Mentre i dollari del piano di salvataggio voluto da George W. Bush nell’autunno del 2008 stanno per essere restituiti da molte banche - Bank of America, Goldman Sachs, JPMorgan, Morgan Stanley e, da ultime, Citigroup e Wells Fargo - così che esse potranno svincolarsi definitivamente dalle restrizioni imposte dal governo federale.
Dal momento che gli aiuti pubblici sono finiti sostanzialmente per alimentare nuove pericolose bolle speculative che potrebbero riesplodere nel prossimo futuro, i rubinetti del credito per le piccole e medie aziende americane sono andati sempre più restringendosi negli ultimi mesi. Da qui la convocazione dei banchieri voluta da Obama alla Casa Bianca. Da dove si è anche chiesto il sostegno per la riforma del sistema finanziario in discussione al Congresso. Proprio la scorsa settimana, infatti, la Camera dei Rappresentanti ha dato il via libera al nuovo progetto di regolamentazione, osteggiato però da Wall Street, nonostante gli effetti molto modesti in termini di controllo governativo delle operazioni finanziarie.
La riunione alla Casa Bianca si è dunque risolta in una supplica da parte di Obama verso quella vera e propria oligarchia finanziaria che influisce in maniera decisiva sulle scelte dei politici statunitensi, sia tramite ingenti finanziamenti ai due partiti principali sia con una schiera di loro uomini collocati in posizioni chiave del governo. Basti pensare, solo per citare i più alti livelli, ai consiglieri economici del presidente, Larry Summers e Robert Rubin, entrambi profondamente legati a Wall Street ed entrambi accesi sostenitori nell’amministrazione Clinton di una sfrenata deregulation in ambito finanziario.
Per ora, la commedia andata in scena alla Casa Bianca tra Obama e i padroni di Wall Street ha prodotto una promessa da parte della sola Bank of America di erogare nuovi prestiti alle piccole e medie imprese d’oltreoceano per 5 miliardi di dollari. Una somma irrisoria a paragone delle necessità di capitali di un’industria in grande affanno come quella americana. Ugualmente, nessun provvedimento è stato prospettato in caso di mancato rispetto delle direttive presidenziali in materia di credito.
Se anche Obama ha nuovamente ripetuto davanti alla nazione di non essere stato eletto per “proteggere una manciata di banchieri”, la realtà dei fatti si presenta ben diversa. La vera faccia del sistema, infatti, ci mostra un presidente democraticamente scelto dal popolo senza alcuna influenza su un’aristocrazia finanziaria che, di fatto, detiene le leve del potere e che, in definitiva, decide per l’economia del paese e il futuro di centinaia di milioni di persone.
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di Michele Paris
In concomitanza con la commemorazione del ventennale della più grave sparatoria della storia del paese, il Parlamento canadese è ad un passo dall’approvazione di una legge che cancellerebbe alcune importanti limitazioni alla diffusione di armi da fuoco. L’iniziativa del governo conservatore di Ottawa non solo è fortemente sostenuta dalle lobby delle armi, protagoniste di aggressive campagne pubblicitarie sull’esempio dei vicini americani, ma raccoglie ampi consensi anche tra gli abitanti delle sterminate regioni rurali del paese, i quali vedono come un affronto ogni restrizione al loro presunto diritto di acquistare e possedere armi.
Il 6 dicembre 1989, il 25enne disoccupato Marc Lepin fece irruzione nell’École Polytechnique di Montréal imbracciando un fucile da caccia semiautomatico. Dopo aver espresso il proprio anti-femminismo, separò gli studenti d’ingegneria maschi dalle femmine, per poi uccidere 14 ragazze e togliersi infine la vita. Il massacro, fino ad allora considerato possibile da molti canadesi solo oltre il confine meridionale, diffuse un profondo senso di indignazione e sconcerto. Il Canada scoprì improvvisamente che la vendita di armi da fuoco militari non era sottoposta pressoché a nessuna limitazione e che nel paese ne circolavano circa sei milioni i cui proprietari non erano in alcun modo identificabili.
La strage di Montréal lasciò in eredità alcuni significativi provvedimenti negli anni successivi. Tra il 1991 e il 1995 le leggi C-17 e C-68 introdussero infatti una serie di restrizioni al possesso e alla vendita di armi da fuoco e, soprattutto, un registro nazionale (Canadian Firearms Registry) sul quale devono essere riportate tutte le armi in circolazione nel paese. Una parte importante di quest’ultima legge, promossa nel 1995 dal governo liberale dell’allora primo ministro Jean Chrétien, è ora però minacciata da una proposta (legge C-391) che, se approvata, abolirebbe l’obbligo di registrazione per quelle armi a canna lunga di cui è consentita la vendita, come i fucili a pompa.
La discussione in corso sta inaspettatamente opponendo gli esponenti politici conservatori che appoggiano la nuova legge alle forze di polizia che si battono invece per il mantenimento del registro delle armi. Questo data-base viene infatti consultato in media più di dieci mila volte al giorno da agenti di polizia, che in questo modo hanno la possibilità di individuare ed eventualmente sequestrare armi da fuoco ai danni di sospetti criminali o in situazioni domestiche particolarmente conflittuali. Nonostante la carenza di dati direttamente collegabili al registro, a partire dalla sua introduzione il numero di omicidi causati da sparatorie in Canada è costantemente diminuito, soprattutto relativamente a quelli commessi in ambito domestico.
Per i fautori della liberalizzazione della vendita di armi da fuoco, molti dei quali cacciatori e nativi canadesi, il registro nazionale rappresenta al contrario un inutile e costoso fardello per i cittadini rispettosi della legge. A loro parere, la regolamentazione delle armi rappresenterebbe in sostanza un problema esclusivamente urbano. Sarebbe nelle città, a loro dire, che le armi vengono utilizzate in gran parte per commettere reati. La realtà dei fatti evidenzia invece come il tasso di mortalità per armi da fuoco sia più elevato in quelle comunità rurali dove esse sono maggiormente diffuse. Gli oppositori del registro affermano poi un diritto individuale al possesso di armi, sull’esempio americano, che la Corte Suprema ha chiaramente sostenuto non sussistere in Canada.
Tra numerose polemiche, la legge che dovrebbe cancellare l’obbligo di registrazione per alcune armi da fuoco ha così già superato due ostacoli nel parlamento canadese. Lo scorso 4 novembre la Camera dei Comuni ha dato il via libera al provvedimento con il voto favorevole dei parlamentari del Partito Conservatore che sostengono il governo di Stephen Harper e di quello decisivo di una ventina di rappresentanti dei partiti di centro-sinistra all’opposizione (Liberal Party e New Democratic Party). Se nella terza e ultima lettura della nuova legge a inizio 2010 dovesse profilarsi una nuova maggioranza a favore, la discussa misura entrerebbe definitivamente in vigore.
Per contrastare questa evoluzione nell’ambito della liberalizzazione delle armi da fuoco secondo il modello americano, si stanno mobilitando, oltre che le forze di polizia, anche i familiari delle vittime del massacro dell’École Polytechnique. La polarizzazione tra i due fronti tuttavia risulta estremamente marcata e sembra ormai sempre più probabile che, dopo tre anni di governi conservatori, il Canada possa scoprirsi all’improvviso più indulgente verso i possessori di armi e di un altro passo più simile al potente vicino americano.
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di Alessandro Iacuelli
Il presidente russo Dmitry Medvedev e il primo ministro indiano Manmohan Singh, in visita a Mosca, hanno firmato un accordo di cooperazione per l'utilizzo pacifico della tecnologia nucleare. L'accordo consentirà la costruzione di numerose centrali nucleari in India da parte dell'agenzia atomica russa Rosatom, ha detto il numero uno Sergei Kiriyenko parlando coi reporter a margine dei colloqui al Cremlino. Al momento non sono stati resi noti molti altri dettagli dell'accordo, ma i pochi filtrati dai comunicati ufficiali fanno pensare a intese anche in altri settori strategici per l'India: una possibile collaborazione in campo spaziale e nel mercato dei diamanti.
Così, l'India sembra intenzionata a essere un serio alleato strategico della Russia. Negli ultimi sei mesi, il premier Manmohan Singh si è recato per ben tre volte in visita ufficiale al Cremlino. L’ultima lo scorso 7 dicembre, quando i due Paesi hanno varato un importante accordo di cooperazione sullo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare.
L'accordo con la Russia è il secondo, dopo quello con gli Usa, alla fine di una lunga battaglia condotta da Washington e Delhi, perché l'India fosse esonerata dalle norme internazionali sulla non-proliferazione, che da oltre tre decenni impedivano la vendita all'India di combustibili e tecnologia nucleari. Queste norme erano state adottate proprio perché il Paese aveva usato le tecnologie nucleari a lei fornite per "scopi pacifici" per fabbricarsi armi nucleari, soprattutto in chiave anti pachistana, a causa della controversia sul Kashemir. In seguito al test nucleare indiano del 1974, venne costituito il Nuclear Suppliers Group (NSG), il Gruppo internazionale dei fornitori nucleari, con 45 Stati membri, fra cui l'Italia; proprio questo gruppo, l'anno scorso ha cancellato il bando all'India sull'importazione di tecnologia nucleare.
Dopo tre anni di dibattiti a Washington, Delhi e Vienna, nell'ottobre 2008 il senato americano aveva approvato l'accordo di cooperazione nucleare civile con l'India, secondo il quale gli USA forniranno tecnologie e carburante a New Delhi per una ventina di centrali nucleari civili. In cambio l'India garantirà circa 70 miliardi di dollari in scambi commerciali con le imprese Usa.
La Russia non è rimasta a guardare a lungo. Al momento sono pochi i dettagli forniti sull'accordo di cooperazione nucleare del 7 dicembre: si sa però che Rosatom costruirà altri 4 reattori per la centrale nucleare di Kundankulam in Tamil Nadu, già simbolo della collaborazione tra i due Paesi (il primo reattore dovrebbe essere avviato già all'inizio del 2010); verranno avviati i lavori per una nuova centrale nel Bengala occidentale, dove Rosatom dovrebbe occuparsi della costruzione di quattro su sei reattori programmati nel giro di 10-15 anni.
L'accordo, valido dal 2011 al 2020, avrà un valore di decine di miliardi di dollari e, oltre al nucleare, prevede la vendita alla Russia di hardware militare in dotazione all'India. È probabile che la simbiosi si completi pure su altri campi, dato l'interesse di New Delhi nella ricerca spaziale, le telecomunicazioni, i mercati di diamanti grezzi e i prodotti farmaceutici.
Al momento il nucleare fornisce all'India meno del 3% di elettricità; nel 2050, a pieno regime, la quota dovrebbe arrivare fino al 25%. Nonostante le critiche di ambientalisti e di gruppi pacifisti, con quella che ormai gli analisti chiamano la “diplomazia dei reattori”, il primo ministro Singh ha riportato l'India più che mai al centro dello scacchiere internazionale. A causa della crisi petrolifera il mercato nucleare diventa infatti sempre più appetibile per i Paese emergenti. E ora anche la Francia, vero rivale per Mosca sul mercato del nucleare indiano, aspetta il suo momento per farsi avanti.
C'è naturalmente, come sempre quando si parla di accordi internazionali in campo nucleare, chi non si fida. Vari analisti di tutto il mondo ricordano come spesso i Paesi importatori di tecnologia nucleare, anzichè usarla a fini di approvviggionamento energetico, l'abbiano non solo usata a fini militari, ma anche rivenduta a Paesi terzi. Così, oggi c'è chi ipotizza che dietro l'accordo siglato a Mosca potrebbe esserci l'Iran, sempre al centro delle polemiche quando si parla di nucleare. Infatti, la Russia venderà all'India del combustibile atomico, così come voleva farlo con l'Iran. Dopo il distacco di Mosca dal suo appoggio tacito al piano nucleare di Teheran, quella attuale potrebbe essere una mossa compensativa che gode del tacito avallo americano.
Il governo russo non conferma e non smentisce: "I nostri due paesi hanno tanti campi di cooperazione, molti progetti riguardano la sfera energetica e una parte considerevole di essi concerne il settore nucleare", ha dichiarato Medvedev nella conferenza stampa dopo la firma dell'accordo, "Il documento che abbiamo firmato oggi consente di sviluppare la collaborazione negli anni futuri", ha aggiunto. Il premier indiano, subito dopo l'arrivo a Mosca, aveva incontrato in forma privata Medvedev nella sua residenza privata a Barvikha, mentre i colloqui ufficiali, a delegazioni allargate, si sono svolti al Cremlino. Al momento non si sa di più: tutto ciò che riguarda il governo russo è decisamente coperto da riserbo e ovviamente, tanto per cambiare, si parla di vendita di uranio per “soli usi pacifici”.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Nonostante la recente qualificazione ai mondiali di calcio del 2010, la Grecia ha poco da festeggiare: la sua pessima situazione economica preoccupa l'Europa intera a tal punto che qualcuno parla di una nazione a rischio bancarotta. E, come non bastasse, a un anno dalla morte del quindicenne Alexandros Grigoropoulos, assassinato dalla pallottola di un poliziotto durante le manifestazioni di piazza del 2008, sono riprese le proteste degli studenti. Gli unici, a quanto pare, disposti a manifestare apertamente contro un sistema che deve trovare la forza di rinnovarsi completamente.
I mercati e i governi di tutto il mondo stanno seguendo con aperta preoccupazione l'evoluzione della situazione economica della Grecia: le azioni stanno precipitando e la credibilità del Paese continua a scendere. Secondo una recente previsione dell'agenzia di rating americana Standard & Poor, il debito pubblico della Grecia potrebbe raggiungere, nel 2010, il 125 percento del Pil, mentre il deficit effettivo, al momento, è del 13 percento. In più, la Grecia risulta tra i Paesi più corrotti della Comunità Europea, raggiungendo il 71/mo posto nella classifica mondiale di Transparency (tanto per fare un piccolo confronto, l'Italia si trova al 63/mo posto).
Le cifre sono spaventose, ma il ministro delle Finanze greco Giorgos Papakonstantinou non ha mancato di rassicurare l'economia e la politica mondiale, cercando di fugare quelle voci di corridoio che vorrebbero la Grecia sull'orlo della bancarotta. "Non c'è assolutamente nessun rischio", ha assicurato Papakonstantinou. "Noi non saremo la prossima Islanda". Secondo il ministro, infatti, il 2010 sarà un anno difficile, ma "non impossibile".
Per Gennaio, Papakonstantinou ha promesso alla Comunità Europea un ambizioso programma di stabilità finalizzato a riequilibrare l'economia. Tra i punti principali del piano ci sono la sospensione delle assunzioni pubbliche, la riduzione delle spese statali del 10 percento e una più attenta lotta alle evasioni fiscali. Anche il primo ministro socialista Giorgios Papandreou, da parte sua, ha appoggiato il programma di stabilità di Papakonstantinou, ammettendo tuttavia la difficoltà di quella che sembra essere l'unica via di salvezza per l'economia greca.
Il premier socialista Papandreou (Pasok) è stato eletto appena due mesi fa, andando a sostituire l'ex premier Costas Karamanlis (Nea Demokratia) e il suo governo di centrodestra, allora al potere da sei anni. La popolazione ha riposto in lui parecchia fiducia: Papandreou, infatti, vanta profonda conoscenza della res politica, in quanto viene da una delle duefamiglie che - insieme ai Karamanlis - da decenni si alternano alla guida del Paese. Anche suo padre e suo nonno sono stati Premier.
Ma gli studenti non credono alle promesse della politica: i problemi contro cui hanno manifestato così violentemente nel dicembre 2008, che hanno portato alla morte del quindicenne Grigoropoulos per mezzo della pallottola di un poliziotto, non sembrano loro essere sulla via di una giusta risoluzione. E, nonostante Papakonstantinou abbia minacciato nei confronti di qualsiasi "tafferuglio" tolleranza zero, anche quest'anno sono scesi in piazza, mettendo a soqquadro, come in un pauroso dejá vu, il centro di Atene.
Il sistema educativo greco presenta, in realtà, numerose lacune, che vanno a intaccare anche ia società più in generale. Secondo informazioni del quotidiano berlinese Tagesspiegel, chi frequenta le scuole pubbliche greche è obbligato a prendere ulteriori lezioni private per superare gli esami. In un anno, le famiglie greche spendono in insegnanti privati circa 750 milioni di Euro. Secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD), gli studenti che iniziano l'università in Grecia sono, in media, 86 mila all'anno, mentre quelli che studiano presso atenei stranieri sono, al momento, più di 50 mila. Il rapporto non è certo dei più sani. La Grecia, tra l'altro, è il Paese europeo con la percentuale più alta di disoccupazione tra i giovani dai 16 ai 25 anni: e chi trova lavoro si deve accontentare di uno stipendio fissato per legge a 715,65 euro. Ce n’è abbastanza per manifestare.