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di Carlo Benedetti
Mosca. In Ucraina, per ora, la “rivoluzione arancione” continua, pur se il suo leader massimo - il presidente Viktor Juscenko - esce sonoramente battuto dalla consutazione elettorale di domenica. Perchè le urne delle presidenziali lo hanno relegato al quarto posto con un umiliante 5%, mentre la sua ex alleata - Julia Timoshenko - ha raggiunto il 25%. E’ andata quindi bene al maggiore sfidante, il leader del “Partito delle regioni”, Viktor Janukovic che ha superato il 33%. Ora sarà necessario andare al ballottaggio e il giorno fissato è il 7 febbraio.
Comincia da questo momento una nuova battaglia elettorale che verrà giocata, in particolare, ai tavoli delle trattative, poiché sulla scena politica del Paese sono attive varie formazioni minoritarie, che assumeranno un ruolo determinante quando si avvierà il ballottaggio tra Janukovic e Timoshenko. Nel conto generale andrà poi messo quel 13% di voti riportati da Sergej Tighipko - ex presidente della banca nazionale e uno dei trenta uomini più ricchi del Paese - e quel 4% incassato dal leader comunista Piotr Simonenko.
Ora si tratta. E la partita del ballottaggio vedrà in campo non solo i personaggi tradizionali dello scontro politico locale, ma anche forze esterne. Mosca, in primo luogo. Perchè è chiaro che la Russia di Putin-Medvedev, pur avendo già appoggiato clamorosamente Janukovic, flirta ora con la Timoshenko, le cui azioni sono significativamente salite negli ambienti del Cremlino.
Intanto sul tappeto del ballottaggio tornano i grandi problemi del Paese e il nuovo voto si annuncia cruciale per i rapporti tra Kiev e l’Ovest ed anche per le relazioni generali dell’Est e della Russia con l’Europa. Tutto questo tra la disillusione degli elettori, colpiti dalla crisi economica ma anche preoccupati per il fatto che l’Ucraina dipende pesantemente dalla Russia per i suoi bisogni energetici. Soprattutto dopo le tensioni degli ultimi anni dovute alla querelle del gas. Gli ucraini sanno bene che chi uscirà vincente dal ballottaggio dovrà cercare di rivitalizzare l'economia e prendere il controllo delle finanze pubbliche, sostenute da un programma del Fondo monetario internazionale da 16,4 miliardi di dollari.
Non mancano però nubi grigie sull’intera vicenda elettorale di queste ore. Perchè in appoggio a Juscenko e alla Timoshenko sono arrivati dalla Georgia i “fratelli” dell’altra “rivoluzione”. Quella delle “rose”, che nel novembre del 2003 sconvolse l’intera regione avendo ricevuto fondi e sostegni da parte dell’occidente e dei servizi iraeliani. Ora a Kiev sono sbarcati oltre cinquecento personaggi, provenienti da Tbilisi, che si sono presentati come “osservatori” per garantire la normalità delle elezioni. Ma questa vicenda si è subito tinta di giallo.
Perchè - come risulta negli ambienti della diplomazia ucraina e russa - quasi tutti questi “agenti” (così li definisce la stampa russa) fanno parte delle strutture vicine ai servizi segreti georgiani. Una notevole parte sono militari. Alcuni sono muniti di documenti falsi e tutti hanno seguìto corsi di addestramento per combattimenti corpo a corpo. Scopo di questa “invasione georgiana” - si rileva negli ambienti politici che appoggiano Janukovic - consiste nel prendere contatto con quanti sono restati “fedeli” alle prime mosse della rivoluzione arancione. E nei piani dei georgiani ci potrebbero essere azioni diversive con l’organizzazione di proteste e manifestazoni contro Janukovic. Su questo pericolo i media della Russia insistono particolarmente, riportando anche la registrazione di un compromettente colloquio tra la Timoshenko e il suo amico presidente georgiano, Saakasvili, notoriamente antirusso e quisling degli americani.
Nello scontro interno ucraino rientra poi il tema religioso, dal momento che nel recente passato il presidente Jushenko lanciò l’idea di fondare una chiesa ortodossa ucraina svincolata dal Patriarcato di Mosca. Attualmente la chiesa di Kiev è infatti subordinata alla Russia che è di fatto - dal punto di vista delle strutture religiose - l’unica sopravvissuta alla disgregazione dell’Urss. Molti dei territori un tempo parte dell’Unione e oggi indipendenti - come Ucraina, Bielorussia, Estonia, Lituania e Lettonia - continuano a fare riferimento, per ciò che concerne l’organizzazione ecclesiastica, a Mosca. Il che dà modo alla Russia - che con Putin ha conosciuto una forte saldatura tra potere civile e potere religioso - di esercitare un’altra forma d’influenza, anche se decisamente più soft rispetto alle pressioni energetico-politiche, su nazioni sovrane non più parte dell’Urss ma ancora parte dello spazio russo.
Tutto peserà di conseguenza nel bilancio che gli ucraini dovranno fare nel momento in cui - il 7 febbraio, appunto - dovranno scegliere il nuovo presidente: uno Janukovic schierato sul fronte filorusso o una Timoshenko, pasionaria, volta all’Occidente, ma segnata fortemente dalle mode nazionaliste.
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di mazzetta
Sono ormai molti gli osservatori internazionali che ritengono come la strategia statunitense in Asia non possa più prescindere da un ripensamento della linea politica verso Karachi. E' infatti evidente come le sorti della guerra in Afghanistan siano direttamente intrecciate con quanto avviene in Pakistan, dove, a rendere ancora più precaria la situazione, ai successi militari non si sono accompagnate buone notizie sul versante politico.
Il piano dell'amministrazione Bush era lineare nella sua brutale elementarità: consegnare il governo a Benhazir Bhutto e la presidenza a Musharraf, con il ritorno dell'esercito sotto il controllo dell'autorità civile. Un piano che, per realizzarsi, ha avuto bisogno di alcune forzature, che poi hanno dimostrato la loro debolezza una volta messe alla prova dalla realtà. Per rendere realizzabile il piano, infatti, Musharraf ha decretato un'amnistia per i numerosi politici e funzionari accusati di corruzione e ha cancellato il limite costituzionale dei due mandati, permettendo così a Benhazir Bhutto il rientro dal dorato esilio negli Emirati, ma anche quello del suo eterno rivale Sharif.
Benhazir Bhutto è durata pochissimo, uccisa in un sanguinoso attentato mentre percorreva il paese in campagna elettorale, ma il piano è sopravvissuto. A reggere il partito di famiglia (PPP) è stato nominato il figlio appena diciottenne e, come candidato premier, si è presentato suo marito, Alì Zardari, già noto con il soprannome di Mr Dieci Percento, dalla quota che esigeva su ogni spesa del governo retto dalla moglie in passato. A guastare la festa ci si è messa per la Corte suprema, che minacciava di dichiarare incostituzionali le leggi di Musharraf, che quindi ha reagito cacciando alcuni giudici e anche il Chief of Justice Chaudri, fortemente ostile.
Vinte le elezioni è andato al governo Zardari, che ha subito dimenticato la promessa di reinsediare i giudici cacciati, perché gli era sufficiente la sentenza che sanciva l'invalidità dell'elezione di Musharraf alla presidenza che la Corte, ancora monca, gli aveva offerto per liberare la presidenza e insediarvi un esponente del suo partito. Alla fine ha dovuto però soccombere alle pressioni della piazza e delle opposizioni. Intanto l'esercito ha reagito alla minaccia talebana raccogliendo il favore della popolazione, in passato poco convinta dell'opportunità di combattere tra pachistani su impulso degli americani. Per convincere i pachistani, Musharraf aveva preparato il terreno lasciando arrivare i talebani ad assumere il controllo della valle dello Swat, un paradiso turistico presto trasformato in un simpatico angolo di medioevo a pochi chilometri dalla capitale.
L'esercito ci è andato con la mano pesante e gli attaccati hanno risposto con sanguinosi attentati, compensando così la schiacciante superiorità militare dell'avversario. Un gioco che è costato duemilaottocento vittime pachistane in un anno e centinaia di migliaia di profughi in fuga, cifra che autorizza a parlare di guerra in Pakistan, anche se per i media la guerra non c'è nemmeno in Afghanistan.
In questi giorni il governo di Zardari è andato in frantumi: la Corte ha annullato anche l'amnistia di Musharraf e il ministro dell'Interno, quello della Difesa e molti altri esponenti del PPP, hanno dovuto scegliere se versare una cauzione per restare in libertà o darsi alla fuga, perché la sentenza della Corte ha improvvisamente riportato in vita vecchi processi e vecchi mandati di cattura. Zardari si è salvato perché gode dell'immunità garantita alla carica, ma solo momentaneamente, perché un codicillo “islamico” non garantisce l'immunità nei casi di “turpitudine”; tutti gli osservatori concordano nel ritenere più che turpi le ruberie di Zardari, che non sembra aver cambiato abitudini negli anni e che è largamente inviso alla popolazione.
Resterebbero in campo solo Sharif, a capo di un partito di minoranza e privo di referenze impeccabili, già protagonista di due governi fallimentari, e le seconde linee del PPP. Ma resta in campo anche l'esercito, sempre pronto a surrogare il potere civile in frantumi, che potrebbe essere addirittura chiamato in causa dalla Corte nel caso il governo si rifiutasse di riconoscerne ed eseguire le sentenze. L'esercito è ora retto dal delfino di Musharraf, come lui proveniente dal comando dell'ISI, i potenti servizi pachistani, che gli americani vorrebbero ricondurre sotto la direzione civile. Ma una mossa di Zardari in tal senso è già andata a vuoto, mentre i militari continuano ad esercitare il controllo e la custodia del programma nucleare pachistano, che procede con l'impegnativa costruzione di nuovi vettori e nuovi reattori, nonostante il paese sia dovuto correre a piangere un prestito presso il Fondo Monetario per salvare l'economia dalla crisi.
Una situazione fluida che non consente di considerare consolidati i successi militari contro i numerosi gruppi armati che si muovono lungo la frontiera afgana: E nemmeno offre alcuna certezza, se non che gli unici ad essere tranquilli sono Musharraf - che può sempre contare sulla garanzia di un esilio dorato se le cose si mettessero male sul piano giudiziario - e il suo successore A. P. Kayani, che collabora sornione alle iniziative americane, ma che è anche pronto in ogni momento a mobilitare il potere militare per il bene del paese.
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di Emanuela Pessina
Berlino. Nonostante la straordinaria ondata di freddo e neve che ha colpito Berlino negli ultimi giorni resta alta la temperatura all'interno del Bundestag, il Parlamento tedesco: la coalizione nero-gialla non sembra trovare l'accordo sullo sgravio fiscale e i toni si inaspriscono sempre più. E neppure i tradizionali congressi di partito di inizio anno, che si sono svolti proprio in questi giorni, lasciano intravedere armonia tra i partiti di governo; la strada dell'accordo tra liberaldemocratici (FDP), Unione Cristiano-Democratica (CDU) e Unione Cristiano Sociale (CSU) sembra ancora lunga e, soprattutto, in salita.
Secondo i liberaldemocratici tedeschi, la riduzione delle tasse è un passo inevitabile per la crescita futura del Paese: è quanto hanno ribadito i rappresentanti del partito in occasione del tradizionale congresso di partito dell’Epifania tenutosi a Stoccarda."Senza crescita è impossibile garantire il consolidarsi del bilancio e, proprio per questo, dobbiamo tenere duro e ridurre le tasse ai cittadini", ha detto il ministro dell'Economia Rainer Brüderle (FDP). Il presidente dell'FDP - e vicecancelliere - Guido Westerwelle, da parte sua, ha sottolineato che la riforma fiscale è stata fatta "per tutto il popolo": Qualcuno ci ha visto una mossa per fugare le critiche dell'opposizione, che hanno tacciato la politica economica liberaldemocratica di clientelismo e l'hindirizzata al solo ceto medio borghese.
Ma in cosa consiste effettivamente la riforma fiscale proposta dai liberali? Secondo il quotidiano regionale Rheinischer Post, il ministro Brüderle punta a una semplificazione del sistema tributario e all'introduzione di tariffe "a gradini" per le imposte sul reddito. Ma l'equità della riforma annunciata non ha convinto l'opposizione: secondo il presidente della frazione socialdemocratica Joachim Poss (SPD), i liberali vorrebbero "risparmiare su famiglie, lavoratori dipendenti e disoccupati".
E intanto è cominciato a Wildbad Kreuth (vicino a Monaco di Baviera, Sud) anche il convegno della CSU: le premesse non lasciano presagire nulla di buono neppure qui, per i liberali.Il presidente dei cristiano sociali Horst Seehofer ha invitato l'FDP a non prendere decisioni affrettate: sì allo sgravio fiscale, ma solo dopo un'analisi accurata dell'effettiva situazione economica del Paese. Il direttore della commissione per le Finanze del Parlamento tedesco Hans Michelbach (CSU), invece, ha usato toni ben più decisi contro la riforma di Brüderle: “È stato un errore lasciare il settore economico ai liberaldemocratici”, ha dichiarato Michelbach in un’intervista all’agenzia stampa ddp, poiché “lo sgravio fiscale su cui insistono non aiuta né la Germania né la coalizione”.
L'FDP, da parte sua, non risparmia aspre critiche all'Unione della Merkel, cui mancherebbe, in particolare, l'orientamento di fondo: "L'Unione non ha una decisa preferenza in parecchie questioni fondamentali", ha commentato il segretario generale dell'FDP Christian Lindner, sottolineando che l'unione non saprebbe decidersi "tra la libertà e l'uguaglianza."
Lo sgravio fiscale, in realtà, è stato il tallone d’Achille della coalizione nero-gialla fin dall'inizio. L’Unione Cristiano Democratica, insieme alla consorella bavarese Cristiano Sociale (CSU), ha cercato di evitare da subito promesse di sgravi in considerazione dell’enorme debito pubblico della nazione. Per i liberali, invece, le previsioni di miglioramento della congiuntura costituivano già un'occasione per abbassare le imposte alle aziende in nome dello sviluppo.
L'ago della bilancia, a quanto pare, sarà proprio la voce di Angela Merkel. Il consiglio direttivo della CDU è previsto per questo weekend a Berlino, ma la cancelliera ha già provveduto a farsi sentire dopo un lungo, inusuale silenzio. "La riforma tributaria sta, per me, fuor da ogni dubbio", ha detto la Merkel al quotidiano economico tedesco Handelsblatt, specificando che "il contratto della coalizione prevedeva di applicare lo sgravio fiscale entro il 2011, e così rimane". La cancelliera ha annunciato decisioni concrete per maggio: sperando che, per allora, le temperature primaverili della capitale tedesca riescano a daddolcire gli animi anche all'interno del Governo federale.
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di Carlo Benedetti
Mosca. In Ucraina si vota oggi per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. L’atmosfera è più che mai tesa, dal momento che il paese si trova già da anni al centro di una contesa geopolitica tra la Russia e gli USA che puntano ad attrarlo nelle proprie sfere d’influenza. Ma vediamo da vicino i personaggi che aspirano alla vittoria. In primo luogo c’è il presidente uscente, Viktor Jushchenko, (classe 1950) che è presidente dal 2004 e che si è sempre battuto per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Unione Europea. E’ stato il principale animatore di quella “Rivoluzione arancione” sponsorizzata dagli americani e dal grande capitale occidentale. La sua politica è stata quindi fortemente filo-statunitense ed ha creato numerosi problemi con la Russia. Nel 2006 una riforma costituzionale gli ha ridotto i poteri presidenziali e, nello stesso tempo, la sua amministrazione è stata caratterizzata anche dai rapporti tesi coi suoi primi ministri.
Nella scuderia dei candidati c’è poi Viktor Janukovic (classe 1950) capo del Partito delle regioni (Pr) e leader dell’opposizione. E’ lui che conta sulle aspirazioni filorusse di gran parte della popolazione ucraina e che trova, di conseguenza, forti appoggi nel Cremlino moscovita. Ma nello stesso tempo non disdegna il sostegno (economico) di Rinat Achmetov, l’uomo più ricco del paese. Janukovic si fa vanto delle sue posizioni filo-russe ed ha recentemente confermato il suo “no” alla NATO. Come quasi tutti i maggiori candidati si è invece dichiarato favorevole all’ingresso dell’Ucraina nell’UE, seppure con tempi più “rilassati”.
Pur se molto vicino alla Russia di Putin, ha più volte affermato di voler fare dell’Ucraina uno Stato neutrale, sponsorizzando l’idea di un sistema di difesa collettivo europeo. In politica interna ha promesso un incremento della spesa sociale e delle pensioni, accompagnato da una riforma fiscale e del sistema legale. Si è inoltre impegnato a modernizzare il settore energetico e ad aumentare la produzione domestica di gas naturale. Ha infine proposto il riconoscimento della lingua russa come seconda lingua ufficiale.
Su queste due candidature, che dominano la cordata, pesa il nome della “pasionaria” Julija Timoshenko. Personaggio contraddittorio e misterioso: primo ministro a 49 anni ed esponente di spicco della famosa “rivoluzione” del 2004 che la vide appoggiare il filoccidentalismo di Juscenko. Accusata un tempo di contrabbando di gas e di valuta, ma poi prosciolta. Oggi (a capo del “Blocco” che porta il suo nome) si schiera in funzione anti-Juscenko - con il quale è ai ferri corti - ed incontra, di conseguenza, i favori del premier russo Vladimir Putin.
Convinta sostenitrice dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea, non ha preso invece posizione riguardo un’eventuale adesione alla NATO per non incrinare i rapporti con la Russia, riconoscendo la necessità di dialogare e preferendo demandare la questione ad un referendum popolare. Quanto alle questioni prettamente amministrative, si oppone alla privatizzazione del sistema nazionale di trasporto del gas e ha basato la sua campagna presidenziale su di un ampio programma di riforme economiche, giudiziarie e politiche, per rendere più stabile e governabile il paese, in particolare attraverso una modifica della costituzione in senso meno centralista.
Nazionalista pragmatica (contraria all’idea d’introdurre il russo come seconda lingua ufficiale del paese) e di orientamento filo-occidentale, è accusata dagli occidentalisti più radicali - tra i quali appunto l’ex alleato Juscenko - di svendersi alla Russia, mentre i suoi diretti avversari la accusano di arrivismo. A questi tre candidati di spicco vanno aggiunti altri 15 nomi, che rappresentano varie organizzazioni minoritarie. Tutti, comunque, promettono promettono riforme fiscali con tagli delle tasse, innalzamento delle pensioni, investimenti, modernizzazioni, senza però alcuna effettiva copertura finanziaria. Allo stesso modo quasi tutti, con la sola eccezione del comunista Symonenko, si dichiarano favorevoli ad un’intensificazione dei rapporti con l’UE in vista di un futuro ingresso nell’Unione.
Previsioni? A Kiev gli ambienti degli osservatori e delle diplomazie occidentali danno per scontata la vittoria di Janukovic, ma non si esclude un testa-a-testa. Una situazione che rispecchierebbe la realtà geopolitica di un’Ucraina divisa tra la parte occidentale e centrale - incentrata su Lviv e Kiev, che guarda verso l’Ue e gli Usa - e la parte orientale e meridionale - gravitante su Kharkiv e Donetsk, dove prevale la lingua russa - e che è orientata verso Mosca.
E’ quindi probabile che stasera non vi sarà un vincitore e che sarà necessario il ballottaggio, già previsto per il 7 febbraio. La situazione é che mai indecisa. E se dalle urne uscirà confermato questo stato di tensione e di instabilità vorrà dire che non solo l’Ucraina, ma tutta l’Europa dell’Est (Mosca in particolare) si troverà a fare i conti con una nuova rivoluzione ucraina. Torneranno sul tappeto le questioni legate alle forniture di gas e i temi della divisione della flotta del Mare Nero. Per non parlare della nota questione della Crimea, contesa tra Mosca e Kiev.
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di Michele Paris
La mattina di martedì 12 gennaio, un esplosivo azionato a distanza e collocato su una motocicletta parcheggiata nel quartiere di Qeytariyeh, a nord di Teheran, ha ucciso il professor Massoud Ali Mohammadi mentre usciva di casa per recarsi al lavoro. L’assassinio di quello che viene descritto come uno dei più importanti scienziati nucleari del paese, rimane ancora avvolto nel mistero e si inserisce nel contesto delle crescenti pressioni e minacce occidentali intorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.
Il professor Mohammadi era un contestatore del regime o, come sostengono fonti governative, un fedelissimo della linea dura? E le responsabilità per la sua morte vanno ricercate all’interno del paese o nelle attività di sabotaggio condotte sotto copertura dai servizi segreti americani e israeliani? I resoconti della vicenda sulla stampa iraniana e internazionale appaiono contraddittori e si legano indissolubilmente alle ragioni sostenute dalle parti in causa. Anche se, a ben vedere, un filo rosso sembra collegare sparizioni, assassini e defezioni di numerosi scienziati iraniani negli ultimi anni.
Secondo le testimonianze di alcuni studenti del professor Mohammadi riportate dai giornali europei e americani, non risultava impegnato politicamente. Per altri, invece, negli ultimi mesi sarebbe stato un sostenitore convinto delle dimostrazioni anti-governative degli studenti della Teheran University. Il nome di Mohammadi, inoltre, apparirebbe su una petizione firmata con altri 200 accademici che appoggiavano il candidato riformista moderato Mousavi nella contestazione dei risultati delle elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, che hanno consegnato un secondo mandato ad Ahmadinejad.
Diametralmente opposta è stata la caratterizzazione del fisico ucciso fatta dai media ufficiali e dalle fonti governative iraniane, che hanno subito escluso ogni connessione tra l’assassinio e i fatti successivi alle elezioni presidenziali. La stazione televisiva di Stato, Press TV, ha definito Mohammadi un “fedele sostenitore” della rivoluzione del 1979, mentre l’università nella quale insegnava fisica nucleare è stata additata come uno dei centri più importanti in Iran per la ricerca in quest’ambito.
Altri media locali, ancora, hanno parlato di una sua militanza in passato tra i Guardiani della Rivoluzione - impegno abbandonato da alcuni anni, secondo alcune ricostruzioni riportate in Occidente - o addirittura della presenza del suo nome su una lista di nomi di cittadini iraniani soggetti a sanzioni internazionali a causa del loro coinvolgimento nel programma nucleare di questo paese.
Quest’ultimo sarebbe proprio il motivo indicato dal governo di Teheran per l’omicidio di Ali Mohammadi e le responsabilità, a detta del Ministero degli Esteri e del magistrato incaricato delle indagini, sarebbero precisamente da attribuire ai servizi segreti di quelle potenze occidentali maggiormente preoccupate per la possibile realizzazione di armi nucleari da parte dell’Iran: CIA e Mossad.
Alla luce dei parecchi episodi sospetti avvenuti negli ultimi tempi, l’ipotesi avanzata dagli ambienti governativi iraniani in merito alla morte di Mohammadi non può essere scartata a priori, nonostante la secca smentita del Dipartimento di Stato USA. A sollevare più di un dubbio sul coinvolgimento statunitense e israeliano in una di queste vicende era stato già tre anni fa un autorevole think tank americano che si occupa di intelligence, STRATFOR.
In un rapporto pubblico veniva indicato come dietro alla morte misteriosa dello scienziato iraniano, Ardeshir Hosseinpour, ci fossero proprio i servizi di intelligence israeliani. Hosseinpour, morto presumibilmente per avvelenamento, era sulla lista nera del Mossad, in quanto aveva partecipato al programma nucleare del suo paese nella città di Isfahan, dove sarebbe situato un reattore sperimentale. Sempre secondo STRATFOR d’altra parte, l’eliminazione fisica di scienziati di spicco legati al programma nucleare di un paese ostile in previsione di un intervento militare è pratica consolidata da parte di Israele. Alla vigilia dell’attacco a sorpresa al reattore di Osirak, in Iraq, nel 1981 (“Operazione Opera”) sembra che almeno tre tecnici nucleari iracheno morirono in circostanze poco chiare.
Alla scomparsa di Hosseinpour agli inizi del 2007, vanno poi aggiunte almeno quelle di altri due docenti iraniani legati al nucleare. Il primo, Ardeshir Asgari, morì sempre nel 2007, ufficialmente a causa di soffocamento; il secondo, Shahram Amiri, tra maggio e giugno dello scorso anno sparì durante un pellegrinaggio alla Mecca. Fatta passare come una defezione da gran parte della stampa occidentale, la sparizione del professor Amiri è stata sempre attribuita dagli iraniani ad un vero e proprio sequestro orchestrato dagli Stati Uniti con la complicità saudita.
A sequestri, rapimenti e morti sospette, vanno poi aggiunti i toni sempre più bellicosi di Washington nei confronti di un regime percepito sempre più in affanno dopo le continue manifestazioni di piazza degli ultimi mesi. Il riuscito attentato di Teheran di questa settimana, ad esempio, è giunto a poche ore di distanza da una preoccupante presa di posizione in diretta televisiva del numero uno del Comando Centrale Americano in Medio Oriente (CENTCOM), generale David Petraeus.
Alla CNN l’ex comandante delle forze armate USA in Iraq ha infatti dichiarato che il suo Comando sarebbe da considerare “irresponsabile” se non stesse prevedendo dei piani relativi ad una potenziale aggressione militare dell’Iran. In risposta a precedenti indicazioni della stampa, che rivelavano come Teheran avesse cercato di proteggere i suoi siti nucleari in una serie di tunnel sotterranei, Petraeus ha poi affermato senza riserve come tali installazioni potrebbero essere comunque bombardate efficacemente.
In previsione di un possibile attacco, il Pentagono sta accelerando la produzione di nuove bombe “bunker buster”, ordigni da oltre 13 tonnellate in grado di colpire obiettivi ad oltre 60 metri sotto terra. Parallelamente, l’amministrazione Obama sta spingendo sia il Congresso che il cosiddetto gruppo P5+1 (USA, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) ad adottare sanzioni economiche più severe nei confronti dell’Iran, mentre a inizio anno ha dato istruzioni ad una flotta di navi da guerra, guidata dalla USS Eisenhower, di posizionarsi nel Golfo Persico per i prossimi sei mesi.
Israele, da parte sua, minaccia da tempo di colpire militarmente le installazioni nucleari iraniane, se il governo di Teheran non accetterà di sospendere senza condizioni il suo programma di arricchimento dell’uranio. Nell’autunno scorso i sei paesi negoziatori sembravano aver trovato un accordo per l’invio dell’uranio iraniano in Francia o in Russia per essere poi restituito sotto forma di combustibile per un reattore da impiegare a scopi medici. L’intesa però è tuttora bloccata a causa del caos politico in Iran e dei continui disaccordi sui dettagli logistici della sua implementazione.
L’omicidio di Ali Mohammadi e le continue tensioni alimentate da Washington e Tel Aviv non fanno altro che complicare ulteriormente le trattative tra l’Occidente e l’Iran sull’annosa questione del nucleare. La risoluzione pacifica della controversia non appare d’altronde la preoccupazione principale di USA e Israele, i quali da un inasprirsi del conflitto potrebbero piuttosto raggiungere i loro reali obiettivi nei confronti dell’Iran: un attacco militare, per quanto gravi risulterebbero le conseguenze nell’intera area mediorientale, e il cambio di regime a Teheran.
Anche sul fronte diplomatico, insomma, il primo anno della presidenza Obama si sta configurando come un pressoché totale voltafaccia rispetto agli impegni presi in campagna elettorale. La promessa ricerca di un confronto pacifico senza condizioni preliminari con l’Iran, sembra aver lasciato spazio ormai ad una escalation di minacce e operazioni destabilizzanti che ricordano tristemente le manovre che condussero all’invasione irachena del 2003, orchestrata ad arte dall’amministrazione Bush.