di Michele Paris

In vista delle votazioni in alcuni stati americani per la carica di governatore e per le elezioni di medio termine al Congresso del prossimo anno, l’amministrazione Obama sempre più frequentemente sta prendendo una netta posizione in appoggio a questo o a quel candidato. Mentre molti esponenti democratici hanno criticato l’atteggiamento di un presidente che era giunto alla Casa Bianca con la promessa di superare una volta per tutte le manovre di parte, altri appoggiano fermamente una strategia tesa a convogliare le risorse economiche verso quei candidati con le maggiori possibilità di garantire il consolidamento del potere al partito di governo.

L’interventismo presidenziale si è rivelato in tutta la sua chiarezza solo poche settimane fa, quando il governatore dello stato di New York - David Paterson - è stato invitato a farsi da parte e a rinunciare a correre per la rielezione nell’autunno del 2010. Subentrato al dimissionario Eliot Spitzer lo scorso anno dopo che quest’ultimo era stato coinvolto in un giro di prostituzione, uno degli unici due governatori di colore in carica degli USA (l’altro è il democratico Deval Patrick, del Massachusetts) è da allora precipitato rapidamente nell’indice di gradimento tra gli elettori del proprio stato.

Dal momento che l’ancora molto popolare ex sindaco di New York Rudolph Giuliani pare essere pronto ad annunciare la sua candidatura alla carica di governatore, la presenza di Paterson rappresenterebbe per i democratici una sconfitta quasi certa. L’impopolarità del governatore in carica minaccerebbe inoltre di ripercuotersi in maniera negativa sugli altri candidati di New York, quelli cioè in corsa per un posto al Congresso, i quali hanno infatti chiesto a Obama di intervenire per convincere Paterson a rinunciare alla sua candidatura. L’abbandono di Paterson, il quale ha però finora promesso di non voler abbandonare la corsa, lascerebbe allora strada al ben più popolare Andrew Cuomo, attuale procuratore generale dello stato e figlio dell’ex governatore Mario Cuomo.

I collaboratori del presidente Obama hanno d’altra parte messo in campo da tempo precise strategie per promuovere e sostenere in tutti i modi possibili i candidati democratici più affidabili nella tornata elettorale del 2 novembre 2010 che stabilirà il rinnovo di tutta la Camera dei Rappresentanti, di 36 seggi al Senato ed eleggerà 38 governatori. Un obiettivo particolarmente importante, soprattutto alla luce del prossimo processo di ridefinizione dei distretti elettorali che assegnerà un ruolo di spicco proprio ai governatori dei 50 stati americani.

La strategia interventista della Casa Bianca è dovuta in gran parte al ruolo svolto in questo contesto dal capo di gabinetto, Rahm Emanuel, artefice principale dei trionfi democratici nelle elezioni di medio termine per il Congresso del 2006 nel ruolo di presidente del Comitato Democratico per la Campagna Elettorale. L’ex parlamentare dell’Illinois è infatti tuttora molto attivo nel modellare il quadro politico democratico, mantenendo rapporti regolari con il suo successore al coordinamento delle strategie elettorali del partito, il deputato Chris Van Hollen del Maryland.

Questa tattica così aggressiva da parte dell’amministrazione in carica, che ricorda per certi versi quella adottata dal principale consigliere politico di George W. Bush, Karl Rove, si è vista chiaramente almeno in altre due competizioni elettorali molto accese. In Pennsylvania, la Casa Bianca sta fornendo tutto il suo appoggio al senatore Arlen Specter, veterano repubblicano passato ai democratici qualche mese fa, una volta assodata l’impossibilità di venire rieletto dal suo vecchio partito. I dirigenti Democratici avevano infatti promesso a Specter il sostegno del presidente per convincerlo a saltare il fossato. Le previsioni per una facile riconquista del suo seggio al Senato appaiono tuttavia ancora complicate, dopo che il deputato Joe Sestak ha ignorato l’appello di Obama per rinunciare a correre nelle primarie.

I tentativi dei democratici di risolvere senza conflitti interni una competizione elettorale caratterizzata dall’appoggio presidenziale rischiano di naufragare poi anche in Colorado. Qui la nomina dell’ormai ex senatore Ken Salazar a Ministro degli Interni aveva spinto il governatore democratico Bill Ritter a nominare il semi-sconosciuto Michael Bennet come suo sostituto. Da Washington ci si era affrettati ad esprimere il proprio appoggio al neo-senatore che ha dimostrato da subito formidabili qualità nella raccolta di denaro tra gli elettori. Il sostegno della Casa Bianca a Bennet prevedeva una sua corsa in discesa verso l’elezione di novembre, fino a che il popolare ex parlamentare locale Andrew Romanoff non ha deciso di cimentarsi in una sfida nelle primarie che rischiano di divedere il campo democratico, favorendo i repubblicani.

Non sono però solo le vicende legate alle prossime elezioni ad aver visto l’amministrazione Obama intervenire nelle vicende locali del Partito Democratico. Obama e il suo entourage recentemente hanno infatti operato notevoli pressioni sui parlamentari locali del Massachusetts per approvare una risoluzione voluta dal defunto Ted Kennedy che ha dato facoltà al governatore di nominare immediatamente il suo successore al Senato degli Stati Uniti senza attendere l’elezione suppletiva di gennaio.

Dalla Casa Bianca, nonostante tutto, si fatica ad ammettere l’esistenza di una strategia generale. Il coinvolgimento del presidente deriverebbe piuttosto da quelle competizioni nelle quali i candidati democratici si trovano maggiormente in pericolo, come nel caso dello stato di New York, oppure dalla possibilità di sostenerne altri che fornirebbero garanzie, una volta eletti, di appoggiare incondizionatamente l’agenda di Obama.

Il bene del partito tuttavia non sempre sembra essere al centro delle strategie del presidente. Come in New Jersey, uno degli unici due stati (assieme alla Virginia) che eleggerà il nuovo governatore quest’anno, dove il democratico in carica Jon Corzine, nonostante risulti estremamente impopolare persino tra gli elettori del proprio partito e in netto svantaggio rispetto al candidato repubblicano, ha ottenuto il pieno sostegno della Casa Bianca.

di Rosa Ana De Santis

Si tiene in questi giorni, a Città del Capo, il Congresso mondiale di ginecologia e ostetricia. I numeri che riguardano la pelle delle donne, le percentuali degli aborti, soprattutto delle giovanissime, disegnano i contorni di una condizione di genere sotto assedio. Un quarto delle donne che abortiscono sono adolescenti, la clandestinità dei rimedi cui si ricorre è la risposta immediata di vite congelate in una miseria totale e atavica. Tredicimila esperti si confrontano su questo scenario. Educazione nelle scuole è la parola d’ordine e fa buona pubblicità sulla stampa occidentale, non c’è dubbio. Informazione e contraccezione sono gli ingredienti fondamentali. Le parole degli esperti chiamano in causa  il compito delle scuole pubbliche e quello delle istituzioni.

Idee sane e proiettate sul successo nel lungo periodo, con una difficoltà procedurale e contingente schiacciante. La condizione della maternità e quindi anche della non maternità non è legata unicamente alla condizione della donna, alla sottomissione sociale e privata, alla violenza, ma a un contesto di povertà strutturale da cui non sarebbe possibile né onesto separare la singola situazione, il singolo problema a meno che se non si volesse correre il rischio di approntare l’ennesima teoria corretta e piena di fascino, scollegata da ogni ragionevole contestualizzazione. Preservativi, farmaci, terapie anti HIV hanno un costo proibitivo per quasi tutti. La scuola per prima ce l’ha.

E’ la misera a interdire l’accesso alla cultura, all’informazione e quindi alla consapevolezza di sé e alla tutela della propria salute. E’ proprio la canadese Dorothy Shaw a ricordare che il problema culturale non può essere mai disgiunto dalla discriminazione economica. Le parole degli esperti e le buone intenzioni non possono prescindervi e possono semmai diventare una pressione in più per i governi chiamati in causa. Una soluzione alla Lula, con i preservativi quasi gratis, può sembrare una provocazione, non più di un pronto soccorso per l’emergenza, ma comunque un valido richiamo al cuore del problema. La sensazione è che le buone parole sull’educazione, senza il monito all’economia, siano l’ennesima esibizione dell’ autorefernzialità occidentale.

Non c’è dubbio che l’utilizzo del preservativo sia difficile da integrare con un paradigma maschilista della famiglia e delle relazioni uomo-donna, lo è persino quando c’è un rischio di contagio di malattie a trasmissione sessuale, figurarsi nella scelta e nella programmazione delle gravidanze: una chimera culturale. Ma non è difficile che una donna veda i propri figli senza scarpe né vestiti, spesso senza cibo e senza scuola e non riesca a vedere la priorità della contraccezione. E’ la povertà economica a impedirle questa forma di riscatto, ogni forma d’informazione ed educazione. Inutile nascondersi tra le parole: una ragazza in una città che la affama preferirà morire di HIV più in là, che di fame subito. Questo è quello che rispondono molte alle domande dei volontari.

Il binomio efficace, secondo il Presidente della Società italiana di ginecologia ed ostetricia (SIGO), Giorgio Vittori, è quello della pillola e del preservativo, per agire sia sulla questione della gravidanze non programmate - e quindi sui numeri degli aborti - sia per abbattere le infezioni sessuali. Bisognerebbe ricordare però, che nei territori più tartassati dell’Africa, sono i missionari cattolici ad essere presenti e ad insegnare approcci molto diversi sui costumi sessuali e sulle questioni della vita familiare. Magari non del tutto in linea con quelle ortodosse di Roma, ma certamente non così tanto eretiche. La SIGO, rientrata in patria potrebbe pubblicamente sottoporre la sua relazione tecnica al Santo Padre. E’ chiaro però che debbano essere gli stati e non le missioni o le ONG a farsi carico unicamente di certe campagne. Solo in questo modo si esce dall’alibi della solidarietà.

Ma si rimane come immobili di fronte alla normalizzazione di un’Africa in morte. L’afasia di un assurdo concettuale e morale. I governi per primi. L’accettazione pacata di una miseria così disperante è insopportabile. Eppure in Africa è normale ammalarsi, non potersi curare, non avere i farmaci, non poter difendere la vita dei giovani e delle bambine. Questa gente è semplicemente nata nella parte sbagliata di mondo. Forse destinata a soccombere per tenere noi belli grassi e tutti in piedi. In Africa, ignorando l’Africa, a volte si lavora a fiumi di soldi e lauti rimborsi per la cultura e per la bandiera dell’educazione; siamo abili a fare business in tutto, anche della coscienza e del male assoluto.

Forse la verità è che l’Africa toglie il fiato con il suo scandalo e con le sue contraddizioni e che di buone teorie siamo ormai in overdose. Quelle donne e le loro storie ci obbligano, prima di tutto, a ricordarci quanto siamo lontani dall’economia dell’inferno.

 

di Eugenio Roscini Vitali

Erano centinaia le persone che lo scorso venerdì 2 ottobre affollavano la moschea di Conakry. Erano accorse per identificare i corpi delle persone rimaste uccise durante gli scontri avvenuti in occasione della manifestazione organizzata il lunedì precedente dagli oppositori del regime del Capitano Moussa Dadis Camara, contrari alla candidatura del capo della giunta militare all'elezione presidenziale di gennaio. Una protesta repressa nel sangue, una carneficina finita con decine di cadaveri all'obitorio dell’ospedale universitario Donka, tutti segnati da ferite da taglio o da arma da fuoco riportate durante gli scontri con le forze di sicurezza: 54 morti secondo le fonti ufficiali; 157 e più di 1.200 feriti per le organizzazioni impegnate nella battaglia per i diritti umani.

Un passaggio alla democrazia invocato da migliaia di persone riunitesi intorno allo stadio “28 settembre”, lo stesso intitolato al giorno del referendum con il quale il popolo di Guinea mise fine al periodo coloniale francese, lo stesso impianto in cui si svolsero i funerali di due dei più longevi dittatori africani, i predecessori di Camara, gli ex presidenti Ahmed Sékou Touré e Lansana Conté. Una mattanza, una vera caccia all’uomo che secondo i racconti di chi è scampato si è estesa alle strade intorno allo stadio, alle case dove i partecipanti alla manifestazione avevano trovato rifugio, che si è trasformata in barbarie, in aggressioni, pestaggi e violenze sessuali.

Una repressione feroce, avvenuta all'interno dello stadio, contro uomini e donne arrivati da ogni angolo del Paese, contro una folla che non si era fatta intimidire dall’assedio organizzato dall’esercito ma che si dovuta piegare di fronte ai machete, ai bastoni e ai fucili dei militari che sparavano a vista. E’ questa la Guinea del Capitano Camara, l’uomo che lo scorso anno ha preso il potere con colpo di stato e che a distanza di un anno, dopo aver insanguinato le strade, è riapparso in televisione cercando di negare l’evidenza dei fatti, minimizzando gli effetti di un’azione efferata e scaricando le responsabilità di quanto accaduto su qualche militare che avrebbe perso la testa: “Qualcuno ha esagerato. Hanno perso il controllo, io stesso non sono in grado di controllare tutti i soldati”. Parole che lasciano perplessi, soprattutto perché il Capitano ha ricordato che le autorità non hanno nessuna intenzione di tollerare altre manifestazioni e che ogni forma di assembramento sarebbe stata punita: “Ho dato ordine di intervenire con forza e durezza”.

Moussa Dadis Camara prende il potere il 23 dicembre 2008, sei ore dopo la morte del presidente Lansana Conté, l’uomo che per 24 anni ha guidato il Paese con il pugno di ferro; il golpe, portato a termine grazie alla complicità di un gruppo di giovani ufficiali, viene annunciato alla radio dallo stesso Camara. Sciolte le istituzioni repubblicane e sollevato il presidente dell'Assemblea nazionale, che entro 60 giorni avrebbe dovuto indire nuove elezioni, Camara sospende la Costituzione, si auto-proclama presidente ad interim ed istituisce una giunta composta da 26 militari e 6 civili, il Consiglio Nazionale della Democrazia e dello Sviluppo della Guinea. Primo ministro viene nominato Kabiné Komara, ex direttore dell’African Export Import Bank, un istituto internazionale di credito con sede al Cairo.

Alle proteste della comunità internazionale, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che promette severe sanzioni, Camara risponde affermando che la situazione è transitoria e che la giunta militare non vuole restare al potere, piuttosto è un organo di garanzia che ha il compito di sovrintendere al ritorno della democrazia, che dovrà avvenire attraverso libere elezioni che dovranno svolgersi entro il gennaio 2010. Parole alle quali il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana non crede e, ad una settimana dal golpe, sospende il Paese da ogni attività dell’organismo, almeno “fino al ritorno all’ordine costituzionale”.

Mentre i principali movimenti di opposizione chiedono di andare alle urne entro la fine del 2009, il capitano parla subito di apertura nei confronti della società civile, dei gruppi religiosi e dei partiti politici. Una mossa che a pochi giorni dal golpe gli permette di fare breccia su quei guineani che, stanchi di decenni di corruzione e della cronica crisi economica in cui versa il Paese, sperano in una vera svolta. Con il referendum del 28 settembre 1958, la Guinea  aveva optando per la piena indipendenza, rifiutando l'ingresso nella Comunità francese; una volontà che Parigi aveva accettato, ma che aveva fatto pagare ai guineani abbandonando il Paese al suo destino e chiudendo l’erogazione degli aiuti previsti per le ex colonie. A livello internazionale Camara trova comunque l’appoggio di Francia e Belgio, le due grandi ex potenze coloniali che nell’Africa francofona difendono gli interessi occidentali.

Finito il regime comunista dell’ispiratore della scelta indipendentista, il presidente Sekou Toure, l’occidente torna in Guinea. Dotato d’immense risorse minerarie, il Paese rappresenta un affare enorme: tra i principali produttori mondiali di bauxite, dispone di miniere di oro, diamanti, uranio e di giacimenti di idrocarburi, individuati ma non ancora sfruttati; ricchezze che con il generale Lansana Contè, non si trasformano in benessere permanente, almeno per i guineani che continuano a patire la mancanza di infrastrutture e di un sano tessuto economico. Aumentano piuttosto i traffici illeciti e la presenza di “predatori”: armi, droga, traffico di clandestini e smaltimenti di scorie tossiche e radioattive provenienti dal Nord del Mondo, un cancro che trasforma Conakry e i mari della Guinea in una vera bomba chimica.

Una mancanza cronica di abitudine alla democrazia, ulteriormente aggravato dal golpe del Capitano Moussa Dadis Camara, il “paladino” della lotta alla corruzione e al narcotraffico che oggi è a capo dello stesso esercito che, all’inizio del 2007, represse nel sangue una delle più grandi proteste popolari mai registrate in Guinea. E’ lo stesso esercito che si è macchiato dei crimini e del massacro del 28 settembre. La continuità sguazza nel sangue.


 



 

di mazzetta

C'è un dittatura nel cuore dell'Asia dove nessuno ha voluto portare la democrazia. A dire il vero ce n'è più d'una, ma questa è la storia dell'Uzbekistan, dove il dittatore Karimov ha appena mandato a raccogliere il cotone i due milioni di uzbeki tra i 6 e i 15 anni che invece dovrebbero essere a scuola. Visto che rimarrebbero a presidiare aule vuote, Karimov manda a raccogliere il cotone anche i docenti, i bidelli e quanti più impiegati pubblici gli è possibile. Il cotone è una delle produzioni più importanti dell'Uzbekistan, realizzata grazie a colture intensive importate ai tempi dell'Unione Sovietica.

La furbata di coltivare una pianta che ha bisogno di molta acqua in un paese semi-desertico ha avuto i suoi costi, seccando letteralmente il Lago D'Aral e impoverendo terreni sempre più salati e sempre più inquinati da fertilizzanti e pesticidi. Al dittatore e alla sua famiglia, che detiene il monopolio del cotone, sembra importare poco: il ricorso alla manodopera forzata e gratuita garantisce comunque margini interessanti. Da parecchi anni l'ONU e alcune associazioni anglosassoni protestano per il lavoro minorile, che è poi schiavitù non essendo retribuito; la diplomazia uzbeka risponde che farà e provvederà, ma poi non succede niente.

Molti grandi marchi statunitensi hanno deciso di non comprare più cotone uzbeko e a loro si è unita anche qualche azienda italiana. A livello ufficiale la UE mantiene buoni rapporti con l'Uzbekistan, anche se di cotone ne importa pochino. Molto più interessante sembra il gas naturale, di cui il paese è ricco. Anche quello ovviamente è cosa di Karimov, ma le democrazie occidentali non sembrano preoccuparsi. Il dittatore è in buoni rapporti con il vicino russo e anche con gli americani, ai quali ha prima concesso l'uso di una base molto utile alla guerra in Afghanistan, poi li ha cacciati per poi, successivamente, siglare un nuovo accordo concedendo nuovamente la base.

Gli americani avevano avuto la cattiva idea di criticare una strage compiuta dal regime nella valle di Fergana. L'astuto Karimov aveva lamentato un attacco di “terroristi islamici”, ma si trattava in realtà di una rivolta di commercianti a seguito di abusi e taglieggiamenti culminati con un'ondata di arresti. Alla protesta, Karimov reagì con tale violenza che parecchie migliaia di uzbeki corsero alla frontiera e scapparono dal paese così com'erano, profughi. Una volta che la dinamica risultò evidente, mezzo mondo protestò e Karimov reagì ancora peggio.

Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, nessuno fece caso al fatto che cadde in testa anche agli uzbeki e ai loro vicini degli “Stan” sovietici. Karimov era allora il governatore della repubblica uzbeka e oggi ne è il dittatore. Sono passati vent'anni durante i quali lui e la sua famiglia hanno depredato tutto il depredabile e preso il controllo di tutti gli asset strategici del paese, dall'energia alle telecomunicazioni fino al cotone. Dal 1989 non ci sono più state elezioni, ma solo referendum per prorogare la carica di Karimov; non esistono partiti d'opposizione e il regime perseguita chiunque professi qualsiasi fede religiosa, dagli evangelici agli ebrei, fino ai musulmani e ai cristiani. Chi professa una fede si vede di norma negato il permesso di viaggiare all'estero e subisce altre angherie. Gli uzbeki di origine russa e gli ebrei in particolare hanno da tempo lasciato il paese in massa, colpiti prima dalle necessità economiche che dai morsi del regime.

Un vero e proprio regime di terrore, tanto che le proteste sono rarissime da parte di una popolazione impoverita dai furti della dittatura e intimorita dalle crudeli reazioni dell'apparato poliziesco. Innumerevoli sono i rapporti che parlano di torture e persino di una predilezione di Karimov per il bollire vivi avversari e nemici. La libertà di stampa non esiste e c'è anche un giornalista che si sta facendo 10 anni di galera per un articolo troppo “ecologista”; niente di strano, di solito basta molto meno.

La spietata dittatura di Karimov e quelle dei suoi colleghi confinanti non suscitano il minimo interesse in Europa, non si ricordano tonanti prese di posizione europee contro le elezioni-farsa in quei paesi, ma nemmeno contro scandali come questo degli scolari schiavizzati per raccogliere il cotone del “presidente”. Probabilmente c'entrano i grandi giacimenti di gas naturale di queste zone dell'Asia Centrale, che fanno gola a molti, ENI in prima fila.

Probabilmente, se in Italia interrogassero i parlamentari sull'Uzbekistan, finirebbe come per il Darfur, che venne scambiato con il “fast-food”. All'indifferenza della politica si contrappone invece l'attività delle imprese: é un fatto che l'interscambio commerciale con Karimov e suoi inguardabili colleghi sia in crescita costante da anni.

di Eugenio Roscini Vitali

Capoluogo del distretto occidentale di Uasin Gishu, nella provincia di Rift Valley, Eldoret è famosa per aver dato i natali al capostipite dei fondisti kenioti, Kipchoge Keino, e non solo. Da qualche giorno, infatti, la città è tornata alla ribalta per una ragione sicuramente meno nobile: sembra che le autorità di Nairobi abbiano annunciato la chiusura del locale campo profughi, un struttura che ospita circa 2.200 rifugiati interni, civili di etnia Kikuyu scampati alle violenze etniche post elettorali che tra il dicembre del 2007 e la primavera del 2008 sconvolsero la regione. La paura è che le zone di provenienza non siano ancora del tutto sicure e per questo molti profughi non sarebbero disposti a tornare a casa; per facilitare l’operazione di sgombero il governo avrebbe comunque offerto ad ogni famiglia la cifra di 35 mila scellini (490 dollari) e il trasporto gratuito fino alle comunità di appartenenza.

Un problema di difficile soluzione che da una parte vede gente disperata alla quale viene promesso un risarcimento insufficiente a costruire una qualsiasi alternativa di vita, dall’altra la polizia che potrebbe ricorrere all’uso di squadre speciali per lo sgombero forzato della tendopoli. Le tensioni quindi non mancano e nel campo, gia teatro di diversi scontri, i profughi hanno una sola grande preoccupazione: non sanno dove andare.

Secondo quanto dichiarato dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), degli oltre 350 mila profughi interni transitati nei centri di accoglienza, quelli che già tornati a casa sono 347.500; il numero dei civili ancora presenti nelle tendopoli è ufficialmente di 7.200 ospiti. Il governo ha già deciso di chiudere entro la prima metà di ottobre tutti e 43 i campi che sono stati aperti in seguito all’emergenza scoppiata tra il 2007 e il 2008, compreso il centro di Eldoret, che oggi rappresenta la struttura più grande tra quelle riservate ai rifugiati interni.

L’allarme non è certo da sottovalutare, soprattutto se si pensa alle difficoltà alle quali andranno incontro le famiglie vittime di un conflitto interno di inaudita violenza e che, a tutt’oggi, possono solo contare sull’aiuto delle Nazioni Unite, della Croce Rossa Keniana e delle agenzie umanitarie non governative che operano in Africa orientale.

La lotta per la sopravvivenza attraversa tutto il Paese e l’emergenza è ormai totale. La condizione più tragica riguarda sicuramente i quasi 300 mila rifugiati somali che vivono nei tre campi profughi di Dadaab, scappati dai combattimenti e agli scontri armati, dagli stupri e dai saccheggi, da una situazione che rende impossibile qualsiasi intervento sanitario e che trasforma un popolo in un esercito di senza speranza, gente alla quale è stato tolto qualsiasi diritto. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UHNRC), da gennaio ad oggi sono oltre 50 mila i somali che hanno attraversato il confine per raggiungere le tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley; una fuga di massa che ha generato un flusso pari a 6.400 unità al mese e un sovraffollamento che ha costretto le autorità a trasferire 12 mila profughi da Dadaab al campo di Kakuma, a pochi chilometri dal confine sudanese, dove peraltro erano già presenti 45.017 rifugiati.

Secondo i dati relativi al 31 agosto scorso, Ifo, Hagadera e Dagahaley ospitano 288.079 profughi, il 23% in più rispetto a gennaio 2009 e il triplo del numero massimo per il quale è predisposto. La gestione è affidata a Care International, l’organizzazione umanitaria statunitense che opera in Kenya dal 1968 e dal 1991 nei campi profughi di Dadaab. Dopo quella di Afgooye, 30 chilometri ad ovest di Mogadiscio, una striscia di 15 chilometri di terra dove sono ospitate circa 490 mila persone, la tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley rappresentano una delle più grandi concentrazioni di rifugiati al mondo. E’ una tragedia umanitaria che le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative di tutto il mondo definiscono di proporzioni impensabili, composta per il 97% da somali e per il resto da sudanesi, ugandesi e congolesi.

Una situazione tragica che in alcuni casi diventa umiliante, dove innumerevoli persone sono costrette a vivere senza un accesso regolare ai servizi igienici, all’acqua, al cibo, alle strutture sanitarie, minacciate all’interno dei campi da continue epidemie di colera, malaria, TBC e dissenteria, dall’aumento di casi di HIV/AIDS, polio e morbillo, senza alcuna garanzia sulla sicurezza, vittime di una violenza diffusa (soprattutto sevizie e stupri) che negli ultimi mesi ha superato una crescita del 30%.

A due anni di distanza, il Kenya deve ancora interrogarsi sulle cause che provocarono gli scontri scoppiati all’indomani delle elezioni presidenziali del dicembre 2007, la peggiore ondata di violenza della storia post coloniale: almeno 1200 morti, migliaia di feriti e circa 2 milioni di civili costretti a fuggire e a diventare profughi nel loro stesso Paese. Secondo lo studio intitolato “Le cause profonde e le implicazioni della violenza post elettorale del 2007”, commissionato dal gruppo interconfessionale Inter-Religious Forum (IRF) alla Media Focus on Africa, organizzazione no-profit che opera nel settore della comunicazione per lo sviluppo, le ragioni di questa tragedia vanno ricercate nel decadimento morale e sociale di una nazione esposta a fattori che ancora oggi minacciano la sua stessa esistenza.

Corruzione, cattiva gestione della cosa pubblica, negazione di una qualsiasi forma di giustizia sociale, iniqua distribuzione delle terre, marginalizzazione di alcuni gruppi dal contesto politico ed economico e mancanza di riforme istituzionali: sono questi i motivi che, insieme ad un sistema politico secondo il quale “il vincitore prende tutto”, hanno aumento in modo esponenziale le tensioni etniche e sociali che hanno trascinato il Kenya sull’orlo della guerra civile.

E’ in questo contesto che i rifugiati di Eldoret, Kakuma, Ifo, Hagadera, Dagahaley e di tutti gli altri campi profughi del Kenya devono sopravvivere, in una lotta per il potere politico ed economico che risale ai tempi dei presidente Kenyatta, uno scontro che ha attecchito le sue radici durante il regime di Daniel arap Moi ed è esploso con Mwai Kibaki, che ha una sua logica nello scontro etnico tra Kikuyu e Luo ma che coinvolge gli interessi di Washington e Londra, che in Kenya ancora molti interessi. Un Paese instabile, oppresso dalla violenza, assediato dal quinto anno consecutivo di siccità e devastato dalle inondazioni, dove c’è chi sopravvive con due litri di acqua al giorno, meno acqua di quanto noi consumiamo scaricando lo sciacquone del gabinetto.

Un Paese asfissiato dalla povertà, dai prezzi del cibo (superiori del 180% rispetto alla media africana), dei carburanti e dei beni essenziali, dove 1.340.000 persone ricevono forme di assistenza alimentare di prima necessità e dove 3.800.000 hanno bisogno di aiuti di emergenza. Dove quindi essere rifugiati diventa un problema tra i problemi.


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