di Michele Paris

A poco più di un anno dal trionfo elettorale, l’entusiasmo degli elettori che aveva proiettato Barack Obama alla Casa Bianca sembra essere in parte scemato. Approdato alla guida di un paese affascinato dalla sua promessa di cambiamento, dopo i due mandati di George W. Bush ed altrettante guerre dispendiose, il primo presidente nero della storia americana ha visto spegnersi a poco a poco lo slancio delle molte iniziative di legge delineate durante la campagna elettorale dello scorso anno, nonostante una schiacciante maggioranza democratica al Congresso. Oltre alle evidenti incertezze di Obama, la paralisi di numerose iniziative che occupano un posto di primo piano nell’agenda presidenziale, o la loro approvazione in una versione decisamente moderata, sono anche la conseguenza di una procedura parlamentare che si risolve spesso in un formidabile strumento di potere in mano alla minoranza.

Il cosiddetto “filibuster” è un procedimento previsto dal regolamento del Senato degli Stati Uniti - non contemplato dalla Costituzione - che sempre più viene visto con preoccupazione dai leader del partito di maggioranza. Questo dispositivo ratifica l’ostruzionismo della minoranza prolungando indefinitamente il dibattito parlamentare e divenne famoso con il film di Frank Capra del 1939, “Mr. Smith va a Washington”, nel quale un senatore idealista interpretato da James Stewart sfidava gli interessi dei poteri forti bloccando i lavori della Camera alta del Congresso. Impiegato da qualche anno con uno spirito ben diverso da quello originario, il “filibuster” ha assunto ormai un carattere profondamente antidemocratico che compromette in maniera palese il diritto di legiferare della maggioranza.

Rimasto una pura opzione teorica fino agli anni Trenta del XIX secolo, il “filibuster” permette di far proseguire a oltranza il dibattito in aula quando si vuole evitare un voto finale su una determinata legge. Inizialmente, i senatori che si opponevano all’avanzamento di un provvedimento erano tenuti a non abbandonare l’aula e a parlare per un periodo di tempo indefinito. Nel momento in cui si esaurivano gli interventi dei “congressmen” di minoranza, il “filibuster” decadeva automaticamente e si dava luogo alle procedure di voto. In questo quadro normativo, non erano rari i discorsi interminabili di senatori che resistevano per ore parlando degli argomenti più disparati per allungare il dibattito. A tutt’oggi, il primato per il più lungo “filibuster” appartiene al senatore democratico e poi repubblicano Strom Thurmond, il quale per cercare di bloccare la legge sui diritti civili del 1957 parlò per ben 24 ore e 18 minuti.

Per impedire questa pratica è necessario che i tre quinti dei senatori (60 su 100) votino una mozione che ponga fine al dibattito (“cloture”). Sessanta è precisamente il numero di senatori su cui il Partito Democratico può attualmente contare (58 democratici più 2 indipendenti), un margine che teoricamente metterebbe al riparo dall’ostruzionismo repubblicano. Le profonde divisioni tra l’ala più moderata e quella progressista, tuttavia, stanno impedendo l’avanzamento spedito di progetti di legge importanti, già approvati dalla Camera dei Rappresentanti (dove il “filibuster” era previsto fino al 1842), come la riforma sanitaria e la riduzione delle emissioni in atmosfera. Anche il dissenso di un singolo senatore democratico, di fronte all’opposizione compatta del Partito Repubblicano, può così impedire il passaggio di una legge, costringendo spesso i leader di maggioranza a estenuanti negoziazioni per assicurarsi il voto compatto dei propri senatori.

La degenerazione e l’abuso del “filibuster” nel Senato degli Stati Uniti é chiaramente visibile nei numeri. Se nella legislatura del 1967-1968 fu invocato in sole sei occasioni, dieci anni dopo si sarebbe saliti a 13, per giungere a 43 nel 1987-1988, 53 nel 1997-1998 e addirittura 112 tra il 2007 e il 2008. Un’escalation che sta producendo effetti dirompenti sull’attività legislativa, causando spesso una vera e propria paralisi. La situazione è stata resa poi ancora più drammatica dopo una variazione apportata al regolamento del Senato nel 1975. In quell’occasione il “filibuster” venne reso “invisibile”, rendendo sufficiente cioè la sola minaccia di esso per bloccare il voto su una determinata legge.

Oggi basta infatti la prospettiva di 41 voti per far scattare il “filibuster, mentre non è più necessaria la presenza in aula a oltranza dei senatori ostruzionisti. Pertanto, se il leader della maggioranza al Senato non è in grado di mettere assieme i 60 voti necessari per far avanzare un determinato procedimento, quest’ultimo rimane bloccato in attesa di modifiche e compromessi che verosimilmente possano convincere i parlamentari recalcitranti. Questa è la sorte che sta toccando, tra gli altri, ai progetti di legge sul cambiamento climatico - approvato dalla Camera la scorsa estate - e per la semplificazione del processo di sindacalizzazione nelle fabbriche americane (EFCA) licenziato dalla Camera bassa nel marzo del 2007.

Gli unici provvedimenti che sfuggono al “filibuster” sono quelli relativi alle questioni di bilancio. In questo caso si fa ricorso ad un processo legislativo definito “reconciliation”, grazie al quale vengono drasticamente limitati sia la durata del dibattito sia eventuali emendamenti. Tali leggi possono essere così approvate con una maggioranza di soli 51 voti a favore.

Mentre la soppressione del “filibuster” richiederebbe un voto sulla modifica delle norme del Senato, da approvarsi con i due terzi dei senatori presenti in aula, esiste però fin da ora una soluzione per vincere l’ostruzionismo dell’opposizione, sebbene inutilizzata da tempo. Come ha suggerito recentemente in un suo editoriale Jerome Karabel, docente di sociologia a Berkeley, per superare il muro repubblicano sulla questione della riforma sanitaria, il numero uno dei democratici al Senato, Harry Reid, non dovrebbe far altro che ripristinare la procedura originaria del “filibuster”.

Ogni senatore contrario alla riforma dovrebbe essere perciò chiamato a esporre i propri argomenti in aula fino all’esaurimento del dibattito (e anche proprio), per quanto lungo esso possa profilarsi. Il “filibuster”, infatti, può essere superato anche lasciando in agenda la stessa legge per un periodo indefinito, senza aggiungere altre questioni all’ordine del giorno del Senato. Per evitare scontri troppo aspri tra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno dello stesso partito di maggioranza, bloccare una legge opposta da almeno 41 senatori per passare ad altre questioni, invece, è diventata ormai pratica comune.

La sorte di un dibattito pubblico di questo genere, teoricamente ad oltranza, non sarebbe in realtà già scritta. Nel caso della riforma sanitaria, esso servirebbe quantomeno a portare alla luce del sole le divergenze presenti nei due schieramenti e, soprattutto, consentirebbe di spiegare agli elettori le ragioni di quei senatori, repubblicani e democratici, che si oppongono all’allargamento della copertura sanitaria a decine di milioni di americani che tuttora ne sono sprovvisti. Uno scenario, tuttavia, molto improbabile, che nelle prossime settimane lascerà il posto piuttosto ad un dibattito tutto interno al Partito Democratico e che condurrà, nella migliore delle ipotesi, ad una riforma ben lontana dagli obiettivi di universalità e accessibilità che lo stesso Obama aveva promesso prima di dover fare i conti anche con le regole del Senato degli Stati Uniti d’America.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy