di Michele Paris

Quando la star di Hollywood Arnold Schwarzenegger venne eletto per la prima volta governatore della California nell’ottobre del 2003, uno dei punti principali del suo programma era la lotta ai grandi interessi che controllavano la politica della Stato. Lo stesso motivo sarebbe riapparso anche tre anni più tardi, durante la trionfale campagna elettorale che lo portò alla conquista di un secondo mandato dopo aver travolto il candidato democratico. La sua battaglia contro le influenze negative sul governo californiano, in linea di principio, appariva meritevole a molti. Salvo poi constatare che i poteri forti presi di mira dall’ex culturista austriaco, stregato dalla retorica nixoniana al suo arrivo negli USA, quarant’anni fa, coincidevano e continuano a coincidere quasi sempre con le organizzazioni sindacali del pubblico impiego.

Da qualche tempo, le casse dello Stato della California navigano in pessime acque. Dopo estenuanti negoziazioni tra i due rami del Parlamento statale (dominato dai democratici) e il governatore repubblicano, lo scorso anno si era giunti ad approvare un bilancio che aveva permesso di mantenere in vita alcuni servizi pubblici fondamentali a costo di pesanti sacrifici. Nonostante gli sforzi, però, lo Stato americano più popoloso deve tuttora fronteggiare un deficit di oltre 26 miliardi di dollari per l’anno 2009-2010. Da qui il nuovo assalto di Schwarzenegger ai “privilegi” di una classe media di dipendenti pubblici che ha conquistato protezioni e benefici, peraltro erosi negli ultimi anni, solo grazie a dure battaglie sindacali.

Quella che uno stratega democratico californiano ha definito come una sorta di “jihad” contro il lavoro organizzato, secondo il programma che il governatore presenterà al Congresso statale di Sacramento, dovrebbe comprendere, tra l’altro, la privatizzazione di una parte dell’affollato sistema penitenziario e qualche sforbiciata al numero dei dipendenti pubblici e ai loro salari. Tagli consistenti alle pensioni di questi ultimi e l’abolizione di alcune protezioni degli impiegati statali sono ugualmente nel mirino di Schwarzenegger per far quadrare i conti del bilancio.

Il passaggio ad una serie di nuove prigioni gestite dai privati, fa parte del piano presentato dal governatore repubblicano per rispondere all’ingiunzione della Corte Suprema della California, che ha imposto la riduzione dell’affollamento penitenziario, pena la messa in libertà di un certo numero di detenuti. Oltre alle implicazioni circa l’opportunità di delegare alla mano privata questo settore, l’iniziativa di Schwarzenegger è mirata ad un drastico ridimensionamento - in termini economici e di influenza politica - del potente sindacato delle guardie carcerarie.

Nella nuova finanziaria è prevista poi una drastica limitazione dei benefici maturati con l’anzianità degli insegnanti delle scuole pubbliche e la promozione delle cosiddette “charter schools”, scuole private finanziate con denaro pubblico, nelle quali è prevalente la presenza di dipendenti non sindacalizzati. Una strategia dettata dalla necessità di migliorare la qualità dell’insegnamento, secondo il governatore; una mossa ispirata dal desiderio di trasformare un settore pubblico fortemente sindacalizzato in un settore dove i sindacati sono praticamente assenti, secondo la California Federation of Teachers.

A fare le spese dei tagli promessi da Sacramento potrebbero esserci anche moltissimi malati cronici, anziani e disabili che il sistema californiano tradizionalmente assiste tramite un generoso programma pubblico. Anche in questo settore, gli operatori che potrebbero perdere il lavoro in seguito alla riduzione degli stanziamenti dedicati all’assistenza risultano pressoché interamente iscritti al sindacato. Trattativa con i sindacati che verrebbe poi esclusa da un altro progetto di Schwarzenegger: rendere permanente il taglio temporaneo del 5% ai salari dei dipendenti pubblici che era stato concordato l’anno scorso per fronteggiare il buco di bilancio.

Se la crociata dell’ex Terminator non è nuova, già ampiamente testata è anche la risposta delle organizzazioni sindacali californiane e dei democratici locali. Questi ultimi, se non altro per essere i principali beneficiari dei contributi alla politica dei sindacati, hanno già annunciato battaglia al Congresso statale, dove detengono la maggioranza. Gli stessi vertici delle associazioni di categoria si preparano a loro volta ad orchestrare una nuova campagna contro le iniziative di Schwarzenegger.

Nel recente passato, infatti, le spese dei sindacati per frustrare le iniziative del governatore sono state nell’ordine di centinaia di milioni di dollari. Come nel 2005, quando quest’ultimo indisse un referendum per fare approvare quattro misure che avrebbero penalizzato le pensioni dei dipendenti pubblici e la facoltà dei sindacati di raccogliere contributi a loro favore tra i propri iscritti. Oltre 100 milioni di dollari investiti in vista della consultazione popolare portarono alla fine alla sconfitta delle proposte di legge.

Il tono più moderato assunto recentemente da Schwarzenegger - il quale sta cercando di giustificare i tagli alla spesa pubblica e la privatizzazione di molti servizi con la necessità di aggiustare le casse dello Stato - non ha in ogni caso ammorbidito le opposizioni. Né, d’altra parte, va dimenticata l’influenza sulle sue azioni dei veri poteri forti californiani. Il ricorso a strutture penitenziarie private, ad esempio, sarebbe un generoso riconoscimento alla più importante compagnia che opera in questo settore, quella Corrections Corporation of America che ha versato 100 mila dollari alla campagna per un altro referendum in materia fiscale voluto dal governatore l’anno scorso e bocciato dagli elettori.

Come in molti altri casi nel settore privato, principalmente in quello automobilistico, anche nel pubblico molti stati americani continuano dunque a prendere di mira le conquiste dei lavoratori dipendenti e dei loro sindacati, spesso con il pretesto della crisi economica. Un’offensiva che appare, al contrario, tutta politica e guidata dai grandi interessi economico-finanziari che lo stesso Schwarzenegger aveva illuso di voler combattere all’inizio del suo primo mandato e che rischia di assestare nuovi e durissimi colpi a quella middle-class sulla quale si era fondato un sogno americano ormai sempre più vacillante.

di Eugenio Roscini Vitali

Raggiungendo la capacità di produrre uranio arricchito al 20%, l’Iran si avvicina pericolosamente al punto critico ritenuto fondamentale per diventare una potenza atomica. Indifferente alle reazioni della comunità internazionale, lunedì scorso il presidente iraniano ha annunciato che la “buona notizia” potrebbe essere ufficializzata in occasione dell’alba dei giorni dell’aurora (dah-e-fajr), il periodo di festeggiamenti previsto per l’anniversario della Rivoluzione Islamica, che va dal 1° all’11 Febbraio.

Durante la conferenza stampa tenutasi a Teheran, Ahmadinejad ha reso noto che l’Organizzazione iraniana per l’energia atomica (AEOI) sta per mettere in funzione nuove centrifughe per l’arricchimento del materiale fissile, presumibilmente centrifughe di tipo P2, capaci di fornire uranio arricchito ad un ritmo diverse volte superiore a quello finora raggiunto negli impianti  già installati a Natanz e Isfahan e con le quali sarà possibile portare la concentrazione di isopoti U235 dal 3,5 al 20%.

Parlando ai microfoni dell’agenzia di stampa Mehr news, Ahmadinejad non si è certo lasciato sfuggire l’occasione per riaffermare la posizione iraniana sul nucleare: «Oltre al popolo iraniano, anche tutte le nazioni libere del mondo saranno felici di questa splendida notizia, perché si tratta degli ultimi successi conseguiti dalla Repubblica Islamica nel campo della scienza e della tecnologia». Per Teheran, lo sviluppo di tecnologie nucleari per fini pacifici è un diritto al quale il Paese non può e non deve rinunciare e non accetta alcun genere di negoziati che possano limitare la sua azione.

Proprio per questo il presidente della Repubblica Islamica ha voluto precisare che l’Iran non ha alcuna intenzione di scambiare combustibile con l’Occidente, come proposto recentemente da Usa, Francia e Russia; né, tanto meno, accettare da altre nazioni le quantità di uranio necessarie ad alimentare il reattore costruito nei pressi della capitale per la produzione di isotopi radioattivi utilizzabili nella cura del cancro e per altri fini medici.

Secondo le autorità i criteri contenuti nel Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), al quale l’Iran ha aderito nel 1970, permettono all’Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) di fornire il combustibile nucleare ai paesi membri; in alternativa, Teheran ha già dichiarato la propria disponibilità  ad altre soluzioni, quali l’acquisto all’estero dell’uranio arricchito al 20% o lo scambio graduale del combustibile con le parti interessate ma all'interno del territorio nazionale.

In Israele all’accresciuta capacità iraniana di sviluppare un ordigno nucleare  ha destato preoccupazione, soprattutto in relazione alle attività pianificate dall’industria missilistica iraniana e alle notizie diffuse dalla stampa tedesca. Cercando di rimanere in tema di “buone notizie”, nei giorni scorsi il ministro delle telecomunicazioni, Reza Taqi Pour, ha infatti parlato di “sorprese spaziali”. Ad un anno dal lancio dell’Omid (Speranza), il 3 febbraio l’agenzia spaziale iraniana presenterà ufficialmente due nuovi satelliti: il Mesbah II (Lanterna II), che dovrebbe raggiunge un’orbita bassa per essere usato in  attività legate alle telecomunicazioni, e il Ya Mahdi (O Mahdi), realizzato con l’obbiettivo di riprodurre dallo spazio immagini dell’Iran, in pratica un satellite fotografico che se adeguatamente equipaggiato potrebbe essere utilizzato come satellite spia.

Secondo quanto pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz, il settimanale tedesco Der Spiegel sarebbe poi in possesso di un dossier dal quale risulterebbe che in Iran è attiva un’agenzia, direttamente collegata al ministero della Difesa, che starebbe sviluppando un programma di ricerca nucleare, parallelo a quello ufficialmente dichiarato, ma con scopi esclusivamente militari. Il documento, attualmente in mano all’intelligence israeliano, tedesco ed americano, dimostrerebbe con sufficiente certezza che l’obbiettivo del programma è munire la Repubblica Islamica di missili a testata nucleare, target che potrebbe essere raggiunto nell’arco di tre o quattro anni, più esattamente tra il 2012 e il 2014.

Gerusalemme, che contro il progetto atomico iraniano non ha ancora accantonato l’opzione di una risposta militare, è comunque legata alle decisioni di Washington che, al momento, ha scelto la via delle sanzioni e del dialogo. Nonostante la certezza che l’unica alternativa agli insuccessi della diplomazia sia la forza, per Israele imbarcarsi in una guerra contro l’Iran senza l’appoggio Usa potrebbe essere comunque una missione troppo grande. Questa la convinzione di parte dei media israeliani che, a difesa della loro tesi, sollevano due argomentazioni: la possibilità che gli Stati Uniti si oppongano all’opzione militare e che, qualunque sia l’esito dell’operazione, l’Iran possa essere in grado di rispondere ai bombardamenti, dando inizio ad una guerra che potrebbe durare anni.

Chi è invece a favore dell’opzione militare è convinto che Teheran non sarebbe in grado di reagire ad un attacco aereo; colpendo le installazioni nucleari e le basi missilistiche verrebbe inibita ogni possibilità di reazione e la Repubblica Islamica non sarebbe più una minaccia. E a chi obbietta che nell’arco di qualche anno le centrifughe potrebbero tornare a produrre di nuovo uranio arricchito e l’industria bellica iraniana essere in grado di ricostruire il suo arsenale, magari più forte e più efficiente di prima, gli esperti rispondono che l’attacco del 1981 al reattore iracheno di Tuwaitah rappresentò la fine definitiva dei sogni nucleari di Saddam Hussein.

 

di Carlo Benedetti

Mosca. Il presidente dell’Ucraina, Jushenko, pluritrombato alle recenti elezioni, lancia - prima di abbandonare la poltrona - il suo guanto di sfida alla società, alla democrazia, alla storia del paese e a tutti quei soldati che combatterono eroicamente per respingere dai territori sovietici gli aggressori nazisti. Con uno dei suoi ultimi editti, questo personaggio al soldo degli americani, della Cia e del potente Soros, proclama “eroe nazionale” (in sfregio al giorno della Vittoria che sarà celebrato in tutta l’ex Unione Sovietica il 9 maggio) il criminale di guerra Stepan Bandera (1909-1959), a capo dell’Ounb, l’organizzazione nazionalista che durante la seconda Guerra mondiale collaborò in Ucraina con le SS hitleriane, rivelandosi come l’artefice delle pulizie etniche. E fu sempre lui a fondare, nel 1942, l’Upa, la Ukrainian Insurgent Army.

Jushenko quindi, prima di andarsene, getta sul piatto della storia ucraina la riabilitazione di questo criminale di guerra. Si tratta di un passo che tende a riscrivere il passato e che provoca indignazione non solo in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, ma anche in Polonia, dove operò l’Armata ucraina di ribelli Upa guidata da Bandera. Notevoli e significative anche le reazioni che si registrano a Mosca dove si ritiene che il Decreto del Presidente ucraino sia rivolto contro la Russia.

La logica - si dice nella capitale russa - è semplice: il nemico del mio nemico è un mio amico. Tanto più che l’Ucraina stessa non può vantare una ricca storia indipendente senza lo spazio storico-culturale comune con la Russia. Certamente, per Viktor Jushenko è un fatto triste. Ma invece di costruire un’ideologia nazionale sulla base dell’idea della reciprocità e di una stretta connessione tra i popoli russo ed ucraino (nonché bielorusso e polacco), il presidente ha cominciato ad esaltare qualsiasi personaggio storico ucraino i cui comportamenti hanno assunto un carattere antirusso. In  particolare gli ataman Vygovsky e Masepa, uno dei fondatori dell’UPA Roman Shukhevich ed infine Stepan Bandera.

Ma questa volta Juscenko ha esagerato. Puntando sui russi ha colpito i suoi alleati polacchi, poiché proprio le pulizie etniche antipolacche costituivano l’essenza dell’attività di Bandera nell’Ucraina Occidentale nel 1943. Secondo varie stime, allora furono uccisi oltre 200mila polacchi ed ebrei. Quegli avvenimenti - che rappresentano una tragica catastrofe nazionale e mondiale - vengono oggi riportati alla luce e aggravano fortemente lo stato delle relazioni tra Varsavia e Kiev. E questo pur se la Polonia ufficiale considera Viktor Jushenko come un personaggio che vive gli ultimi giorni della sua vita pubblica come politico e come uomo di Stato. Ma i polacchi - come i sovietici - non possono dmenticare che Bandera, già in giovane età, entrò a far parte di organizzazioni nazionalistiche ucraine che si battevano contro lo Stato polacco che occupava parte dell’Ucraina dell’ovest, ma anche contro i rappresentanti del potere comunista.

Nel 1932, Bandera riunì in Ucraina le varie anime nazionaliste presenti creando un soggetto unico e autonomo che combatteva per l’indipendenza dell’Ucraina. Venne poi arrestato e nel 1936 condannato all’ergastolo. Con l’inizio della seconda guerra mondiale, riuscì a fuggire dal carcere aiutato dai nazisti. E ci sono anche testimonianze che rivelano – sulla base di alcuni interrogatori di gerarchi nazisti al processo di Norimberga - un incontro fra Bandera e Von Ribentropp, il ministro degli Esteri di Hitler, durante il quale si raggiunsero accordi sulla posizione degli ucraini nella Polonia occupata; in questi accordi si prevedeva che gli ucraini avrebbero aiutato i tedeschi nell’individuazione di dissidenti e di ebrei.

Nel 1941 sempre Bandera ebbe una serie di incontri con ufficiali tedeschi, al fine di creare una legione da lui comandata e finanziata dai nazisti, per contrastare dall’interno l’Armata Rossa favorendo così la vittoria tedesca; in cambio gli ucraini ricevettero assicurazioni sulle richieste nazionalistiche di Bandera, nel caso di sconfitta dell’Unione Sovietica. Quando la Germania avanzò verso est, quindi anche in Ucraina, inizialmente gli ucraini avviarono forme di governo basate sull’esperienza tedesca, pensando di poter dar vita ad una “dittatura mite”; ma i successi in terra russa della Wehrmacht convinsero Hitler che non c’era bisogno della creazione di uno Stato ucraino fra Unione Sovietica e Germania.

Iniziarono quindi duri scontri e Bandera fu imprigionato in Germania sino al 1944, quando, scagionato, i nazisti gli proposero di formare un esercito per contrastare i comunisti che ormai avanzavano. Dal 1945, quando la Germania era già sconfitta, Bandera si occupò della riorganizzazione delle forze combattenti sia in Ucraina che all’estero, con l’obiettivo ultimo di un’Ucraina indipendente. Il 15 ottobre 1959, Stepan Bandera fu ucciso dall’agente del KGB Bogdan Stashinskyi, poi condannato a 8 anni di carcere duro. Le istituzioni russe solo nel 2005 ammisero di aver ordinato l’omicidio.

Questa è, in sintesi, la storia di un criminale ucraino poco conosciuto e che Jushenko vuol riportare ora alla luce presentandolo come “eroe nazionale”. Ma proprio in seguito a questo tentativo di riabilitazione, gli ambienti della politologia ucraina tornano oggi a mettere l’accento su quei partiti che difendono con più orgoglio la “reputazione” del nazionalista ucraino. Si tratta di movimenti come “Svoboda” (Libertà), che ha ottenuto alcune vittorie elettorali importanti come quelle nelle regionali a Ternopil.

Il partito “Svoboda” è gemellato con partiti europei come il Fronte Nazionale di Le Pen e la BZO del defunto Jorg Haider, quindi di ideologia di estrema destra. Ed ora il rischio politico è che di fronte al fallimento delle politiche dei partiti di sinistra e di destra moderati (come quello del presidente) si rafforzino, appunto, partiti come “Svoboda”. In pratica lo spettro di Bandera torna ad aggirarsi sulla realtà politica dell’Ucraina. Pur se la posta in gioco è oggi quella relativa ad una rinascita nazionale in senso democratico e non antirusso come invece vorrebbero i nazionalisti orfani di Bandera impegnati nella cancellazione della memoria storica.

di Rosa Ana De Santis

Il governo Sarkozy si avvicina a formalizzare il divieto di indossare il burqa e il niqab (il velo che lascia scoperti i soli occhi) nei luoghi pubblici. La decisione del governo francese arriva dopo diversi mesi di lavoro della commissione incaricata di studiare il fenomeno e le possibili contromisure istituzionali. Le donne che vorranno continuare a tenere il volto coperto integralmente o quasi, non andranno incontro a sanzioni penali, ma, per ragioni di sicurezza e necessità di identificazione, potrebbero non usufruire di alcuni servi pubblici.

L’urgenza di legiferare su un fenomeno che non riguarda poi molte donne e non ha quindi ricadute sociali evidenti nasce apparentemente dall’allarme terrorismo e dal tormentone della sicurezza, ma in realtà vuole depositare un chiaro messaggio culturale, che non a caso viene proprio  dal cuore dell’Europa moderna. La terra dei lumi della ragione, della smentita storica e violenta a tutti i pregiudizi religiosi mortificanti della libertà e dignità personale, torna a difendere il baluardo morale e politico dello stato laico. Ma il velo è qualcosa di più.

E’ l’Islam nelle sue forme più ortodosse e più lontane dalla sensibilità occidentale. E’ la metafora concreta di uno scontro durissimo di culture. Le nostre donne denudate sui manifesti pubblicitari, la seduzione venduta a chili sul mercato e le loro, coperte e mortificate nella collettività e restituite pienamente alla loro identità solo tra gli affetti familiari. Non tutte queste donne mancano di consapevolezza, non tutte sono costrette. Per molte è una scelta libera e voluta. Quale libertà deve privilegiare uno Stato che non sia confessionale e che abbia scritto in Costituzione il rispetto della libertà individuale? C’è forse una libertà individuale che vale più di un'altra?

Ci aiutano a tradurre questa delicata decisione del governo francese le reazioni italiane. Calderoli che applaude al divieto di burqa perché, dice lui, le ragioni della sicurezza nazionale devono avere le priorità rispetto alle libertà individuali. Un discorso ragionevole se la Lega, il partito cui appartiene, non fosse la Lega che conosciamo e non avesse montato le più volgari e pericolose campagne xenofobe contro i musulmani. Il Partito Democratico, invece, si mostra critico e vede nella negazione pubblica del burqa una messa a rischio di valori culturali che ci sono estranei e che, solo per questa ragione, saremmo disponibili a limitare.

Letture parziali che devono le proprie debolezze argomentative a ciò che è rimasto ancora irrisolto del pensiero liberale degli stati moderni e che si fa sentire proprio quando usciamo fuori dal recinto di casa. La libertà è soltanto un metodo? Ne esistono tante oppure la libertà individuale è quella che sta scritta sulle carte costituzionali dell’Europa moderna? Siamo così bravi da voler far valere per tutti qualcosa che è nel nostro codice genetico o, piuttosto, ci sentiamo al culmine dello sviluppo umano, come pensava Hegel della sua storia della filosofia?

La verità lampante a tutti è che il burqa non è un abito tradizionale, è qualcosa di più. E’ davvero il segno tangibile di un sistema valoriale e di una precisa visione della donna e della sua funzione nel privato e nel pubblico. E’ altrettanto vero che il divieto esaspererà la contraddizione e non la curerà mai sul piano accademico. Andranno meglio le cose nella spicciola amministrazione del quotidiano. O almeno così sembrerà a molti. Quella donna senza burqa forse da casa non uscirà proprio più. Ma non è davvero della sua emancipazione che una legge di questo tipo vuole occuparsi? E la sua famiglia come si comporterà vedendosi privata di qualcosa che considera insopprimibile nel proprio sistema valoriale? Forse lo scontro sarà ancora più insabbiato e paludoso. Semplicemente scenderà dal capo delle donne.

Se di mezzo c’è la tutela dell’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, se a rischio può essere la vita della collettività, forse una norma così può apparire giustificabie, anche se é difficile far cadere il sospetto che l'islamofobia non c'entri nulla. Ma qualsiasi progetto educativo rischia d’implodere non per l’efficacia, ma per un banale peccato di superbia. L’insoddisfazione che lascia il progetto di questa legge non è tanto dovuta alla tesi, peraltro discutibile, secondo la quale i cambiamenti culturali sono vincenti quando sono autonomi, ma perchè l’Occidente non fa niente di nobile quando le sue donne le spoglia in tv, le esibisce negli spot o sui cartelloni stradali come medicina ormonale; in una parola, le vende. Qualcuno dice, a difesa di questo decadimento dell’identità femminile, che tutto questo lo vogliono le donne. Che è solo una questione di libertà individuale. La stessa di chi vuole indossare il velo?

di Elena Ferrara

A Pyongyang la dirigenza coreana non tollera altro culto se non quello che ogni cittadino deve tributare all’ex presidente Kim II-sung e a suo figlio, l’attuale leader Kim Jong-il. E’ questa la tragica realtà geopolitica che domina la monarchia locale e che mostra sempre più - nei confronti delle vicende religiose - un silenzio enigmatico e inquieto. Intanto numerose e quotidiane sono le violazioni che si registrano nel campo della libertà religiosa, anche con numerosi casi di arresto e di deportazione.

La storia del Paese, comunque, ci ricorda anche altri momenti. E precisamente il tempo in cui la capitale era chiamata “la Gerusalemme dell’Est”. Quando a metà del ventesimo secolo, il 30% dei suoi abitanti erano cristiani, contro appena l’1% del resto del Paese. Le persecuzioni degli anni Cinquanta presero poi di mira in particolare i cristiani. Ed oggi a Pyongyang - riferiscono i diplomatici occidentali che si trovano nel paese - si possono trovare solo alcune chiese prive di difese istituzionali e diplomatiche.

Ovviamente la Costituzione autorizza la libertà di culto, ma in realtà opera con il filtro di federazioni cristiane ufficiali, controllate dal governo. Sono così riconosciuti 15 mila cristiani dichiarati, senza distinzione di confessioni (prima del 1949, i cattolici erano 55mila). Resta però da capire cosa si nasconda dietro queste cifre, che rivelano pur sempre uno stato di decomposizione accelerata. Ad esempio, la chiesa cattolica di Jangchung, quartiere est della capitale, non ha un parroco: negli anni Ottanta il Vaticano si sarebbe rifiutato di ordinare un candidato mandato a Roma dal governo coreano.

Situazione estremamente complessa anche quella che riguarda la chiesa ortodossa. I suoi sacerdoti - diplomati al Dipartimento di religione dell’universit? Kim II-sung, la più prestigiosa del Paese - erano stati mandati a Mosca in seminario per essere “istruiti” ed ammessi “all’esercizio spirituale”. Ma dopo quattro anni sono rientrati e la chiesa (dedicata alla “Trinità”) è restata vuota, pur se il rapporto fra il patriarcato moscovita e la piccola comunità ortodossa nordcoreana è stretto e risale a molto tempo fa. In proposito va ricordato che una missione spirituale russo-ortodossa si era stabilita in Corea nel luglio del 1897.

La benedizione della prima pietra della chiesa ortodossa di Pyongyang era poi avvenuta nell’aprile 2003 per mano dell'arcivescovo di Kaluga e Borovsk, Climent. Toccò poi al vescovo russo di Yegoryevsk, Marc, ordinare diaconi due studenti nordcoreani, Theodore Kim e John Ra, nel maggio del 2003. Quanto ai protestanti coreani c’è un loro tempio a Bongsu, che ogni settimana accoglie i fedeli, tra cui una decina di occidentali residenti a Pyongyang.

Di fatto questa manciata di chiese sotto controllo è una vetrina per consentire al governo di proclamare che la libertà di culto - pur se tra manovre incrociate e contraddittorie - viene rispettata, mentre in tutto il Paese, praticamente, si d? la caccia ai cristiani. La presenza di alcune strutture religiose, comunque, è anche fonte di introiti: perchè senza eccezioni consente di attrarre l’aiuto offerto da numerose organizzazioni confessionali straniere. Un afflusso di capitali non trascurabile per un Paese esangue, sottoposto alle sanzioni dell’Onu.

Il rapporto tra il governo del Nord e le chiese, intanto, si tinge spesso di giallo con situazioni incontrollabili. E’ quello, ad esempio, ampiamente ripreso dalla stampa sudcoreana, che ha riferito dell’esecuzione pubblica, presso la frontiera cinese, di una nordcoreana di 33 anni, accusata di distribuire Bibbie e di spionaggio per conto degli Stati Uniti.


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