di Marco Montemurro

La Thailandia continua a vivere ore tragiche. Negli ultimi giorni la repressione intrapresa dall’esercito ha provocato la morte di ben 37 presone tra le fila delle camicie rosse. Dopo mesi di crescente tensione, il conflitto si è trasformato in quel che molti temevano, ovvero in un bagno di sangue. E’ un dramma che sicuramente sarà ricordato a lungo.

Per evitare che il numero delle vittime continui a salire, nella notte di lunedì uno dei leaders dei manifestanti, Nattawut Saikua, ha proposto una tregua a Korbsak Sabhavasu, segretario generale del primo ministro Abhisit. Il quotidiano thailandese The Nation ha riferito infatti che, se l’esercito cessasse immediatamente gli attacchi, le camicie rosse sarebbero disposte ad abbandonare le barricate da loro erette nelle strade cittadine.

Dal 3 aprile, infatti, i sostenitori del Fronte Unito per la Democrazia sono accampati in un distretto centrale di Bangkok, un’area turistica e commerciale, che è presidiata giorno e notte da migliaia di persone decise a lottare fino a quando non sarà raggiunto il loro obiettivo, vale a dire l’immediato scioglimento del governo ed elezioni anticipate.

Finora né il governo né i manifestanti si sono mostrati seriamente intenzionati ad avviare trattative, tuttavia adesso, considerata la recente tragedia, evitare che gli scontri diventino sempre più cruenti si presenta come una priorità. Forse sarà ripreso quel dialogo che era stato intrapreso all’inizio del mese, quando una soluzione politica sembrava comparire all’orizzonte. La sera del 3 maggio, infatti, il primo ministro Abhisit Vejjajiva aveva dichiarato in televisione di essere disposto a sciogliere il governo a fine settembre, affinché si potessero svolgere nuove elezioni il 14 novembre.

La proposta inizialmente era parsa realizzabile dato che, già il giorno successivo, era stata accolta da Veera Musikapong, uno dei leaders delle camicie rosse. I problemi però non si sono fatti attendere. Subito dopo l’offerta, il governo ha aggiunto come condizione preliminare lo smantellamento delle barricate: "Se non torneranno a casa, non sono intenzionato a dissolvere il Parlamento”, così si è espresso Abhisit durante un’intervista concessa il 5 maggio al canale ASTV.

La frase da molti è stata recepita come una provocazione e, in effetti, Weng Tojirakarn, un’altro leader delle proteste, diffidando del governo, ha continuato ad incitare le camicie rosse sull’importanza di mantenere alto il livello di guardia. Di conseguenza l’ala più radicale del movimento, cominciando a dubitare del piano in atto, ha voluto porre anch’essa una loro condizione.

E’ stato richiesto pertanto al governo di imputare il segretario del Democrat Party, Suthep Thaugsuban, per la sua responsabilità nell’uccisione di 25 manifestanti, tragico evento accaduto il 10 aprile. "Non abbiamo intenzione di andare via fino a quando il governo non ammette la sua responsabilità negli scontri”, così si è espresso Panna Saengkumboon, un esponente delle camicie rosse, come la televisione Al Jazeera ha riferito il 12 maggio.

La situazione così, in breve tempo, è tornata nello stesso stato di paralisi iniziale; pericolosa premessa, poiché ha aperto la strada ai tragici scontri avvenuti recentemente. Concedendo sole poche ore di preavviso, il 12 maggio l’esercito ha imposto un minaccioso ultimatum, rifiutato del tutto dalle camicie rosse, ossia lo sgombero del distretto occupato entro la mezzanotte.

Il giorno successivo allora i militari, ormai autorizzati ad intervenire con le armi, hanno iniziato prima ad isolare l’area interrompendo le strade, i trasporti e le forniture di cibo, acqua ed elettricità e poi, al calar del sole, hanno attuato la loro strategia repressiva. Nella notte sono rimasti uccisi 10 manifestanti, un cecchino ha colpito a morte Khattiya Sawasdipol, uno dei capi, e gli scontri sono proseguiti per tutto il fine settimana.

Le camicie rosse hanno resistito sulle loro barricate e, pertanto, il bilancio delle vittime è stato drammatico. In pochi giorni sono stati uccise 37 persone e ferite un centinaio, tra cui anche quattro giornalisti, due tailandesi, un francese dell’emittente televisiva France 24 e il fotoreporter italiano Flavio Signore.

Nonostante l’esercito agisca con violenza, molti manifestanti continuano ad affermare di non essere intimoriti; anzi, sostengono di voler combattere fino alla morte, decisi nel difendere le loro ragioni. Considerata tale situazione, probabilmente Nattawut Saikua, portavoce dei manifestanti, ha richiesto un cessate il fuoco proprio per impedire un ulteriore spargimento di sangue, sempre da scongiurare.

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