di Michele Paris

Le consuete manifestazioni del Primo Maggio si sono trasformate quest’anno negli Stati Uniti in un vasto movimento di protesta contro i continui attacchi della politica e delle forze di polizia nei confronti degli immigrati senza documenti. A mobilitare decine di migliaia di persone in una settantina di città americane sono state, in particolare, la recente durissima legge anti-immigrazione approvata dallo stato dell’Arizona e la finora mancata promessa del presidente Obama di promuovere un nuovo quadro legislativo che consenta un percorso di integrazione agli oltre dieci milioni di immigrati irregolari presenti sul suolo statunitense.

Il corteo più numeroso che ha animato il “May Day” d’oltreoceano è stato quello di Los Angeles, al quale hanno preso parte oltre 50 mila persone, tra cui il sindaco di origine ispanica, Antonio Villaraigosa, e l’arcivescovo della metropoli californiana, Roger Mahony. Venticinquemila sono stati invece i manifestanti a Dallas, nel Texas, 10 mila a Chicago e a Milwaukee, nel Wisconsin, qualche migliaio a San Francisco, New York e Washington. Nella capitale si è vissuto qualche momento di tensione, con l’arresto del deputato democratico dell’Illinois, Luis Gutierrez, fermato dalla polizia assieme ad alcuni sindacalisti e leader delle associazioni a favore dei diritti degli immigrati per aver inscenato un sit-in di fronte alla Casa Bianca.

Queste dimostrazioni a sostegno degli immigrati irregolari erano già state annunciate dallo scorso mese di marzo, quando svariati gruppi della società civile avevano fissato per il Primo Maggio l’ultimatum al Congresso per la presentazione di una riforma complessiva. L’inerzia della politica e l’introduzione della già famigerata legge SB1070 in Arizona, ha però dato alle manifestazioni un impulso e un coordinamento del tutto inaspettati.

Molte delle personalità che hanno parlato alla folla, come il reverendo Jesse Jackson a Chicago, non hanno esitato ad accostare la lotta per i diritti degli immigrati a quella per i diritti civili degli anni Sessanta. Lo stesso Jackson ha definito l’Arizona come la nuova Selma, riferendosi alla cittadina dell’Alabama diventata il simbolo della battaglia contro la segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti. Tra gli aspetti più discussi del provvedimento adottato dal Parlamento locale dell’Arizona, ci sono la facoltà assegnata alle forze dell’ordine di fermare chiunque sia sospettato di essere un immigrato illegale per chiedere la verifica dei documenti, pena l’arresto e la deportazione, e l’aver reso un crimine penale il solo fatto di risiedere sul territorio dello stato senza permesso.

Al centro delle rivendicazioni dei partecipanti alle manifestazioni negli USA c’era la fine dei raid contro gli immigrati senza documenti , aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi nonostante le garanzie offerte dall’amministrazione Obama per una risoluzione equa del problema. Per le personalità politiche (democratiche) presenti agli eventi nelle varie città americane, tuttavia, l’obiettivo principale era quello di convogliare la protesta verso il supporto per la riforma di cui si sta da qualche settimana cominciando a parlare a Washington.

Sia il sindaco di Los Angeles che il parlamentare democratico arrestato, così, si sono fatti interpreti della proposta di legge appoggiata dallo stesso Obama e che difficilmente può però essere considerata una giusta soluzione al problema dell’immigrazione. Riflettendo le continue concessioni alla demagogia repubblicana e dei gruppi di estrema destra che chiedono misure repressive, il progetto di riforma, pur prevedendo un lungo e complicato processo verso la cittadinanza americana, comprende infatti la massiccia militarizzazione del confine meridionale e l’istituzione di un sistema nazionale di identificazione personale al limite della violazione dei diritti civili.

Per quanto le manifestazioni del Primo Maggio abbiano lanciato un segnale molto forte per la politica di Washington, grazie ad una vasta mobilitazione su scala nazionale, in alcune città le presenze sono state tutto sommato modeste. In una città come New York, ad esempio, dove si stima vivano circa tre milioni di abitanti nati al di fuori dei confini americani, a Union Square si sono visti poche migliaia di dimostranti, sintomo della sfiducia e della disillusione che pervadono gli immigrati irregolari, ma anche dei loro crescenti timori nel venire a contatto con le autorità di polizia.

Anche se il testo della riforma che circola a Washington - frutto delle trattative tra il senatore democratico di New York, Chuck Schumer, e quello repubblicano della Carolina del Sud, Lindsey Graham - rappresenta una risposta quasi esclusivamente punitiva al problema dell’immigrazione, appare del tutto improbabile che il Congresso possa licenziare una nuova legge quest’anno.

Con un calendario dei lavori attualmente dominato da altre questioni delicate, come la riforma del sistema finanziario e la legge sul contenimento delle emissioni in atmosfera, anche Obama ha riconosciuto l’improbabilità di ottenere un qualche risultato concreto quest’anno. A ciò si aggiunga il desiderio da parte di entrambi i partiti di evitare dibattiti laceranti su temi scottanti come l’immigrazione durante la lunga campagna elettorale già in corso per le elezioni di medio termine del prossimo novembre.

Nonostante il polverone suscitato dalle misure adottate in Arizona e le proteste scaturite in tutto il paese, nulla di positivo c’è da attendersi nel prossimo futuro dalla Casa Bianca e dal Congresso. Come in altri ambiti, insomma, anche la questione dell’immigrazione sembra destinata a finire nella lista già folta delle illusioni e delle aspettative deluse da parte dell’amministrazione Obama.

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