di Michele Paris

In quello che è stato definito il Supermartedì del 2010, questa settimana sono andate in scena negli Stati Uniti una serie di importanti elezioni primarie per scegliere i candidati dei due principali partiti alle elezioni di medio termine in programma il prossimo mese di novembre. L’attenzione degli addetti ai lavori si è concentrata in particolare su tre stati - Arkansas, Kentucky e Pennsylvania - dove l’esito del voto ha rappresentato un chiaro attestato di sfiducia nei confronti dei candidati uscenti di entrambi gli schieramenti. Con un’affluenza alle urne a livelli infimi e, al contrario, un grado di disaffezione per la politica decisamente elevato, ancora una volta il vero messaggio uscito dalle urne indica più precisamente una crisi irreversibile dell’intero sistema rappresentativo americano, al di là delle differenze di partito.

La sconfitta più clamorosa di questa tornata elettorale è stata indubbiamente quella che ha decretato la fine della carriera politica dell’80enne senatore della Pennsylvania, Arlen Specter. Eletto cinque volte alla camera alta del Congresso USA, lo scorso anno era passato dal Partito Repubblicano a quello Democratico, dopo aver accertato l’impossibilità di conquistare la candidatura nelle file del suo vecchio partito a causa delle sue posizioni troppo moderate. Accolto a braccia aperte dai democratici che si erano visti in questo modo piovere dal cielo il 60esimo cruciale seggio al Senato, Specter si era garantito l’appoggio della Casa Bianca e di tutto l’establishment del nuovo partito in vista delle primarie.

Diventato il simbolo dell’opportunismo e del vecchio modo di fare politica di Washington, Specter ha visto tuttavia crollare rapidamente i suoi consensi. L’appoggio dei vertici democratici si è così trasformato in un fardello letale e la sconfitta è stata inevitabile. La nomination per il seggio della Pennsylvania al Senato per il Partito Democratico è andata allora al veterano della Marina e membro della Camera dei Rappresentanti Joe Sestak, il quale aveva condotto la sua campagna elettorale distanziandosi dalle posizioni ufficiali del partito.

L’ondata “anti-incumbent”, cioè contro i politici in carica, non ha risparmiato nemmeno i repubblicani, da mesi costretti a fare i conti con il movimento di estrema destra del “Tea Party”. Nel Kentucky, la candidatura del GOP per il seggio che verrà lasciato libero a fine anno dal senatore Jim Bunning, è andata infatti all’oftalmologo Rand Paul, figlio del più famoso deputato repubblicano del Texas, Ron Paul, già candidato libertario alle presidenziali del 2008. Vera e propria incarnazione dei valori conservatori del “Tea Party”, Rand Paul ha sbaragliato la concorrenza del suo rivale, Trey Grayson, sostenuto con forza dai repubblicani di Washington, primo fra tutti l’altro potente senatore del Kentucky, nonché leader di minoranza al Senato, Mitch McConnell.

In Arkansas, infine, gli occhi erano puntati sulle primarie democratiche, nelle quali il voto di protesta ha costretto la senatrice in carica Blanche Lincoln al ballottaggio che si terrà a giugno contro il vice-governatore Bill Halter. Nello stato di Bill Clinton, la centrista “pro-business” Lincoln aveva anch’essa il sostegno degli organi di partito, ma ha patito pesantemente una rivolta nei suoi confronti orchestrata dalla sinistra democratica e dalle associazioni sindacali, deluse dalle sue posizioni troppo moderate su molti temi affrontati dal Senato nell’ultimo anno.

Alla luce dei sentimenti degli elettori americani per i candidati che occupano cariche al Congresso, è prevedibile che a novembre la situazione più delicata sarà quella che dovrà fronteggiare la maggioranza democratica. Così almeno si augurano i repubblicani. A complicare la situazione, però, sempre martedì un’elezione suppletiva in un distretto conservatore della Pennsylvania per sostituire un deputato deceduto ha visto il successo del candidato democratico, sia pure di tendenze moderate.

A ben vedere, la frustrazione degli elettori è indirizzata indistinguibilmente a chiunque rappresenti i privilegi di una classe politica screditata e irrimediabilmente collusa con i grandi interessi economici e finanziari che rappresentano il vero centro di potere negli USA come altrove. Come era accaduto nel 2006 e nel 2008 - in due elezioni che avevano segnato consistenti passi avanti per i democratici - a farne le spese è il partito che viene di volta in volta identificato con la gestione del potere.

Ora, svanito oltretutto l’entusiasmo per il fenomeno Obama, a pagare sarà probabilmente il Partito Democratico che, già a novembre o al più tardi nel 2012, finirà per lasciare la maggioranza al Congresso ai repubblicani, perpetuando lo stesso modo di fare politica all’interno di un sistema bipartitico profondamente delegittimato. Estremamente sintomatico del decadimento di un sistema additato tuttora da molti come un modello di democrazia, basterebbe citare le percentuali di affluenza che caratterizzano le elezioni americane. Se nelle presidenziali in media si reca alle urne poco più della metà degli elettori, nelle primarie si può considerare un enorme successo se si arriva al 30%.

Se la maggioranza degli americani, chiaramente sfiduciata di fronte ad un sistema che non garantisce alcuna rappresentanza politica reale a vastissimi strati della popolazione, nemmeno si prende il disturbo di votare, negli ultimi tempi quella piccola fetta di elettori che si reca alle urne intende punire indifferentemente i politici in carica. Senza che l’appartenenza ad uno dei due partiti che monopolizzano la scena politica d’oltreoceano faccia la minima differenza.

In questo scenario, democratici e repubblicani continuano a scambiarsi inconsistenti accuse reciproche, cercando di cavalcare momentaneamente il malcontento degli elettori. Allo stesso modo, i media “mainstream” annunciano come se niente fosse vittorie e sconfitte elettorali che sembrano dover preannunciare nuovi scenari politici e rinnovate speranze di cambiamento. Per poi finire puntualmente deluse alla successiva tornata elettorale.

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