di Michele Paris

Uno dei paesi che continua a sopportare gli effetti più pesanti della crisi economica esplosa nell’autunno del 2008, è senza dubbio la Lettonia. Una delle tre ormai ex “Tigri del Baltico”, questa piccola repubblica con poco più di due milioni di abitanti, a vent’anni dalla riconquistata indipendenza dall’Unione Sovietica, rappresenta alla perfezione il fallimento della promessa di benessere e sviluppo del libero mercato. Sotto il dettato dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale - vale a dire dei rappresentanti della speculazione finanziaria internazionale, in larga parte responsabile del crollo stesso dell’economia - la Lettonia si trova ora costretta a implementare devastanti misure di austerity che potrebbero costituire un modello per i paesi più indebitati dell’area Euro.

Gravemente colpita dalla fuga dei capitali dai paesi più a rischio tra il 2008 e il 2009, la Lettonia ha visto contrarsi la propria economia del 18% lo scorso anno, mentre secondo alcune stime un altro 4% dovrebbe perdere alla fine del 2010. A partire dal 2008, le retribuzioni del settore pubblico sono scese di un quarto. Del 30% è stato invece il crollo degli stipendi nel settore privato. Il tasso ufficiale di disoccupazione si aggira attorno al 23%, ovviamente il più elevato di tutta l’UE. Di conseguenza, le vendite al dettaglio nel paese sono calate di oltre il 30% tra il 2008 e il 2009.

Per far fronte alla situazione, il governo conservatore del partito della Nuova Era ha adottato una serie di provvedimenti pressoché senza precedenti, puntualmente prescritti da Bruxelles e Washington. Il bilancio del 2009 e 2010 ha così decretato un taglio alla spesa pubblica pari al 9% del PIL. Sotto la guida dello zelante ministro delle Finanze, l’ex presidente della Banca Centrale lettone ed ex Primo Ministro Einars Repse, il più recente attacco ha toccato anche le pensioni dei dipendenti pubblici, per le quali era stata proposta una riduzione del 30% prima del provvidenziale intervento della Corte Costituzionale.

In cambio di questi interventi, che hanno avuto ripercussioni pesantissime su gran parte della popolazione, l’Unione Europea, il FMI e la Banca Mondiale hanno garantito un prestito da 7,5 miliardi di dollari, una somma enorme viste le dimensioni del paese. In seguito alla rigorosa politica di austerity, il deficit lettone è sceso dal 12% del PIL all’8%, non abbastanza tuttavia per i guardiani del rigore, i quali chiedono ora a Riga di scende sotto al 3% con nuovi attacchi a stipendi, pensioni e programmi sociali.

Nel gennaio del 2009, quando cioè il prestito venne annunciato ufficialmente, la Lettonia si trovava di fatto impossibilitata a raccogliere denaro dalle istituzioni finanziarie che chiedevano interessi usurai anche superiori al 30%. In ogni caso, una buona fetta del supporto economico proveniente dagli organismi internazionali è finito o finirà proprio per ricapitalizzare il settore bancario lettone, dominato da istituti scandinavi (svedesi in primis).

Alla rabbia manifestata dalla popolazione, il gabinetto del premier Valdis Dombrovskis ha dapprima risposto con le forze dell’ordine per poi sventolare la minaccia dei vertici EU e del FMI. In caso di esitazioni, cioè, il prestito al paese sarebbe stato revocato. Il governo di Riga, comunque, non ha mai manifestato alcuna esitazione a far scontare il prezzo della crisi ai lavoratori lettoni. Né i ripetuti rimpasti di governo succedutisi negli ultimi due anni hanno prodotto cambi di rotta di qualsiasi tipo.

Così, di fronte allo scempio di quel che restava dei programmi sociali istituiti nei primi anni dell’era post-sovietica, l’élite finanziaria internazionale ha applaudito al coraggio della Lettonia, tanto che l’agenzia di rating Standard & Poor’s, lo scorso febbraio ha leggermente migliorato la propria valutazione del debito del paese, portandolo da BB- a BB.

Se le devastazioni sociali alle quali è sottoposto il popolo lettone sono salutate dalla finanza internazionale come un modello per la Grecia (e presto probabilmente anche per altri paesi europei dalla scarsa disciplina fiscale) fino alla vigilia della crisi questo paese, assieme ai vicini baltici, rappresentava piuttosto un modello di prosperità generato dall’espansione del libero mercato verso l’Europa orientale, con il beneplacito di Bruxelles.

Tra il 2006 e il 2007 l’economia della Lettonia era infatti cresciuta al ritmo del 10% annuo, in gran parte alimentata però - qui come altrove - da una enorme bolla speculativa nel settore immobiliare. Un modello di crescita, inoltre, perversamente basato sul contenimento dei redditi e della spesa sociale, il cui tracollo ha determinato un nuovo drammatico inasprimento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione.

Pur senza far parte dell’area Euro, la Lettonia aveva poi ancorato la propria moneta a quella unica europea. Una rinuncia alla sovranità monetaria che il governo di Dombrovskis, sotto le pressioni internazionali, ha deciso di non abbandonare nemmeno dopo la catastrofe finanziaria, privandosi così della possibilità di svalutare il lat per stimolare la crescita economica.

Ciò, assieme al perseguimento di rigorose politiche di bilanciamento del budget in un periodo di crisi, in Lettonia come in altri paesi in affanno, non potrà che peggiorare la situazione, ritardando la ripresa. Con effetti che si faranno sentire anche sui paesi relativamente più “sani”.

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