di Eugenio Roscini Vitali

In tutto il mondo la reazione di condanna al massacro della Mavi Marmara e al sequestro della “Freedom Flotilla” è stato unanime: un uso sproporzionato della forza e un inutile bagno di sangue contro un convoglio civile e 10 mila tonnellate di aiuti umanitari, un atto equiparabile agli attacchi dei pirati somali nel golfo di Aden. Avvenuto sotto gli occhi sbigottiti della comunità internazionale, il blitz delle teste di cuoio della Shayetet 13, l’unità speciale della Marina Militare Israeliana, ha causato nove morti e numerosi feriti, l’arresto di centinaia di attivisti filo-palestinesi, trattenuti senza una particolare accusa per oltre due giorni nella prigione di Beersheba, alle porte del deserto del Neghev ed il sequestro delle sei imbarcazioni partite dal molo turco-cipriota di Famagosta e dirette a Gaza, requisite e dirottate sul porto di Ashdod, a sud di Tel Aviv.

Nonostante l’evidente violazione del diritto internazionale (l’attacco è avvenuto in acque internazionali, a 75 miglia dalla costa israeliana) e la drammaticità dell’evento, la Casa Bianca ha comunque cercato di stemperare la paventata risoluzione di condanna dell’Onu e, dopo dodici ore di schermaglia con la Turchia, ha guidato il Consiglio di Sicurezza verso una posizione meno “aggressiva”, dove non si parla di assalto israeliano alla Mavi Marmara ma più genericamente di “atti” avvenuti a bordo dell’imbarcazione. Una dichiarazione che Israele definisce in ogni caso “un riflesso condizionato basato unicamente su certe immagini televisive e su una certa dose d’ipocrisia, non sulla conoscenza dei fatti”.

Dal punto di vista politico, per lo Stato ebraico l’arrembaggio alla “Freedom Flotilla” rappresenta sicuramente un danno d’immagine potenzialmente catastrofico, un’operazione mediocre nella quale il calcolo del male minore ha offuscato la reale entità della minaccia. Pensando alle due possibili alternative, Gerusalemme avrebbe potuto lasciar forzare il blocco navale o fermare la flotta: nel primo caso avrebbe certamente reso insignificanti le intimidazioni fatte fino ad oggi, dando un segnale di debolezza in una regione dove i deboli hanno quasi sempre la peggio. Bloccare il convoglio avrebbe altresì aperto una crisi diplomatica con la Turchia e con i Paesi Arabi moderati che comunque si sarebbe risolta nell’arco di qualche mese, un po’ come accaduto per il blitz di Dubai, dove un commando di 11 agenti israeliani ha ucciso il dirigente di Hamas, Mahmoud al-Mabhouh, utilizzando passaporti falsi australiani, britannici, irlandesi e tedeschi di persone residenti in Israele.

La terza alternativa, quella del massacro, non era probabilmente contemplata. A nulla vale quindi cercare di giustificare il fallimentare intervento dei reparti speciali con il solo fatto che dietro la flotta partita da Nicosia ci fosse stata la mano dell’IHH, l’organizzazione non governativa turca che ha legami con Hamas e altre sigle della galassia integralista internazionale e che, negli anni Novanta, ha avuto un ruolo chiave nell'ingresso dei Jihadisti in Bosnia.

Le immagini diffuse dai militari israeliani mostrano, infatti, lo sbarco ripreso da un elicottero e la reazione degli attivisti che con spranghe e coltelli e con il lancio di qualche molotov hanno cercato di fermare il commando; manca la reazione degli infiltrati jihadisti con l’uso di armi da fuoco.

In un artico pubblicata sul Washington Post l’ex agente dei servizi segreti israeliani, Victor Ostrovsky, parla di operazione “tanto stupida quanto stupefacente”. L’ex spia, in forza al Mossad dal 1982 al 1990, ritiene Flotilla 13 (traduzione inglese del Shayetet 13) un reparto fantastico, una delle migliori unità israeliane che di norma pianifica tutte le fasi delle operazioni anti-pirateria nelle quali è coinvolta con un precisione quasi maniacale e che riesce a riprendere il controllo delle navi sequestrate nell’arco di pochi minuti.

Dal punto di vista intelligence, Ostrovsky ritiene che il Mossad fosse in possesso di tutte informazioni necessarie a disegnare un profilo dettagliato dei  passeggeri e dell’equipaggio che componeva il convoglio, così come era certamente riuscito ad infiltrare suoi agenti a bordo delle navi, in modo da avere un aggiornamento della situazione in tempo reale ed aveva monitorato tutte le fasi dell’imbarco avvenute a Cipro.

E’ difficile quindi pensare che ci potessero essere state lacune nella raccolta delle informazioni, nella preparazione e nell’aggiornamento della missione; il problema sarebbe quindi scaturito da un’errata valutazione della minaccia e da pressioni esterne che avrebbero forzato i tempi e i modi dell’attacco. Pressioni politiche che sarebbero potute arrivare da Gerusalemme: dal premier Netanyahu o dal suo ministro degli esteri, l’ultra conservatore Avigdor Lieberman.

Calarsi sulla coperta di una nave dopo aver attirato l’attenzione delle persone presenti a bordo con il frastuono degli elicotteri e cercare di fermare la flotta in acque internazionali non rappresenta certo la migliore delle soluzioni, sapendo soprattutto che sul ponte i militari avrebbero trovato un nutrito gruppo di persone non affini a questo tipo di situazioni e giornalisti pronti a riprendere e raccontare l’assalto. Un altro sbaglio è stato quello di voler assumere innanzitutto il controllo del ponte di coperta anziché arrembare la poppa e la prua per poi convergere verso il centro.

Errori inspiegabili per lo Shayetet 13, che in alternativa avrebbe potuto tentare la carta della sorpresa e con l’utilizzo dei mini-sommergibili, una volta arrivate in acqua territoriali, fermare le navi danneggiando le eliche di propulsione. Una tattica sicuramente migliore che potrebbe essere utilizzata contro un altro ospite indesiderato, la Rachel Corrie, la nave irlandese pronta a raggiungere Gaza e che sicuramente, a sessantatre anni di distanza, non avrebbe fatto della tragedia della Exodus un simbolo rovesciato.

 

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