di Michele Paris

Dopo mesi di conflitti e incomprensioni con la Casa Bianca e i vertici della CIA, il Direttore dell’Intelligence Nazionale americana (DNI), l’ammiraglio in pensione Dennis C. Blair, qualche giorno fa ha annunciato le proprie dimissioni. La rimozione di Blair, chiesta espressamente da Barack Obama, rivela chiaramente le tensioni più o meno latenti che attraversano le varie agenzie spionistiche statunitensi e suggella allo stesso tempo il fallimento del progetto di riforma dell’intelligence propagandata dallo stesso presidente all’indomani del suo trionfo elettorale.

L’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale era stato istituito nel 2004, su raccomandazione della commissione d’inchiesta sull’11 settembre. Dal momento che, secondo la versione ufficiale, l’attentato terroristico alle Torri Gemelle era dovuto principalmente all’incapacità delle agenzie di intelligence di mettere assieme le informazioni esistenti che lasciavano prevedere una seria minaccia terroristica sul suolo americano, la nuova posizione intendeva stabilire un centro di coordinamento posto alle dirette dipendenze del presidente.

Fin dall’inizio, tuttavia, la Direzione dell’Intelligence Nazionale è risultata essere una carica dai poteri più teorici che reali. Con il compito di supervisionare l’attività delle sedici agenzie d’intelligence d’oltreoceano, il DNI non possiede in realtà strumenti di controllo sul loro budget, né dispone di fondi significativi o di uno staff degno di tale nome. In una tale situazione, Blair, come i suoi due predecessori nominati da George W. Bush (John D. Negroponte e John M. McConnell), ha finito ben presto per vedere frustrati i suoi sforzi, soccombendo in sostanza allo strapotere della CIA e agli influenti agganci politici del suo direttore, l’ex capo di gabinetto di Bill Clinton, Leon E. Panetta.

Queste lotte di potere si sono manifestate pubblicamente in una serie di critiche indirizzate al Direttore dell’Intelligence. Le accuse nei suoi confronti sono state sollevate in seguito ai falliti attentati terroristici degli ultimi mesi: la recente mancata esplosione dell’auto-bomba piazzata a Times Square e, soprattutto, il tentativo di uno studente nigeriano di fare esplodere in volo un aereo partito il giorno di Natale da Amsterdam e diretto a Detroit. Quest’ultimo episodio aveva portato ad un’indagine da parte di una commissione del Senato, la quale proprio qualche giorno fa ha messo in evidenza le carenze del DNI nel coordinare le informazioni sull’attentatore, segnalato addirittura dal padre all’intelligence americana per i suoi contatti con membri appartenenti ad Al-Qaeda in Yemen.

Intorno alla vicenda, in realtà, persistono molte zone d’ombra e il ruolo dello stesso Blair appare poco chiaro. Le presunte “sviste” dell’intelligence americana relativamente ad un individuo le cui attività sembravano essere ben note negli USA, lasciano infatti parecchi dubbi sul fallito attentato. Tanto da far supporre ad alcuni che i fatti del giorno di Natale siano in qualche modo legati ai conflitti interni che coinvolgono gli apparati della sicurezza e la stessa amministrazione Obama.

Già pochi mesi dopo la sua nomina, peraltro, l’ammiraglio Blair era stato protagonista di uno scontro durissimo con il numero della CIA. Nel tentativo di esercitare la propria autorità, per la prima volta Blair aveva rivendicato la facoltà di nominare i direttori dell’intelligence all’estero presso le ambasciate americane. Ciò aveva scatenato la reazione del direttore della CIA, Panetta, il quale aveva risposto chiedendo ai suoi sottoposti di ignorare l’ordine di colui che avrebbe dovuto rappresentare il suo diretto superiore. Blair, a sua volta, aveva accusato Panetta d’insubordinazione, rimettendo la questione al giudizio della Casa Bianca che si sarebbe successivamente espressa a favore della CIA.

La presa di posizione dell’amministrazione Obama aveva, di fatto, stroncato le velleità di Blair di modificare lo status quo nelle relazioni ai vertici dell’intelligence americana e di porre fine alle pratiche più discutibili che avevano segnato la lotta al terrorismo negli anni precedenti. I buoni propositi dell’allora neo-presidente, d’altra parte, erano già stati frustrati prematuramente lo scorso anno. Quando il Dipartimento di Giustizia decise di rendere pubblici i documenti prodotti dalla precedente amministrazione, che fornivano una sorta di giustificazione legale alla tortura e alla carcerazione preventiva, prospettando possibili epurazioni all’interno delle agenzie d’intelligence, si scatenò una vera e propria ribellione silenziosa. Per rimediare, Obama tenne allora un discorso presso il quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, assicurando che non ci sarebbero stati provvedimenti punitivi e che le vecchie consuetudini, tranne qualche eccesso, sarebbero proseguite.

Se anche le sue dimissioni rappresentano un successo e un rafforzamento della CIA, così come dei vertici militari, ben poco in realtà lasciava presagire che Blair avesse avuto effettivamente l’intenzione di frenare le pratiche criminali adottate dall’intelligence statunitense nella quasi decennale “guerra al terrore”. Dalle sue prese di posizione ufficiali emerge piuttosto una sostanziale sintonia con i sistemi implementati dall’amministrazione Bush.

Nell’aprile del 2009, ad esempio, in un comunicato interno Blair espresse soddisfazione per le informazioni carpite ai presunti terroristi interrogati utilizzando metodi di tortura. Più recentemente, nel corso di una testimonianza alla camera dei Rappresentanti, affermò invece la legittimità della decisione di assassinare cittadini americani implicati in “azioni che minacciano gli interessi” del loro stesso paese, sia pure dietro autorizzazione della Casa Bianca.

Chiunque sarà il successore di Dennis C. Blair alla direzione dell’Intelligence Nazionale si troverà così di fronte ad un compito gravoso, con una comunità d’intelligence ancora più potente e sempre meno disposta ad accettare limitazioni al proprio operato da parte di “outsider” di nomina politica. Con la conseguenza di rendere pressoché inutile una carica che era stata creata precisamente per coordinarne le attività e che poteva fornire finalmente un’occasione per ridurne gli eccessi.

di Eugenio Roscini Vitali

«Lasciate che vi rassicuri sul fatto che il governo affronterà queste sfide e queste difficoltà nel piano di riconciliazione in cinque punti che avevo annunciato in precedenza». Questo è in pratica il messaggio con il quale il premier Abhisit Vejjajiva ha voluto rassicurare i thailandesi e la comunità internazionale dopo i fatti di Bangkok e l’operazione di pulizia e sicurezza con la quale l’esercito ha messo fine alla protesta delle camicie rosse. La road map promessa da Abhisit prevede un pacchetto di riforme in ambito politico, sociale ed economico e la creazione di una commissione indipendente che dovrà indagare sugli episodi di violenza che, per oltre nove settimane, hanno devastato la capitale.

Quello di cui non ha parlato il primo ministro sono gli effetti della rivolta sulla situazione economica del Paese e cosa potrebbe accadere se a Bangkok, e in gran parte delle province nord orientali, roccaforte degli oppositori, dovesse prender vita ad un movimento sotterraneo di guerriglia urbana. Abhisit non ha neanche fatto alcun accenno ad uno dei punti centrali della rivolta: le elezioni anticipati che i sostenitori dell’ex premier Thaksin Shinawatra chiedono da tempo e che lo stesso governo thai aveva offerto fino a poche ore prima che le truppe d’assalto e i mezzi blindati entrassero in azione.

Le elezioni anticipate si sarebbero dovute svolgere il prossimo 14 novembre, ma a “causa delle recenti violenze” il governo avrebbe per ora deciso di rimandare la consultazione a data da destinarsi. All’interno dell’esecutivo c’è comunque chi pensa che Abhisit non sarà in grado di restare ancora a lungo in carica, non almeno fino alla fine del mandato; sempre che permanga la stabilità delle ultime ore, è quindi probabile che il premier debba cedere alle pressioni dell’opposizione ed affrontare il giudizio degli elettori.

E’ comunque difficile pensare che le camicie rosse, dopo oltre due mesi di protesta, decine di morti e migliaia di arresti, abbiano deciso di mettere la parola fine ad una rivoluzione sociale che ha conquistato la simpatia di gran parte della dell’opinione pubblica occidentale. Ripreso il controllo del cuore finanziario della capitale e del Central World, l'enorme centro commerciale diventato simbolo del boom economico che negli anni ‘80 e ‘90 tracciò il solco delle disuguaglianze tra i neo-capitalisti e le masse contadine della provincia, il governo deve ora far fronte alle critiche della comunità internazionale.

E deve anche giustificare un uso sproporzionato della forza, compresa la morte del fotografo italiano Fabio Polenghi e del cameraman giapponese Hiro Muramoto, morti mentre riprendevano gli scontri tra camicie rosse ed esercito, e degli altri sei giornalisti rimasti feriti. Abhisit dovrà anche trovare una valida giustificazione per l’irruzione della polizia all'interno del tempio Wat Panum, per lo stato di emergenza imposto in 23  province, per la decisione con la quale sono state oscurate Twitter e Facebook, istrituita la pena di morte e censurate le televisioni nazionali.

Dovrà anche cercare di convincere gli investitori che il nordest è sotto il controllo delle autorità e che gli attacchi dei manifestanti alla sede del governo provinciale di Udon Thoni e ai municipi di Chang Mai e Chang Rai sono solo stati casi isolati, come isolate sarebbero le manifestazioni antigovernative scoppiate nelle province di Khon Kaen, Roi Et, Si Sa Ket e Ubon Ratchathani.

Per gli Stati Uniti Bangkok è un alleato prezioso, un partner strategico che Washington ha usato per anni in chiave anti-comunista e che ora sfrutta come argine all’inesorabile boom economico cinese. E’ per questa ragione che nel 2006 la Casa Bianca aveva appoggiato il golpe che ha portato all’estradizione dell’ex premier Thaksin, amico di Pechino e leader delle camicie rosse. Allora l’accusa mossa al miliardario thailandese era quella di essersi arricchito a scapito delle classi povere della società, ma in realtà Thaksin aveva ben altra colpa: non apparteneva alla grande oligarchia thai vicina al re Bhumibol Adulyadej.

Oggi neppure il monarca sembra però in grado di ridare stabilità e futuro ad un paese diviso tra gerarchia elitaria e masse rurali, un paese che paga ancora gli effetti del vecchio sistema feudale e le conseguenze dello scontro tra potere militare e forze democratiche. Una storia fatta spesso di sangue che passa attraverso l'instabilità di una nazione che tra il 1932 e il 1987 ha dato vita a quattordici Costituzioni, che ha spesso sofferto gli effetti dei colpi di stato e che è stata indebolita dal succedersi nel tempo di diversi regimi.

Bhumibol, che con il suo intervento mise fine alle crisi del 1973 e del 1992, sta ormai perdendo potere: il re non esercita più quella enorme forza morale che gli ha permesso di regnare per 64 anni e intorno alla quale è cresciuta una classe dirigente fatta di burocrati e militari arricchiti. Personaggi che, pur di mantenere il potere e gli enormi privilegi raggiunti, sarebbero anche pronti a voltargli le spalle: attendere la morte del “grande” per dare vita ad un nuovo corso che prevede l’allontanamento dell’erede al trono, il principe Maha Vajiralongkorn, che non ha certo i consensi del padre, e pone fine al Regno. Un’idea accarezzata dallo stesso Abhsit che ha gia parlato della necessità di un nuovo corso e di una monarchia stanca che non riesce a stare al passo con i tempi.

 

di Michele Paris

In quello che è stato definito il Supermartedì del 2010, questa settimana sono andate in scena negli Stati Uniti una serie di importanti elezioni primarie per scegliere i candidati dei due principali partiti alle elezioni di medio termine in programma il prossimo mese di novembre. L’attenzione degli addetti ai lavori si è concentrata in particolare su tre stati - Arkansas, Kentucky e Pennsylvania - dove l’esito del voto ha rappresentato un chiaro attestato di sfiducia nei confronti dei candidati uscenti di entrambi gli schieramenti. Con un’affluenza alle urne a livelli infimi e, al contrario, un grado di disaffezione per la politica decisamente elevato, ancora una volta il vero messaggio uscito dalle urne indica più precisamente una crisi irreversibile dell’intero sistema rappresentativo americano, al di là delle differenze di partito.

La sconfitta più clamorosa di questa tornata elettorale è stata indubbiamente quella che ha decretato la fine della carriera politica dell’80enne senatore della Pennsylvania, Arlen Specter. Eletto cinque volte alla camera alta del Congresso USA, lo scorso anno era passato dal Partito Repubblicano a quello Democratico, dopo aver accertato l’impossibilità di conquistare la candidatura nelle file del suo vecchio partito a causa delle sue posizioni troppo moderate. Accolto a braccia aperte dai democratici che si erano visti in questo modo piovere dal cielo il 60esimo cruciale seggio al Senato, Specter si era garantito l’appoggio della Casa Bianca e di tutto l’establishment del nuovo partito in vista delle primarie.

Diventato il simbolo dell’opportunismo e del vecchio modo di fare politica di Washington, Specter ha visto tuttavia crollare rapidamente i suoi consensi. L’appoggio dei vertici democratici si è così trasformato in un fardello letale e la sconfitta è stata inevitabile. La nomination per il seggio della Pennsylvania al Senato per il Partito Democratico è andata allora al veterano della Marina e membro della Camera dei Rappresentanti Joe Sestak, il quale aveva condotto la sua campagna elettorale distanziandosi dalle posizioni ufficiali del partito.

L’ondata “anti-incumbent”, cioè contro i politici in carica, non ha risparmiato nemmeno i repubblicani, da mesi costretti a fare i conti con il movimento di estrema destra del “Tea Party”. Nel Kentucky, la candidatura del GOP per il seggio che verrà lasciato libero a fine anno dal senatore Jim Bunning, è andata infatti all’oftalmologo Rand Paul, figlio del più famoso deputato repubblicano del Texas, Ron Paul, già candidato libertario alle presidenziali del 2008. Vera e propria incarnazione dei valori conservatori del “Tea Party”, Rand Paul ha sbaragliato la concorrenza del suo rivale, Trey Grayson, sostenuto con forza dai repubblicani di Washington, primo fra tutti l’altro potente senatore del Kentucky, nonché leader di minoranza al Senato, Mitch McConnell.

In Arkansas, infine, gli occhi erano puntati sulle primarie democratiche, nelle quali il voto di protesta ha costretto la senatrice in carica Blanche Lincoln al ballottaggio che si terrà a giugno contro il vice-governatore Bill Halter. Nello stato di Bill Clinton, la centrista “pro-business” Lincoln aveva anch’essa il sostegno degli organi di partito, ma ha patito pesantemente una rivolta nei suoi confronti orchestrata dalla sinistra democratica e dalle associazioni sindacali, deluse dalle sue posizioni troppo moderate su molti temi affrontati dal Senato nell’ultimo anno.

Alla luce dei sentimenti degli elettori americani per i candidati che occupano cariche al Congresso, è prevedibile che a novembre la situazione più delicata sarà quella che dovrà fronteggiare la maggioranza democratica. Così almeno si augurano i repubblicani. A complicare la situazione, però, sempre martedì un’elezione suppletiva in un distretto conservatore della Pennsylvania per sostituire un deputato deceduto ha visto il successo del candidato democratico, sia pure di tendenze moderate.

A ben vedere, la frustrazione degli elettori è indirizzata indistinguibilmente a chiunque rappresenti i privilegi di una classe politica screditata e irrimediabilmente collusa con i grandi interessi economici e finanziari che rappresentano il vero centro di potere negli USA come altrove. Come era accaduto nel 2006 e nel 2008 - in due elezioni che avevano segnato consistenti passi avanti per i democratici - a farne le spese è il partito che viene di volta in volta identificato con la gestione del potere.

Ora, svanito oltretutto l’entusiasmo per il fenomeno Obama, a pagare sarà probabilmente il Partito Democratico che, già a novembre o al più tardi nel 2012, finirà per lasciare la maggioranza al Congresso ai repubblicani, perpetuando lo stesso modo di fare politica all’interno di un sistema bipartitico profondamente delegittimato. Estremamente sintomatico del decadimento di un sistema additato tuttora da molti come un modello di democrazia, basterebbe citare le percentuali di affluenza che caratterizzano le elezioni americane. Se nelle presidenziali in media si reca alle urne poco più della metà degli elettori, nelle primarie si può considerare un enorme successo se si arriva al 30%.

Se la maggioranza degli americani, chiaramente sfiduciata di fronte ad un sistema che non garantisce alcuna rappresentanza politica reale a vastissimi strati della popolazione, nemmeno si prende il disturbo di votare, negli ultimi tempi quella piccola fetta di elettori che si reca alle urne intende punire indifferentemente i politici in carica. Senza che l’appartenenza ad uno dei due partiti che monopolizzano la scena politica d’oltreoceano faccia la minima differenza.

In questo scenario, democratici e repubblicani continuano a scambiarsi inconsistenti accuse reciproche, cercando di cavalcare momentaneamente il malcontento degli elettori. Allo stesso modo, i media “mainstream” annunciano come se niente fosse vittorie e sconfitte elettorali che sembrano dover preannunciare nuovi scenari politici e rinnovate speranze di cambiamento. Per poi finire puntualmente deluse alla successiva tornata elettorale.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Noam Chomsky, 81 anni, professore di linguistica al MIT di Boston, è filosofo di fama mondiale. Secondo il governo israeliano, evidentemente, ferisce più la penna della spada: il linguista è una minaccia immediata per la sicurezza dello Stato ebraico e va deportato. Nonostante sia egli stesso ebreo e abbia visitato spesso Israele in passato. “Accadeva soltanto in Unione Sovietica”, il commento del professore.

Nell'intervista rilasciata ad Al Jazeera, Chomsky racconta che “dopo aver atteso per molte ore in una stanza al check point l'interrogatorio, mi hanno comunicato che l'ingresso mio e di mia figlia in Israele  era negato.” Il suo arrivo al checkpoint di Allenby Bridge era ben noto alle autorità, tanto che il giovane soldato di guardia l’ha accolto con un inchino e gli ha confessato di aver letto tutti i suoi scritti. Subito dopo però, Chomsky viene portato nella stanza degli interrogatori, dove risponde per ore alle domande dell'ufficiale israeliano, che riceveva istruzioni per l'interrogatorio in tempo reale, in costante contatto telefonico con il Ministero dell'Interno, come spiega lo stesso Chomsky.

“Ero atteso all'Università di Bir Zeit a Ramallah per una serie di lezioni sugli argomenti di cui mi occupo in questi ultimi tempi: l'America e la sua politica estera.” Chomsky osserva che l'unico motivo dato dall'ufficiale per il suo respingimento è che “Israele non ama quello che lei dice.” Le molteplici accezioni della parola “Israele” in questa frase si prestano ad un'interessante analisi linguistica: il popolo ebraico, di cui fa parte lo stesso Chomsky? Il governo Netanyahu? La comunità ultra-ortodossa, cui appartiene il Ministro dell'Interno? L'esercito, la polizia?

Il professore ha una sua spiegazione per il respingimento e non è quella politica. “Sembrava che fossero particolarmente seccati dal fatto che avessi accettato l'invito a fare lezione a Ramallah,” osserva sornione, “ma non avessi in programma di proseguire per Tel Aviv, dove peraltro sono stato già molte volte in passato.” Nonostante l'incidente diplomatico, che ha avuto enorme rilievo sulla stampa israeliana ma poche menzioni su quella americana, Chomsky si dice contrario al boicottaggio delle università israeliane: “Ero contrario anche al boicottaggio del Sudafrica. Se dobbiamo boicottare, perché non gli Stati Uniti, i cui crimini sono ben più gravi? Sostengo senz'altro il boicottaggio delle aziende americane che collaborano con l'occupazione. Ma se dobbiamo boicottare l'Università di Tel Aviv, perché non anche il MIT?”

Per capire a che punto l'attuale classe dirigente israeliana sia in caduta libera a destra, basta leggere le edificanti dichiarazioni rilasciate dai vari politici di turno, una vera e propria gara di celodurismo. Il clima generale è ben riassunto nel commento di Otniel Schneller, membro del partito Kadima, che dovrebbe rappresentare i centristi moderati. Secondo Schneller, “è un bene che Israele non ammetta uno dei suoi accusatori sul suo territorio. Raccomando a Chomsky di provare uno dei tunnel che collegano Gaza all'Egitto”. C'è da tirare un sospiro di sollievo: almeno non l'hanno torturato.

di Michele Paris

Uno dei paesi che continua a sopportare gli effetti più pesanti della crisi economica esplosa nell’autunno del 2008, è senza dubbio la Lettonia. Una delle tre ormai ex “Tigri del Baltico”, questa piccola repubblica con poco più di due milioni di abitanti, a vent’anni dalla riconquistata indipendenza dall’Unione Sovietica, rappresenta alla perfezione il fallimento della promessa di benessere e sviluppo del libero mercato. Sotto il dettato dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale - vale a dire dei rappresentanti della speculazione finanziaria internazionale, in larga parte responsabile del crollo stesso dell’economia - la Lettonia si trova ora costretta a implementare devastanti misure di austerity che potrebbero costituire un modello per i paesi più indebitati dell’area Euro.

Gravemente colpita dalla fuga dei capitali dai paesi più a rischio tra il 2008 e il 2009, la Lettonia ha visto contrarsi la propria economia del 18% lo scorso anno, mentre secondo alcune stime un altro 4% dovrebbe perdere alla fine del 2010. A partire dal 2008, le retribuzioni del settore pubblico sono scese di un quarto. Del 30% è stato invece il crollo degli stipendi nel settore privato. Il tasso ufficiale di disoccupazione si aggira attorno al 23%, ovviamente il più elevato di tutta l’UE. Di conseguenza, le vendite al dettaglio nel paese sono calate di oltre il 30% tra il 2008 e il 2009.

Per far fronte alla situazione, il governo conservatore del partito della Nuova Era ha adottato una serie di provvedimenti pressoché senza precedenti, puntualmente prescritti da Bruxelles e Washington. Il bilancio del 2009 e 2010 ha così decretato un taglio alla spesa pubblica pari al 9% del PIL. Sotto la guida dello zelante ministro delle Finanze, l’ex presidente della Banca Centrale lettone ed ex Primo Ministro Einars Repse, il più recente attacco ha toccato anche le pensioni dei dipendenti pubblici, per le quali era stata proposta una riduzione del 30% prima del provvidenziale intervento della Corte Costituzionale.

In cambio di questi interventi, che hanno avuto ripercussioni pesantissime su gran parte della popolazione, l’Unione Europea, il FMI e la Banca Mondiale hanno garantito un prestito da 7,5 miliardi di dollari, una somma enorme viste le dimensioni del paese. In seguito alla rigorosa politica di austerity, il deficit lettone è sceso dal 12% del PIL all’8%, non abbastanza tuttavia per i guardiani del rigore, i quali chiedono ora a Riga di scende sotto al 3% con nuovi attacchi a stipendi, pensioni e programmi sociali.

Nel gennaio del 2009, quando cioè il prestito venne annunciato ufficialmente, la Lettonia si trovava di fatto impossibilitata a raccogliere denaro dalle istituzioni finanziarie che chiedevano interessi usurai anche superiori al 30%. In ogni caso, una buona fetta del supporto economico proveniente dagli organismi internazionali è finito o finirà proprio per ricapitalizzare il settore bancario lettone, dominato da istituti scandinavi (svedesi in primis).

Alla rabbia manifestata dalla popolazione, il gabinetto del premier Valdis Dombrovskis ha dapprima risposto con le forze dell’ordine per poi sventolare la minaccia dei vertici EU e del FMI. In caso di esitazioni, cioè, il prestito al paese sarebbe stato revocato. Il governo di Riga, comunque, non ha mai manifestato alcuna esitazione a far scontare il prezzo della crisi ai lavoratori lettoni. Né i ripetuti rimpasti di governo succedutisi negli ultimi due anni hanno prodotto cambi di rotta di qualsiasi tipo.

Così, di fronte allo scempio di quel che restava dei programmi sociali istituiti nei primi anni dell’era post-sovietica, l’élite finanziaria internazionale ha applaudito al coraggio della Lettonia, tanto che l’agenzia di rating Standard & Poor’s, lo scorso febbraio ha leggermente migliorato la propria valutazione del debito del paese, portandolo da BB- a BB.

Se le devastazioni sociali alle quali è sottoposto il popolo lettone sono salutate dalla finanza internazionale come un modello per la Grecia (e presto probabilmente anche per altri paesi europei dalla scarsa disciplina fiscale) fino alla vigilia della crisi questo paese, assieme ai vicini baltici, rappresentava piuttosto un modello di prosperità generato dall’espansione del libero mercato verso l’Europa orientale, con il beneplacito di Bruxelles.

Tra il 2006 e il 2007 l’economia della Lettonia era infatti cresciuta al ritmo del 10% annuo, in gran parte alimentata però - qui come altrove - da una enorme bolla speculativa nel settore immobiliare. Un modello di crescita, inoltre, perversamente basato sul contenimento dei redditi e della spesa sociale, il cui tracollo ha determinato un nuovo drammatico inasprimento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione.

Pur senza far parte dell’area Euro, la Lettonia aveva poi ancorato la propria moneta a quella unica europea. Una rinuncia alla sovranità monetaria che il governo di Dombrovskis, sotto le pressioni internazionali, ha deciso di non abbandonare nemmeno dopo la catastrofe finanziaria, privandosi così della possibilità di svalutare il lat per stimolare la crescita economica.

Ciò, assieme al perseguimento di rigorose politiche di bilanciamento del budget in un periodo di crisi, in Lettonia come in altri paesi in affanno, non potrà che peggiorare la situazione, ritardando la ripresa. Con effetti che si faranno sentire anche sui paesi relativamente più “sani”.


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