di Fabrizio Casari

Nestor Kirchner, morto ieri per un infarto all’età di sessant’anni, non è stato un presidente qualsiasi in un paese qualsiasi. L’attuale Segretario del Partito Giustizialista (peronista) arrivò alla Casa Rosada nel 2003 con il ritiro anzitempo di Menem, l’uomo che aveva ridotto il granaio dell’America Latina alla fame. Kirchner aveva ereditato la tragedia economica del paese latinoamericano, dovuta alle politiche economiche ultramonetariste volute dal ministro dell’Economia Domingo Cavallo, che sotto dettatura dei Chicago boys di Milton Friedman, aveva ridotto il paese sul lastrico.

L’Argentina fu infatti il laboratorio privilegiato del monetarismo, la finestra sulla follia della parità monetaria tra moneta locale e divisa e, nella decade successiva alla caduta della dittatura, divenne il luogo privilegiato per le scorribande dei capitali speculativi esteri - in particolare dei fondi pensione statunitensi - che volarono sui cieli di Buenos Aires comprando a pochi pesos per poi fuggire rivendendo a tanti dollari.

La vendita dell’Argentina a prezzi di saldo alle multinazionali statunitensi aveva posto il Paese sull’orlo dell’abisso. Entrato in scena dopo il fallimento politico di Alfonsin e la vergognosa pagina di Menem, Kirchner salì sul ponte di comando gaucho con l’impegno di scrivere presente e futuro di una grande nazione, prima violentata da una dittatura militare fascista che ridusse l’Argentina a un cimitero a cielo aperto, poi piegata dalla follia economica monetarista. Mise sul ponte di comando i due elementi dispersi: la sovranità politica ed economica del paese unita alla sua decisione di scavare nella sua storia senza sconti e senza indulgenze.

Sul piano economico Kirchner impose alle banche internazionali e agli speculatori dei tango bond un piano semplice quanto indiscutibile: l’Argentina avrebbe pagato solo quello che riteneva di dover pagare e nei modi e nei tempi che avrebbe potuto e voluto. Nessun indennizzo per i capitali speculativi veniva previsto, nessun rientro per i debiti contratti illecitamente era più possibile. Gli organismi monetari e i loro piani di aggiustamento strutturale vennero fermamente ricacciati indietro; la politica nazionale e i bisogni del Paese tornavano sul ponte di comando. Andava ricostruita l’economia vera, il suo ciclo vitale di produzione, distribuzione e consumo. Non c’era nessuna intenzione di continuare a rappresentare il bingo della speculazione finanziaria del nord.

Le ricette del Fondo Monetario per salvare l’Argentina somigliavano molto alle misure che il becchino prende ai pazienti in coma. Vi si prevedevano misure solo per rimborsare il debito con le banche e non gli argentini per ciò che gli era stato sottratto. Austerità verso l’interno, generosità verso l’estero. Una vecchia ricetta: il bastone per le vittime, la carota per gli speculatori. Ma Kirchner si rifiutò di baciare il bastone con il quale si voleva colpire l’Argentina e non volle pagare il debito alle condizioni impossibili imposte dai creditori, statunitensi in prima fila.

Niente aggiustamenti strutturali, niente politiche deflattive, nessuna garanzia per gli investitori esteri, nessuna abolizione di dazi doganali per le importazioni e quant’altro prodotto dal ricettario del medico che aveva schiantato il malato con le sue amorevoli cure. Kirchner, per la prima volta nella storia, rifiutò minacce e suggerimenti (così simili tra loro), ignorò le ricette monetariste e fece tutto il contrario di quanto proposto dal Fmi.

La crisi economica del paese venne superata grazie alle politiche economiche di tipo keynesiano ed all’apertura al mercato regionale oltre che al Mercosur. Ignorando i creditori, diede vita ad una politica economica che favorì il consumo interno, impose dazi alti per le importazioni e le transazioni finanziarie; vennero prese misure per l’occupazione e, in soli due anni, vennero creati due milioni di posti di lavoro. I conti tornarono in attivo, il Pil riprese a salire e l’Argentina denudò il re: nessuna fuga di capitali, come minacciavano i banchieri, bensì ingresso di capitali nuovi. In tre anni, furono molto maggiori i capitali che entrarono o rientrarono di quelli che uscirono.

Ma Kirchner non fu soltanto l’artefice della nuova politica economica argentina. Essa, infatti, venne sempre ispirata da scelte di politica generale che lo collocano nel solco del peronismo di sinistra, così difficile da differenziare, se non si vuol fare accademia, dal socialismo atipico sudamericano. E così come dovette fare i conti con il passato sul piano del default finanziario, allo stesso modo decise di farlo sistemando una volta per tutte la pagina nera della dittatura militare. Dovendo superare in corsa l’inefficacia della transizione di Alfonsin e il riallineamento politico di Menem con l’ideologia padronale, Kirchner scelse da subito di sistemare i conti all’interno.

La debolezza politica dei governi che avviarono la transizione come quello di Alfonsin, e la malcelata nostalgia per la dittatura di quello presieduto da Menem, avevano infatti promulgato due obbrobri giuridici: Ley de la obediencia debida (Legge dell’obbedienza dovuta) e Ley del punto final (Legge del punto finale). Il principio ispiratore delle due amnistie mascherate da leggi era l'assoluta non colpevolezza e non responsabilità dei militari e dei poliziotti argentini per i crimini commessi, in quanto soggetti ad "ordini superiori".

In pratica due gigantesche operazioni di amnistia per i militari autori della morte di trentamila persone, con l’assunto giuridico della non responsabilità oggettiva per chi obbedisce a ordini e delinque nell’esercizio del suo dovere. Erano insomma leggi che avevano assegnato il perdono d’ufficio ai torturatori del Paese, miserabili funzionari dell’orrore nella dittatura militare voluta da Washington e benedetta dal Vaticano. I criminali diventavano quindi non giudicabili e non perseguibili: un tentativo vergognoso di sbianchettare una tragedia immensa. Vennero azzerate. Il perdono per legge impediva la legge del perdono.

Questo volle il Presidente Kirchner: azzerarle e rimettere la verità seduta al fianco della giustizia. Nessun perdono, nessun oblìo di Stato per i carnefici, che furono invece perseguiti e condannati dai tribunali. I burocrati della dittatura uscirono di scena. Le madri e le nonne di Plaza de Mayo divennero le star del nuovo film che commuoveva l’Argentina.

Anche sul piano dei rapporti internazionali Kirchner seppe dare una svolta impensabile fino ad allora: alla vigilia del suo insediamento, dopo aver annunciato il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba, mandò a dire agli Stati Uniti che i rapporto auspicabile tra Washington e Buenos Aires era un rapporto di vicinanza, ma non di complicità. “Vogliamo avere un rapporto, ma non carnale” disse con una battuta esemplificativa l'allora neo presidente argentino.

Che non si limitò a ristabilire la giusta distanza tra le due capitali, ma coinvolse l’Argentina nel processo d’integrazione regionale economica e politica con il blocco democratico latinoamericano. Schierò l’Argentina con il Gruppo dei 22 che al vertice di Cancun misero con le spalle al muro le pretese coloniali europee. Si battè contro l’Alca e contribuì alla nascita dell’Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane) della quale fino a ieri era, non a caso, Segretario Generale.

E proprio disobbedendo ai diktat del FMI e della Casa Bianca per obbedire alle necessità dell’Argentina, Nestor Kirchner tracciò una rotta successivamente seguita da sua moglie, Cristina Fernandez, attuale presidente, anzi Presidenta. Si vociferava di un suo possibile ritorno alla Casa Rosada, rilevando Cristina nel 2011, nonostante la pareja presidencial avesse smentito a più riprese l’ipotesi della staffetta familiare. Aveva lasciato la presidenza nel 2007.

Legato fortemente alle altre democrazie progressiste del continente, Kirchner é stato protagonista assoluto della riscossa latinoamericana. Ecuador, Bolivia, Uruguay, Cile e Paraguay hanno già annunciato la presenza dei rispettivi presidenti alle esequie di Stato e Brasile e Venezuela hanno proclamato tre giorni di lutto nazionale. Il Cono sud ha perso uno dei suoi attori principali e la sovranità argentina ha perso l’uomo che l’aveva inaugurata. Questo fu Nestor Kirchner: un grande Presidente per un grande Paese.

di Mario Braconi

E’ pieno di sussiego il modo in cui il portavoce del Pentagono ha risposto a Sabrina Tavernise ed Andrew Leheren del New York Times che gli chiedevano un commento sulle torture e gli abusi patiti dai sospetti terroristi in Iraq, certificati dai documenti messi in circolazione in queste ore da Wikileaks: “le policy americane sugli abusi nei confronti dei prigionieri sono sempre state coerenti con la legge e le consuetudini internazionali”. Non c’è però, nella risposta, il riferimento alla circolare del 29 aprile 2005, etichettata USA MNCI FRAGO 039.

Secondo quest’ordine di servizio, in caso di abusi commessi da iracheni su altri iracheni, i soldati americani non avrebbero dovuto effettuare ulteriori indagini a meno che nelle violenze fossero coinvolti degli Americani o che tale supplemento investigativo fosse richiesto da un superiore organismo facente capo alla Difesa.

Formalmente, dunque, solo le autorità irachene avevano autorità per intervenire nei casi di tortura a carico di connazionali in prigionia; nei fatti, però, l’ordine di servizio era una scorciatoia: per rendere più collaborativi gli “insorgenti” più riottosi - quelli, per intenderci che con le “buone” non parlavano - si poteva consegnarli ai “colleghi” iracheni, alcuni dei quali erano veri “specialisti”.

MNCI FRAGO 039 è in effetti la traduzione in manuale operativo del Donald Rumsfeld-pensiero: indicativa a questo proposito è la trascrizione della conferenza stampa del 29 novembre del 2005, presenti Rumsfeld e il Generale Peter Pace, capo degli Stati Maggiori Riuniti. Alla domanda di un giornalista, Pace risponde: “Se uno dei nostri uomini è testimone di un comportamento disumano, ha il dovere di intervenire per porvi fine”. Rumsfeld replica, senza il minimo imbarazzo: “Non credo che tu ti riferisca all’obbligo di farlo cessare, quanto a quello di riferirne ai propri superiori”. Il Generale puntualizza: “Signore, se i nostri soldati sono fisicamente presenti mentre viene perpetrata una tortura, sono obbligati ad intervenire per farla cessare”.

In effetti, sembra che alla fine il pragmatismo amorale dell’allora Segretario alla Difesa abbia avuto la meglio. Non solo gli americani erano in grado di ignorare le torture commesse dagli iracheni sui loro connazionali, ma potevano subappaltare ad alcuni di loro quel lavoro sporco ritenuto proficuo anche se a rischio di qualche spiacevole danno di immagine (vedi caso Abu Graib).

I documenti pubblicati da Wikileaks parlano di almeno 6 prigionieri che, nella città di Samarra, sono stati “passati” dalle truppe americane alla Brigata Lupo, il famigerato Secondo battaglione delle forze speciali del ministero degli Interni. E’ il penoso risultato del tentativo di usare gli scampoli della guardia repubblicana di Saddam Hussein per terrorizzare i ribelli antiamericani: un gruppetto di simpatici ragazzoni in divisa, passamontagna, occhiali da sole e berretti rossi con una brutta fama di torturatori ed assassini di sospettati. Ufficialmente, la consegna dei prigionieri era finalizzata a consentire ulteriori interrogatori, ma nei fatti si è trattato in molti casi di una specie di subappalto della tortura.

I documenti riservati svelati da Assange e soci su quanto accadeva a Samarra non fanno che confermare quanto a suo tempo riferito dal giornalista Peter Maas in un dettagliato reportage pubblicato dal New York Times il primo maggio 2005 (“La Salvadorizzazione dell’Iraq?”).

Racconta Maas di come la sua intervista a James Steele (“consulente” degli iracheni e a suo tempo capo dei 55 “esperti americani” che formavano gli squadroni della morte in El Salvador) sia stata interrotta dalle urla di dolore e di disperazione di un prigioniero di cui i discepoli di Steele stavano abusando.

Tanto è il terrore che incutono gli uomini della Brigata Lupo, che spesso gli ufficiali americani incaricati di condurre gli interrogatori usano la minaccia di un deferimento al corpo di élite iracheno come spauracchio per ammorbidire anche gli insorgenti meno collaborativi.

I documenti di Wikileaks stanno facendo rumore anche in Gran Bretagna, dove si segnala il differente atteggiamento del Ministro della Difesa, che ha stigmatizzato l’operato di Assange ritornando sulla nota accusa secondo cui i documenti riservati pubblicati costituiscono un pericolo per i soldati inglesi in Iraq.

Diverse le dichiarazioni del vicepremier liberal-democratico Nick Clegg, il quale, almeno a parole, non sembra disponibile a fare sconti nemmeno ai “nostri ragazzi che combattono laggiù”: “Può anche indispettirci il modo in cui sono state diffuse queste informazioni, ma qui si parla di accuse gravissime: qualsiasi elemento possa far sospettare un mancato rispetto delle regole o un atteggiamento omertoso sui casi di tortura, va considerato con la massima serietà ed analizzato”. Speriamo che alle parole seguano i fatti.

 

 

 

di Michele Paris

Da qualche settimana a questa parte, sui media di mezzo mondo si rincorrono le voci di colloqui di pace in corso tra il governo afgano di Hamid Karzai ed esponenti anche di alto livello della resistenza talebana. Mentre da Kabul già da tempo si cerca di costruire un percorso verso una complicata riconciliazione con le forze che combattono l’occupazione occidentale, gli americani hanno sempre vincolato qualsiasi ipotesi di dialogo al successo dell’offensiva militare.

Per questo motivo, le recenti conferme del via libera di Washington ai colloqui hanno fatto pensare ad un possibile cambiamento di strategia della Casa Bianca e del Pentagono. La prospettiva di un Afghanistan pacificato, allo stato attuale delle cose, appare tuttavia ancora molto lontana.

L’insediamento di un consiglio di pace (jirga) voluto dal presidente Karzai ai primi di ottobre nella capitale afgana era stato il primo segnale concreto lanciato ai talebani. Qualche giorno fa, poi, un resoconto del New York Times ha confermato la presenza a Kabul di guerriglieri di medio rango, i cui movimenti dai loro rifugi in Pakistan verso la capitale sarebbero stati facilitati proprio dalle forze NATO. Secondo quanto rivelato da un ufficiale afgano al reporter del Times, Dexter Filkins, un velivolo della NATO avrebbe addirittura trasportato alcuni leader talebani dal confine pakistano a Kabul.

L’inversione di rotta degli Stati Uniti, confermata pubblicamente dallo stesso numero uno delle forze occidentali in Afghanistan, generale David Petraeus, appare estremamente significativa. Washington, infatti, si era mostrata sempre piuttosto tiepida nei confronti delle iniziative di pace promosse da Karzai, evidentemente allarmato all’idea di un futuro senza la protezione americana. Se anche l’amministrazione Obama riteneva possibile o auspicabile in linea teorica un riavvicinamento con i talebani, i presupposti dovevano comprendere l’abbandono per questi ultimi della lotta armata, la rinuncia a qualsiasi legame con Al-Qaeda e il rispetto della nuova costituzione afgana.

Nessun dialogo era invece da prevedersi con i vertici talebani, primo fra tutti con il Mullah Omar. L’obiettivo pressoché inattuabile, insomma, era quello di convincere i quadri talebani ad integrarsi in un governo totalmente asservito agli interessi americani, ovviamente tramite qualche sostanzioso incentivo. Dall’altra parte della barricata, al contrario, qualsiasi ipotesi di accordo non poteva prescindere dall’immediato ritiro dal territorio afgano delle forze di occupazione.

Ancora più sorprendentemente, le discussioni in corso a Kabul comprenderebbero alcuni membri della cosiddetta “shura di Quetta”, l’organizzazione talebana di stanza nell’omonima città del Pakistan che guida la resistenza contro gli occidentali in Afghanistan, e il gruppo integralista comandato dalla famiglia Haqqani. Con questi due gruppi, gli Stati Uniti avevano escluso qualsiasi genere di contatto nel recente passato.

Il presunto nuovo atteggiamento degli americani secondo alcuni coincide anche con le dimissioni del generale James L. Jones dall’incarico di consigliere per la sicurezza nazionale e l’arrivo a fianco di Obama del suo vice, Tom Donilon. Quest’ultimo pare generalmente più scettico verso la strategia raccomandata dai vertici del Pentagono lo scorso anno e che prevedeva il consistente aumento del contingente militare in Afghanistan. Vicino al vice-presidente Joe Biden e attento ai malumori di molti democratici al Congresso circa la stallo afgano, Donilon si schiererebbe così tra i membri dell’amministrazione Obama che intendono spingere per un ritiro delle truppe a partire dal luglio del prossimo anno.

Al di là dell’importanza simbolica, le discussioni si trovano per ora ad uno stadio preliminare. La diffidenza rimane notevole da entrambe le parti e sono numerosi i fattori che minacciano anche solo l’avvio di un dialogo produttivo. Tanto per cominciare, non è ancora del tutto chiara la posizione e nemmeno il peso decisionale effettivo all’interno delle rispettive organizzazioni dei talebani che hanno accettato di incontrare i rappresentanti del governo Karzai. Allo stesso modo, è tutt’altro che scontata la disponibilità americana a fare concessioni di qualsiasi genere a coloro che più irriducibilmente si oppongono alla presenza in Afghanistan di contingenti militari stranieri e che mai accetterebbero di sottostare ad un governo fantoccio agli ordini di Washington.

L’incognita maggiore è rappresentata però dal Pakistan, il cui rapporto con le varie fazioni talebane e i gruppi di guerriglieri islamici che trovano rifugio entro i propri confini è a dir poco contraddittorio. Proprio il già citato gruppo degli Haqqani, ad esempio, nonostante le smentite ufficiali, opererebbe sotto la protezione del potente servizio segreto pakistano (Inter-Services Intelligence, ISI). A loro volta, nell’impervia regione del Waziristan del nord, gli Haqqani ospitano alcune cellule di Al-Qaeda attive da entrambi i lati del confine.

L’influenza esercitata dal Pakistan - o meglio, da alcuni centri di potere pakistani - sui gruppi islamici che operano in Afghanistan rende dunque improbabile il buon esito dei colloqui in corso a Kabul. Tanto più che l’intenzione di Karzai sarebbe proprio quella di escludere Islamabad dalle discussioni con i talebani, in quanto tramite questi ultimi il Pakistan aspirerebbe ad estendere il proprio ascendente sul futuro governo afgano. A conferma di ciò, ad inizio anno le forze di sicurezza pakistane avevano arrestato 23 leader talebani, tra cui il numero due della “shura di Quetta”, il Mullah Abdul Ghani Baradar, presumibilmente per essere entrati in contatto in maniera indipendente con il governo Karzai.

Come non bastasse, malgrado le cronache dal fronte afgano raccontino di un’offensiva negli ultimi giorni da parte delle forze NATO nella roccaforte talebana di Kandahar, le forze di resistenza dopo nove anni di guerra hanno a poco a poco esteso le proprie operazioni in molte aree del paese, provocando gravissime perdite tra gli alleati occidentali. Con le sorti del conflitto a loro favorevoli, molto difficilmente i talebani saranno disposti a cedere terreno ai loro nemici.

In definitiva, l’annunciato nuovo corso di un’America pronta ad appoggiare il dialogo tra i padroni di ieri dell’Afghanistan e quelli attuali è ancora tutto da verificare. La possibile riconciliazione s’intreccia infatti indissolubilmente con la “exit strategy” statunitense da un pantano che da tempo non lascia ormai più intravedere una soluzione all’altezza delle aspettative iniziali. Le sorti delle operazioni belliche, il ruolo che potrà giocare il Pakistan e, non da ultimo, l’umore di un’opinione pubblica americana sempre più stanca della guerra, decreteranno nei prossimi mesi la praticabilità di un percorso di pace che per ora si presenta ancora tutto in salita.

di Carlo Musilli

Incidenti causati dalla polizia locale, stragi ai posti di blocco americani, torture disumane nelle carceri. Più di 109 mila morti, di cui oltre 66 mila civili. Uno scempio consumato fra il 2004 e il 2009. Fino a venerdì scorso, il mondo non ne sapeva nulla. A tre mesi dalla pubblicazione dei file segreti sull’Afghanistan, torna a farsi sentire la voce di Wikileaks. Il sito internet creato dall’australiano Julian Assange stavolta punta il dito contro l’altra guerra degli Stati Uniti, quella in Iraq.

Nei 400 mila nuovi documenti sottratti al segreto militare si ricostruiscono operazioni sconosciute e incidenti insabbiati, con tanto di date e coordinate geografiche. Soprattutto, si dà l’elenco completo delle vittime. Nomi e cognomi dei morti, anche di quelli buttati nelle fosse comuni. Gli Stati Uniti avevano sempre negato di tenere un registro dei civili uccisi. Mentivano, ora quel registro è su internet.

Il nuovo materiale pubblicato è frutto del lavoro coordinato di Wikileaks, New York Times, Washington Post e associazioni di attivisti come “Iraq Body Count”. Alcune rivelazioni del dossier sono state anticipate dalla tv araba al-Jazeera, che ha costretto Assange ad organizzare di corsa una conferenza stampa a Londra. “Vogliamo correggere la verità - ha detto il fondatore di Wikileaks - questi documenti rivelano sei anni di guerra in Iraq con dettagli dal terreno. Le truppe sul territorio, ciò che vedevano, facevano e dicevano”. Parliamo di “un numero di vittime cinque volte superiore all’Afghanistan”.

Fra le atrocità rivelate, le più impressionanti sono quelle sulle torture inflitte ai prigionieri. Uomini frustati, appesi a ganci, fulminati da scariche elettriche, violentati sessualmente. Gli abusi sono confermati dai referti sanitari. Almeno sei persone sono morte in questo modo per mano dei soldati iracheni. Sevizie che continuarono indisturbate anche dopo lo scandalo di Abu Ghraib, nel 2004.

Migliaia poi le vittime di esecuzioni sommarie. Gli Stati Uniti sapevano, ma hanno scelto il silenzio. Anche quando hanno appreso che i poliziotti loro alleati avevano amputato tutte le dita a un prigioniero, per poi scioglierle nell’acido davanti ai suoi occhi. Secondo il New York Times, su alcuni episodi gli americani hanno svolto delle indagini, ma la maggior parte delle segnalazioni è stata semplicemente ignorata.

Il dossier degli orrori rivela anche che i soldati americani erano soliti usare civili iracheni come “apripista”. Vale a dire, li mandavano avanti sulle strade e sui campi infestati dalle mine antiuomo. Tra i casi specifici, quello dell’elicottero Apache: lo stesso mezzo da guerra coinvolto nell’uccisione di due giornalisti della Reuters, documentata da Wikileaks in estate, avrebbe ucciso con raffiche di mitragliatrice due miliziani iracheni che si erano già arresi.

Il sito di Assange svela alcuni particolari perfino sulla morte di Nicola Calipari, l’agente italiano del Sismi ucciso nel 2005 da un soldato americano ad un checkpoint vicino Bagdad. In macchina con lui c’era Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto sequestrata e da poco tornata in libertà. Nei file di Wikileaks è riportato l’interrogatorio cui i servizi segreti giordani hanno sottoposto Sheik Husain, ex leader della cellula di Al Qaeda a Bagdad. Husain avrebbe rivelato che per la liberazione di Sgrena sarebbe stato pagato un riscatto di 500 mila dollari.

Lui stesso, dopo aver incassato il denaro, avrebbe telefonato al ministero dell’Interno iracheno, dicendo che la macchina su cui la giornalista e Calipari viaggiavano verso l’aeroporto era imbottita d’esplosivo. Un motivo sufficiente a far premere il grilletto di un marine. Ma un particolare non torna ed è quello del colore della macchina: nei nuovi documenti si parla di una Chevrolet blu, ma Calipari è morto in una Toyota Corolla bianca.

Quali reazioni ha suscitato tutto questo? Le più prevedibili in assoluto. “Nessuna sorpresa - secondo il ministro dei Diritti Umani di Bagdad - avevamo già dato notizia di molte cose che sono accadute”. Anche il Pentagono sceglie il low profile, cercando di minimizzare: “Molti episodi - si legge in una nota - erano stati a suo tempo ampiamente riportati in servizi di cronaca”.

Il segretario di stato Hilary Clinton, invece, opta  per la seconda soluzione retorica normalmente usata contro il giornalismo di guerra, condannando “la divulgazione di documenti che mettono a rischio la vita di soldati e cittadini americani”. Forse non si sono accorti della contraddizione. Se non è uno scoop, perché dovrebbe mettere in pericolo qualcuno?

di Carlo Musilli

Si chiama Edl, Engish Defence League. È un movimento xenofobo nato in Inghilterra circa un anno fa e piace tanto a naziskin e hooligan. Ha una forte base territoriale e fa della violenza sulle strade il suo principale strumento diplomatico. Il programma politico non poggia su grandi architetture filosofiche. In sostanza, sono nemici dell’Islam.

A sentir loro, non sono affatto razzisti. Non se la prendono a priori con il Corano, anche perché probabilmente non l’hanno mai letto. Dicono di essere contro il fondamentalismo e, soprattutto, contro il famigerato processo d’islamizzazione che minaccia la cultura occidentale. Un’ossessione che ultimamente serpeggia dalla Svezia all’Olanda, dal Belgio all’Austria, fino agi Stati Uniti. In questi paesi gli xenofobi sono già riuniti in forze politiche rilevanti, se non di governo. Ma attivisti di estrema destra fremono anche in Francia, Germania e Svizzera.

Sfruttando il vento favorevole, l’Edl inglese ha in progetto di creare una forza islamofoba continentale. L’acronimo resterà lo stesso, cambierà solo il significato della prima lettera: si chiamerà European Defence League. Il nuovo movimento vedrà la luce il prossimo 30 ottobre, quando si concluderà il processo per incitamento all’odio razziale contro Geert Wilders, capo della destra ultraconservatrice olandese e autentico guru dell’anti-islamismo. Difficile immaginare un leader più carismatico di lui per la nuova formazione.

In attesa della palingenesi europea, gli inglesi dell’Edl stringono i rapporti con i cugini statunitensi del Tea Party, un partito che si colloca a destra dei repubblicani più assatanati e che avrà un ruolo di primo piano alle prossime elezioni americane di medio termine (suoi i candidati in Delaware e nello stato di New York). Nati dalla rabbia che la crisi economica ha generato, quelli del Tea Party hanno inizialmente sfogato il loro becero populismo mediatico contro le grandi banche e l’amministrazione che le ha salvate.

Ora che Goldman Sachs e Citybank non fanno più notizia, i nazionalisti hanno spostato il mirino su un altro bersaglio facile: i mefistofelici islamici. Quest’estate, la controversa vicenda della moschea a Ground Zero ha dato loro un’altra grande occasione di cavalcare l’onda dell’emotività popolare e di allargare la propria base di consenso oltre ogni limite immaginabile.

Proprio ad articoli infuocati contro la moschea deve la sua notorietà (e, chissà come, la sua credibilità) Pamela Geller, la blogger di New York che, secondo un’inchiesta del settimanale britannico The Observer, sarebbe il tramite principale fra il Tea Party e l’Edl.

La donna ha incontrato a Manhattan i leader del partito inglese e ha scritto su internet di condividerne “l’ideologia”. A loro volta, i razzisti inglesi hanno espresso sincera ammirazione nei confronti di Pamela e della sua santa crociata.

Non solo, l’Edl ha anche invitato a Londra il rabbino Nachum Shifren, impetuoso oratore del Tea Party, che nella terra della regina dovrebbe tenere una conferenza sulla Sharia dai toni prevedibilmente non morigerati.

Naturalmente, tutte queste smancerie hanno anche una spiegazione economica. Se è vero che il Tea Party è finanziato dai dollari dei milionari americani ultraconservatori, la nuova alleanza potrebbe consentire all’Edl di investire maggiori risorse nel reclutamento e nell’attivismo.

Ma questi ragionamenti elementari forse sono già dei sofismi per gli standard degli attivisti Edl. Per capirne davvero lo spirito, occorre vederli all’opera. Due settimane fa, col volto coperto dalla santissima croce di S. Giorgio (protettore dell’anonimato?) hanno costretto la polizia di Leicester, cittadina inglese con una nutrita enclave musulmana, alla più grande operazione negli ultimi 25 anni.

In seguito ad una manifestazione cui il ministro degli Interni aveva negato l’autorizzazione, si sono scontrati con 13 squadre delle forze dell’ordine e con gli acerrimi nemici di Unite Against Fascism, un’organizzazione di estrema sinistra. Alcuni portavano cartelli e striscioni con scritto “La legge della Sharia distruggerà la Gran Bretagna e tutti i nostri valori britannici”. Evidentemente, vogliono pensarci loro.
 


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