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di Michele Paris
Dietro indicazione del già potente presidente Mahinda Rajapaksa, il Parlamento dello Sri Lanka ha approvato a larga maggioranza una serie di modifiche costituzionali che aumentano considerevolmente l’autorità del governo, e permetteranno al Capo dello Stato di farsi eleggere per un numero indefinito di mandati. L’evoluzione del quadro politico singalese in senso autoritario fa seguito alla conclusione violenta della guerra civile con la sconfitta delle Tigri Tamil nel maggio 2009 e la successiva netta affermazione elettorale dello stesso Rajapaksa lo scorso mese di gennaio.
L’iter parlamentare con cui è stato adottato il 18esimo emendamento alla Carta Costituzionale rivela già di per sé la svolta autocratica in corso nel paese asiatico. Ben poco dei contenuti del provvedimento era stato rivelato pubblicamente prima del dibattito in aula. Un dibattito che è durato un solo giorno dopo che il governo, una volta ottenuto il via libera dalla Corte Suprema, aveva presentato la legge costituzionale come provvedimento urgente da approvare in tempi rapidi.
Secondo l’ordinamento dello Sri Lanka, per approvare modifiche alla Costituzione è necessaria una maggioranza formata dai dei due terzi dei parlamentari. Nonostante il partito del presidente (Alleanza per la Libertà e l’Unità del Popolo, UPFA) disponga di 144 seggi su 225 dell’intera assemblea, la proposta di modifica ha ottenuto ben 161 voti a favore grazie ad alcune defezioni dai partiti di opposizione dopo settimane di trattative più o meno segrete.
L’attuale Costituzione singalese era stata introdotta nel 1978 ed è già caratterizzata da una forte connotazione presidenzialista. Il sistema di contrappesi del sistema politico è stato poi regolarmente indebolito dai vari presidenti che si sono succeduti negli ultimi tre decenni. Da più parti, dunque, si chiedeva addirittura l’abolizione dello stesso presidenzialismo, promessa fatta anche da più di un presidente e puntualmente disattesa una volta che il candidato otteneva la carica, poiché spesso le maggioranze parlamentari non consentivano di raggiungere i due terzi dei seggi in Parlamento.
Grazie ad una costante occupazione di tutte le sfere del potere in Sri Lanka, a Rajapaksa è riuscita invece ora l’operazione opposta, garantendo ancora maggiori poteri ad un presidente che gode già di ampie facoltà, come quelle di dissolvere il Parlamento dopo solo un anno dalle elezioni, assumere il controllo di qualsiasi ministero e dichiarare lo stato di emergenza.
Due sono stati i più importanti cambiamenti costituzionali voluti da Rajapaksa. Il primo prevede l’abolizione della sezione 31, vale a dire la soppressione del limite dei due mandati presidenziali di sei anni ciascuno. Il tetto al numero di mandati è un accorgimento diffuso nelle democrazie presidenziali per evitare che la mancanza di avvicendamento in una carica così potente possa condurre a derive autoritarie.
Il problema è particolarmente grave nello Sri Lanka, in quanto a partire dall’introduzione del presidenzialismo nessun Capo di Stato in carica alla ricerca del secondo mandato è stato sconfitto in un’elezione. Ciò perché la carica, tra l’altro, permette il controllo della macchina dello Stato per pilotare l’esito del voto. Grazie alla nuova Costituzione, così, Mahinda Rajapaksa potrà correre indefinitamente per la presidenza una volta terminato il suo secondo mandato nel 2016.
La seconda importante modifica rappresenta ancora più chiaramente un attacco a ciò che rimaneva del sistema di controllo dell’Esecutivo. Con un emendamento introdotto nel 2001, ad un Consiglio Costituzionale era stata affidata la facoltà di approvare la nomina di giudici, procuratori, membri di commissioni indipendenti e anti-corruzione, con lo scopo di limitare l’autorità presidenziale. Il 18esimo emendamento sostituisce ora il Consiglio Costituzionale con un Consiglio Parlamentare, guidato dal Presidente del Parlamento, il nuovo organismo non avrà però potere vincolante per le importanti nomine, a totale discrezione del Presidente.
Grazie a quest’ultima modifica, Rajapaksa potrà scegliere liberamente propri uomini da piazzare nella magistratura e ai vertici di delicate istituzioni, praticamente garantendosi la possibilità di politicizzare ogni istituzione democratica del paese e influendo pesantemente sull’esito delle prossime tornate elettorali.
Per il Presidente e il partito di governo i cambiamenti introdotti si sono resi necessari per garantire stabilità al sistema e sviluppo economico al paese dopo il lungo conflitto con la minoranza Tamil nel nord del paese. Una necessità particolarmente sentita in vista del crescente malcontento popolare che si annuncia con la prossima adozione di misure di austerity, come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale che ha erogato quest’estate un prestito allo Sri Lanka di 2,6 miliardi di dollari.
Per i pochi oppositori rimasti, al contrario, i provvedimenti costituzionali non servono ad altro che ad assicurare la perpetuazione del potere di Mahinda Rajapaksa e di quella che sta diventando una vera e propria dittatura familiare. Se il presidente è già direttamente responsabile di 78 istituzioni nel paese, non è infatti l’unico Rajapaksa ad occupare posizioni di potere in Sri Lanka. I fratelli Gotabhaya e Basil sono rispettivamente ministro della Difesa e dello Sviluppo Economico. Un altro fratello, Chamal, è l’attuale presidente del Parlamento, mentre il figlio di quest’ultimo, Shashindra, è il Presidente della popolosa provincia di Uva nel sud del paese.
Il consolidamento del potere di Mahinda Rajapaksa è dovuto in parte anche ad un’opposizione sempre più debole e frequentemente ben disposta verso le lusinghe del partito di governo. Metodi repressivi per spegnere ogni segnale di resistenza hanno fatto il resto, come si è reso conto il principale contendente del presidente nelle più recenti elezioni, l’ex generale e membro del Parlamento Sarath Fonseka.
Esecutore principale dell’annientamento della resistenza Tamil lo scorso anno, Fonseka si era a poco a poco allontanato da Rajapaksa fino a correre per la presidenza nelle file dell’opposizione singalese. Uscito sconfitto dal confronto elettorale, Fonseka venne arrestato, privato di tutte le sue cariche militari e sottoposto alla corte marziale con la minaccia di essere condannato alla pena capitale. Una sorte che verosimilmente verrà riservata a quanti si opporranno all’uomo forte destinato a dominare per molto tempo la scena politica dello Sri Lanka.
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di Mario Braconi
Andy Coulson, giornalista di tabloid divenuto, appena quarantenne, spin doctor del Primo Ministro britannico, sta creando qualche imbarazzo a David Cameron: secondo il quotidiano britannico Guardian, poco più la metà delle 2.000 persone interpellate per un sondaggio su YouGov tra il 6 e il 7 settembre, ritiene che Coulson dovrebbe dimettersi dall’incarico. Il caso Coulson, nel mirino per una vicenda d’intercettazioni illegali, svela l’esistenza di una fitta rete di relazioni patologiche tra industria dell’informazione, mondo politico e polizia in Gran Bretagna.
La nostra storia inizia l’8 agosto del 2006, quando gli investigatori di Scotland Yard si presentano negli uffici del settimanale News Of the World con due mandati di arresto a carico di Clive Goodman (giornalista esperto in questioni relative alla Corona britannica) e di Glenn Mulcaire (un investigatore della testata): i due sono accusati di essersi procurati illegalmente un accesso alla casella vocale dei cellulari in uso alla Casa Reale.
Secondo la dettagliata ricostruzione dei fatti del New York Times della scorsa domenica, a casa di Mulcaire la polizia trovò, registrati su bloc notes e sulle memorie di due computer, quasi tremila numeri di cellulari di persone celebri e 91 PIN delle relative segreterie telefoniche. Al capo dell’Antiterrorismo di Scotland Yard venne recapitata una lista di celebrità intercettate da Goodman e Mulcaire lunga dieci pagine, assieme alle prove che il metodo di lavoro dei due costituiva non tanto un’eccezione quanto una pratica consolidata nella redazione di News of the World.
Eppure la polizia decise di incriminare solo Goodman e Mulcaire, che vennero condannati a diversi mesi di reclusione per intercettazione illegale oltre ad essere allontantanati dal giornale. Se vi fosse qualche dubbio sull’atteggiamento non particolarmente aggressivo della polizia in questa inchiesta, un importante ufficiale della Metropolitan Police (MET) ha dichiarato al New York Times, che non vi era “alcuna intenzione di fare pulizia una volta per tutte nel settore dei media britannici”.
Ai tempi dello scandalo delle intercettazioni illegali sulla famiglia reale, Andy Coulson è il rampante direttore di News of the World di Rupert Murdoch, dove è approdato dopo essersi fatto le ossa qualche anno sulla colonna dello spettacolo di The Sun un altro tabloid popolare, sempre di Rupert Murdoch. La condanna di Goodman e Mulcaire lo obbliga a rassegnare le dimissioni: del resto, un redattore di News Of the World ha raccontanto al New York Times che Coulson parlava apertamente del ricorso alle cosiddette “arti oscure” al fine di reperire materiale utile a confezionare scoop (intercettazioni sulle segreterie telefoniche, ricorso a talpe nella polizia, presso le compagnie telefoniche, dentro gli ospedali eccetera...). Di fatto il suo stile di gestione della redazione, incline a fornire ai lettori quello che desideravano e disinvolto quanto al rispetto della legge e della deontologia, più che un limite costituiva un incoraggiamento a ricorrere a mezzi illegali.
Il primo round finisce con un happy ending: Goodman e Mulcaire fanno causa a News of the World, ottenendo un congruo rimborso monetario; il giornale è salvo, dato che le pratiche disinvolte delle sue redazioni rimangono nascoste da una cortina fumogena innalzata dalla polizia, apparentemente decisa a non andare troppo a fondo con l’inchiesta. Quanto ad Andy Coulson, dopo le dimissioni dal NoW viene assunto come capo delle comunicazioni del Partito Conservatore: la nomina di un uomo di Murdoch nella sancta sanctorum dei Conservatori è il suggello della nuova alleanza tra il partito e il magnate australiano, che alle recenti elezioni britanniche ha deciso di appoggiare i Conservatori mettendo in campo la sua artiglieria mediatica.
Ma una volta resi noti i nomi delle vittime delle intercettazioni illegali di Mulcaire, si apre il capitolo delle cause milionarie: il Guardian, testata progressista e visceralmente avversa a Murdoch, rivela a luglio del 2009 che il solo accordo extragiudiziale di NoW con Gordon Taylor (capo della Professional Footballer’s Association, vittima di un’intercettazione che avrebbe rivelato una sua presunta relazione con un’assistente) è costato al giornale circa un milione di sterline.
Con l’occasione, il Guardian propone ai suoi lettori alcune domande scomode: 1) è giusto che una persona come Coulson, nella migliore delle ipotesi moralmente responsabile di reati contro la privacy (sono stati intercettati anche parlamentari, cosa illegale in Gran Bretagna dal 1689), occupi un posto così importante? 2) è ammissibile che i manager di una delle società di Murdoch abbiano mentito alle sedute delle varie commissioni d’inchiesta che hanno indagato sullo scandalo? 3) per quale ragione la MET non ha fatto indagini approfondite sui telefoni oggetto d’intercettazione pur essendo in possesso di tutte le informazioni rilevanti dopo aver smascherato Goodman e Mulcaire?
Scrive Robert Reiner sul Guardian, che vi sono almeno un paio di insegnamenti da trarre da questa vicenda: prima di tutto emerge un rapporto tra stampa e polizia dominato dalla paura quando non da vero e proprio servilismo (specie nei confronti delle testate di Murdoch). Sembra inoltre che il potere non riesca ad apprezzare i vantaggi della trasparenza, specie se confrontati con gli effetti boomerang che si producono quando una vicenda insabbiata viene riportata alla luce come in questo caso. Infine, il fatto che il direttore di settimanale scandalistico dai modi “disinibiti” diventi responsabile comunicazione di un partito che poi vince le elezioni è eloquente del tipo di politica che “paga” ai giorni nostri - anche dall’altro lato della Manica.
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di Carlo Musilli
Diversamente dalla maggior parte dei crociati del millennio scorso, questo triste ladruncolo voleva solo tirar su qualche soldo. Ha dedicato tutta la vita a turlupinare il prossimo e, dopo decenni di gavetta, ce l’ha fatta. Alla fine ha sfondato. Niente scudo crociato né cotta di maglia, solo un paio di baffoni alla Hulk Hogan e un bel cannone infilato nella fondina sotto il doppiopetto dozzinale. Il motto però è quello originale del medioevo: “Dio lo vuole!”. Visto così sembrerebbe soltanto un idiota. In realtà, è un idiota che ha messo in allarme Pentagono, Interpol e diplomazie di mezzo mondo.
L’arzillo vecchietto dal nome anonimo, Terry Jones, a metà estate ha finalmente avuto l’idea che cercava da anni. Seguendo la moda di battezzare con un nome altisonante anche le giornate più squallide, il suo cervello ormai avvezzo al marketing religioso ha partorito il “Coran burning day”. Gli sporchi infedeli saraceni vogliono costruire una moschea a Ground Zero? E Terry gli brucia il Corano in piazza. Anzi, per l’occasione convoca pure in pompa magna i cinquanta fedeli del suo benemerito “Centro Mondiale (addirittura) della Colomba”. Una setta di gente per bene che ha deciso di combattere il fanatismo con un bel rogo vecchia maniera. Inutile star qui a sottilizzare.
Per cercare di capire come un essere umano possa arrivare a questo punto, evitiamo di ricorrere alla sociologia da supermercato, anche se ci starebbe benissimo. Concentriamoci sulla biografia. In origine Terry commercia macchine usate in Florida. Poi capisce che per fare i soldi veri é il caso di trovare un business più sicuro. Così abbandona i rottami e comincia a vendere la parola di Dio. Si trasferisce in Germania, vicino Colonia, dove mette su un bel tempietto. Un centinaio di anime presta orecchio al Predicatore, che dal pulpito si scaglia implacabile contro gli immigrati turchi.
Terry convince perfino i fedeli più ingenui a cedere tutti i loro beni alla “Ts Enterprise”, la sua azienda. Alla fine però, il gregge si accorge che il suo Pastore si intasca le elemosine. Addio sogni di gloria, per ora. Abbandonato da moglie e figlia, Terry torna in Florida. Tutt’altro che scoraggiato, si lancia sul nuovo progetto “della Colomba”. Sfogliando il “manuale del buon bigotto”, dà fondo a tutto il repertorio: gay, aborto, ispanici. Per diversi anni la sua parola fustigatrice cambia bersaglio, ma i proseliti continuano a scarseggiare. Poi viene fuori la vicenda del centro islamico a Ground Zero, e Terry si sfrega le mani.
Probabilmente nemmeno lui immaginava di fare un botto così grande. È il caos internazionale. Capi di stato e ministri degli esteri si mettono in contatto con Obama, sospesi fra la sincera indignazione e il serio timore che l’alzata d’ingegno di uno sparuto imbecille della Florida possa causare una nuova pioggia di attentati e rivolte. Arrivano messaggi da Pakistan, Iraq, India, Indonesia. Ahmadinejad, che per un po’ si è visto rubare la scena, dà il suo contributo alla pantomima accusando Israele di aver architettato tutto. In Afghanistan muore perfino un uomo durante una violenta protesta davanti a una base Nato.
Ci mancava solo questa per il Presidente Obama, che in questo periodo di pensieri ne avrebbe già a sufficienza. Il bello è che, in concreto, non può fare nulla. Terry è tutelato dal granitico primo emendamento della Costituzione Usa, che giustamente non prevede deroghe alla libertà d’espressione in caso di cialtroneria. Bisogna convincerlo con le buone: “Bruciare il Corano vuol dire reclutare nuovi terroristi per al Qaeda - ha detto il Presidente in tv - aumenterebbe il rischio di attacchi suicidi in America, in Europa, di violenze diffuse in Pakistan e in Afghanistan”. Poi, riferito a Terry, ha aggiunto: “Spero che stia ascoltando e capisca quanto è distruttivo il gesto che vuole compiere, è contrario ai valori di noi americani” e, ancora, nel discorso per l’11 settembre “non siamo in guerra contro l’Islam”, “siamo tutti americani”. Un appello arriva anche da superman-Petraeus, il generale a capo delle forze in Afghanistan, che implora Terry di lasciar perdere. Il pastore riceve perfino una telefonata da Robert Gates, nientemeno che il segretario alla Difesa degli Stati Uniti.
Dopo aver sentito la voce di Dio, evidentemente, Terry ha sentito anche voci più convincenti. E si è persuaso. Forza ragazzi, rimettete a posto fiaccole e cherosene. Tuttavia, il finale di questa commedia grottesca non ci tradisce. L’autore ha un’ultima trovata. Terry ripete alla stampa di aver desistito dopo aver ricevuto garanzia da parte dell’imam di New York, Feisal Abdel Rauf, che la nuova moschea non sarà costruita accanto a Ground Zero. La risposta dell’imam è abbastanza chiara: “Mai preso accordi o conosciuto quel cialtrone”.
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di Michele Paris
Con una vergognosa sentenza, qualche giorno fa un tribunale federale americano ha bocciato una causa intentata da cinque vittime delle cosiddette “deportazioni straordinarie” contro il governo americano e una compagnia aerea privata. Il verdetto rappresenta una chiara vittoria per il presidente Obama, il quale, nonostante i proclami durante la campagna elettorale del 2008, aveva da subito seguito le orme del suo predecessore nell’ambito della sicurezza nazionale. A prevalere è stato il “privilegio” del segreto di Stato, invocato per bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa legale nei confronti dei metodi illegali adottati nella lotta al terrorismo a partire dall’11 settembre 2001.
La controversia legata alle “extraordinary renditions” dirette dalla CIA era iniziata nel maggio del 2007, quando l’American Civil Liberties Union (ACLU) aveva presentato un esposto per conto del cittadino etiope legalmente residente in Gran Bretagna, Binyam Mohamed, e di altri quattro presunti terroristi, tra cui il marocchino naturalizzato italiano Abou Elkassim Britel. Tutti e cinque, tra il 2001 e il 2003, erano finiti nella rete dei servizi segreti americani e condotti illegalmente in carceri di paesi come Marocco, Egitto e Afghanistan, dove avrebbero subito ripetute torture durante gli interrogatori.
La denuncia era rivolta in particolare alla compagnia privata di trasporto Jeppesen Dataplan, appaltatrice del Pentagono e consociata della corporation Boeing, accusata di aver fornito supporto logistico al personale della CIA occupandosi dei voli intercontinentali che trasportavano i sospettati di terrorismo. Che i vertici della Jeppesen fossero a conoscenza dello scopo dei “voli della tortura” era stato rivelato, tra l’altro, da un articolo del New Yorker, dove si rendeva conto di una riunione interna alla società durante la quale un dirigente sosteneva candidamente: “Noi ci occupiamo di tutte le deportazioni straordinarie, sapete, i voli della tortura. Perché, ammettiamolo, alcuni dei voli hanno questo scopo”.
Pur non essendo chiamata in causa dall’azione legale dell’ACLU, l’amministrazione Bush nel 2007 era immediatamente intervenuta, sostenendo che il processo doveva essere impedito per non mettere in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nel febbraio del 2008 la richiesta dell’allora presidente americano venne accolta. L’ACLU presentò tuttavia ricorso e in attesa della nuova sentenza un nuovo inquilino si era insediato alla Casa Bianca.
Suscitando la sorpresa di quanti si attendevano uno stop alle aberrazioni del post-11 settembre, il nuovo Ministro della Giustizia (Attorney General) nominato da Obama, Eric H. Holder, assunse la medesima posizione dell’amministrazione Bush nel caso “Mohamed contro Jeppesen Dataplan, Inc.”. Il caso, cioè, andava liquidato sulla base del segreto di Stato. Nell’aprile del 2009 i tre giudici della Corte federale d’Appello del Nono Circuito di San Francisco si espressero però contro il governo americano. Secondo il giudice Michael D. Hawkins la dottrina del segreto di Stato in questo procedimento non aveva “alcun fondamento logico”.
Sotto le pressioni dell’establishment militare e dei servizi di sicurezza, preoccupati per la possibile rivelazione dei legami tra agenzie governative, intelligence di paesi stranieri e vertici di alcune corporations legate al Dipartimento della Difesa, che hanno fatto affari partecipando a programmi illegali di tortura, l’amministrazione Obama chiese un nuovo parere di tutti gli undici giudici (“en banc”) che compongono il Tribunale d’Appello di San Francisco. Il risultato è stato alla fine il recentissimo verdetto, ottenuto con una risicata maggioranza di sei a cinque, che ha annullato la sentenza precedente del giudice Hawkins.
Secondo il giudice Raymond C. Fisher, autore della sentenza, il procedimento ha posto un “doloroso conflitto tra i diritti umani e la sicurezza nazionale”. La decisione della maggioranza dei giudici ha stabilito che il caso in questione presenta una rara circostanza nella quale la “necessità del governo di proteggere segreti di Stato va al di là del diritto degli attori di ottenere udienza in un’aula di tribunale”.
Se il ricorso al segreto di Stato non rappresenta certo una novità per i governi americani, in passato esso era stato invocato per lo più al fine di impedire nel corso di un processo di accedere a singoli documenti o prove specifiche che potevano teoricamente mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Con le ultime due amministrazioni, invece, il segreto di Stato è diventato il pretesto per sopprimere interi procedimenti legali, con il risultato che il potere esecutivo rende impossibile a quello giudiziario di esprimersi sulle proprie responsabilità e i propri crimini.
Il colpo di spugna sulle responsabilità per le “extraordinary renditions” volute dall’amministrazione Obama e concesso da una corte considerata tra le più progressiste degli Stati Uniti - il giudice Fisher è un ex dipendente del Dipartimento di Giustizia, nominato da Bill Clinton nel 1999 - rivela chiaramente il più o meno aperto consenso di tutto il sistema americano alla virata profondamente anti-democratica che ha segnato l’ultimo decennio dall’altra parte dell’oceano.
Sparite in fretta le illusioni del cambiamento, Obama e il suo staff hanno presto fatto capire che i responsabili degli eccessi della lotta al terrorismo non avrebbero dovuto rispondere alla giustizia, né i metodi autoritari di chi li ha preceduti alla Casa Bianca sarebbero stati messi in discussione, se non tramite trascurabili provvedimenti di facciata. Sotto l’autorità del presidente democratico le deportazioni illegali sono proseguite, così come gli assassini mirati in paesi esteri di sospettati di terrorismo senza alcun fondamento legale e, di contro, sono stati impediti i ricorsi dei detenuti in Afghanistan senza processo.
Di fronte alla sentenza, l’ACLU ha dichiarato di volersi appellare ora alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale potrebbe così tornare ad esprimersi sui limiti del segreto di Stato dopo oltre mezzo secolo. La composizione della Corte, guidata dall’ultraconservatore John G. Roberts, non permette tuttavia di sperare in un rovesciamento del verdetto della Corte federale californiana.
I precedenti del tribunale costituzionale americano negli ultimi anni minacciano piuttosto un ulteriore consolidamento dei poteri dell’esecutivo in materia di sicurezza nazionale ed una nuova stretta autoritaria che già rappresentano l’eredità più pesante degli attacchi dell’11 settembre.
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di mazzetta
Il 12 settembre la Turchia andrà ad un referendum relativo a una serie di modifiche costituzionali che avvicineranno lo stato turco alle democrazie europee. Il fatto che a promuovere le riforme ci sia il partito “islamico” al governo, ha offerto ai partiti dell'opposizione il pretesto per gridare all'islamizzazione dello Stato. Ma si tratta di riforme a lungo attese, perché destinate a rimuovere alcune anomalie nella Costituzione scritta nel 1982 dai militari che, con un golpe, avevano preso il potere nel 1980.
La storia moderna della Turchia è fatta di ripetuti interventi dei militari nella politica del paese. I militari si considerano custodi della laicità dello Stato e dell'impronta kemalista sulla Turchia moderna; ma è più che evidente che negli anni il collante ideologico che ha tenuto insieme lo “stato profondo” turco si è indebolito molto e che superiori interessi economici hanno spinto la Turchia verso la rimozione di queste vistose anomalie.
In realtà lo stato profondo in Turchia è tutt'altro che sconfitto, l'emergere dello scandalo di Ergenekon (una rete clandestina simile alla Gladio italiana, ma molto più attiva ed efficiente) ha messo in luce l'esistenza di progetti golpisti ben oltre il 2000 e l'esistenza di nocciolo duro che non si rassegna all'idea di una democrazia turca che non sia tenuta sotto scacco da quella che negli anni è diventata una specie di mafia.
Una mafia partecipata da parti della burocrazia statale e dell'esercito, che agiscono insieme alla criminalità organizzata e politica per manipolare il livello di tensione nella società, al fine di promuovere disegni che con la democrazia hanno ben poco a che fare. Attività che si coronano con il controllo del sistema giudiziario, platealmente intimorito e reticente quando si tratta di giudicare i militari o gli scandali più eclatanti.
Le riforme costituzionali mirano principalmente a trasferire il potere di nomina di alcuni giudici al Parlamento, all'introdurre il diritto allo sciopero e ai contratti collettivi per i dipendenti pubblici e, elemento non irrilevante, revocano l'immunità garantita agli autori del sanguinoso golpe del 1980 Golpe che oltre a fare una strage traghettò la Turchia nel mare aperto del mercato globale, di fatto allineando il paese alla visione economica di Reagan. Molti anni più tardi i partiti vicini ai golpisti perderanno il potere, sprecando un grande vantaggio di consensi in inconcludenti inciuci mafiosi e spianando così la strada agli “islamici” dell'AKP. Oggi alle opposizioni non resta molto altro da fare che gridare al pericolo islamico, visto che i sondaggi sembrano sostenere la speranza di una vittoria robusta per i referendum voluti dal governo.
Il potere in questo caso non sembra logorare Erdogan e il suo partito, le opposizioni sono divise e troppo lontane tra loro per sperare di diventare maggioranza. Oltre ai partiti che si richiamano alla “turchità” si oppongono ai referendum i due partiti curdi: quello legale e quello dichiarato fuorilegge, che ha il proprio leader imprigionato in una fortezza su un'isola da quando il governo italiano non decise unirsi a quello turco nel ritenerlo un “terrorista”. Per i curdi le riforme costituzionali non prevedono spazi per le loro richieste d'autonomia e quindi la nuova costituzione é da respingere.
Non che non traspaia un certo autolesionismo da una posizione del genere, soprattutto considerando che la Costituzione, così com'è, rende molto più dure le ipotesi di reazione dello Stato turco alle intemperanze dei curdi e che a difendere lo status quo sono in prima fila proprio quei militari che hanno usato i curdi per decenni, massacrandoli a piacimento. I curdi sembrano al momento intenzionati a sfruttare la frattura tra Turchia e Israele e sembrano godere d'improvvisa popolarità sui media occidentali.
Della “questione curda” non si sentiva parlare da quando i curdi furono “liberati” da Saddam, anche se ai turchi e agli iraniani fu concesso di bombardare l'Iraq per combatterli meglio (ma questo non lo ha detto nessuno). Oggi invece emergono accuse di “crimini di guerra” contro l'esercito turco; il timing somiglia alla storia dei curdi gassati da Saddam in grazia d'Occidente, che poi diventano un capo d'accusa quando Saddam piace di meno.
A giudicare sono sempre quei paesi che hanno armato sia la Turchia che l'Iraq ed è facile prevedere che i curdi rischieranno per l'ennesima volta di fare la fine dei vasi di coccio tra quelli di ferro. Il governo Erdogan è sembrato più dialogante con loro, ma non è riuscito a frenare i militari e nemmeno a darsi la forza di supportare l'introduzione dell'autonomia curda nella Costituzione. Il problema di Erdogan è tutto nel riuscire a conservare il consenso che ha guadagnato e per farlo sembra disposto a più di un compromesso; l'agenda del suo governo ha poco per l'Islam, molto per i grandi capitali e per l'aspirazione all'ingresso nella UE dalla porta principale.
In questa chiave, più nazionalista che prettamente “islamica”, è forse opportuno leggere l'attivismo diplomatico della Turchia, anche se le iniziative prese per porsi come mediatore nella questione iraniana e risolutore dell'assedio di Gaza non hanno fruttato grandi applausi all'estero, e in patria sono stati letti come manifestazioni d'orgoglio e di rilevanza da parte del paese. Azioni volte a tranquillizzare chi pensa alla difesa della “turchità” e a sottrarre ossigeno e militanti all'estrema destra nazionalista, quella capace di far uccidere il sacerdote italiano don Santoro solo per creare scompiglio e permettere ad altri estremisti della destra europea di gridare al pericolo islamico.
Strategia della tensione, provocazioni fin troppo evidenti ed elementari che però non mancano di sortire effetti a largo raggio, ben oltre il Bosforo. Se il referendum passerà, la Turchia sarà un po' più vicina all'Europa e alla democrazia, anche se qualcuno dirà che è un passo verso la sua islamizzazione. Quella che in Turchia dicono che è inevitabile se si toglie il potere ai militari, e quella che in Europa dicono di temere, senza mai citare il problema posto dall'esistenza e dalle pessime azioni dei nazionalisti turchi e dell'inquietante “stato profondo”.
Una strana asimmetria, perché l'Europa delle cancellerie parla dei problemi di democrazia posti dal potere dell'esercito turco, mentre le opinioni pubbliche sono invece orientate a vedere la questione dal punto di vista del temibile ingresso in Europa di milioni di musulmani turchi. Che però in Europa (e nella Nato e in tutto il resto) ci sono già, anche se non hanno il bollino blu.