di Michele Paris

Con l’approssimarsi delle elezioni di medio termine, i nodi centrali del dibattito politico negli Stati Uniti sono sempre più dettati dalla destra e da un Partito Repubblicano in odore di rivincita dopo le sconfitte degli ultimi quattro anni. L’incapacità del presidente Obama e del partito di maggioranza, di capitalizzare un’avversione diffusa nel paese verso il sistema delle corporation e dell’alta finanza che ha condotto l’economia americana sull’orlo del baratro, è d’altra parte la diretta conseguenza delle contraddizioni interne al Partito Democratico stesso e la causa principale del successo di movimenti ultraconservatori come il Tea Party.

Il prossimo 2 novembre gli elettori americani saranno chiamati a rinnovare tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti e ad eleggere 37 nuovi senatori, oltre che a scegliere numerose altre cariche locali. Secondo i più recenti sondaggi, i repubblicani hanno buone possibilità di riconquistare il controllo del Congresso - dove i democratici hanno attualmente una maggioranza di ben 75 seggi - mentre è più difficile pensare ad un ribaltone al Senato, dove pure l’opposizione dovrebbe recuperare terreno.

Il malcontento popolare scatenato dalla crisi economica iniziata nell’autunno del 2008, assieme all’insofferenza per George W. Bush e la guerra in Iraq, aveva permesso ai democratici di conquistare un’ampia maggioranza al Congresso degli Stati Uniti. L’entusiasmo suscitato dalla promessa di cambiamento di Obama aveva così alimentato le speranze di cambiamento e fatto intravedere un possibile futuro contrassegnato da una maggiore giustizia sociale nel paese.

In meno di due anni dall’ingresso alla Casa Bianca, Obama e la sua maggioranza democratica hanno invece saputo produrre soltanto delusione, alienandosi la maggioranza dei lavoratori americani, dei giovani e dell’elettorato liberal che avevano contribuito al trionfo elettorale del 2008 e che ora diserteranno in gran pare le urne.

Costantemente costretto sulla difensiva, il Partito Democratico si è dimostrato incapace di fornire una soluzione adeguata alla crisi sociale in cui versano gli Stati Uniti, in quanto paralizzato dalla contraddizione tra la pretesa di continuare a rappresentare la classe media e la realtà di una politica costantemente rivolta alla difesa dei grandi interessi economici e finanziari. Un’incoerenza che negli ultimi decenni ha determinato lo spostamento del baricentro democratico sempre più a destra e il sostanziale dissolvimento di una qualsiasi rappresentanza politica per le fasce più basse dell’elettorato americano.

Questa evoluzione dello scenario politico statunitense ha fatto in modo che il disagio sociale trovasse un qualche sbocco pressoché esclusivamente a destra, in primo luogo tramite il populismo dei numerosi Tea Party che sono sorti in ogni parte del paese nell’ultimo anno e mezzo. Queste ultime formazioni - nate come reazione contro il salvataggio delle banche dell’amministrazione Bush, il piano di stimolo all’economia e la riforma sanitaria di Obama - pur presentandosi con una impronta anti-establishment, sono in realtà coordinate da esponenti vicini al Partito Repubblicano e al mondo degli affari.

Personalità come Sarah Palin o l’anchorman di FoxNews, Glenn Beck, guidano un movimento che combina la retorica populista dell’uomo comune alla crociata anti-governativa che si oppone ad una fantomatica deriva verso il socialismo promossa dall’amministrazione Obama. Così incanalata, la rabbia della classe media sconvolta dai cambiamenti economici e sociali dell’America moderna non si rivolge verso i reali responsabili della perdita di milioni di posti di lavoro o della crescente diseguaglianza sociale, vale a dire le grandi corporation e i poteri forti che controllano il processo politico, bensì verso gli odiati liberal e i loro media, gli immigrati e, soprattutto, un governo federale in grado soltanto, dal loro punto di vista, di aumentare le tasse e di gonfiare il deficit.

In questo contesto è sorto il “Giuramento per l’America”, l’assurda piattaforma politica interamente pro-business presentata recentemente dal Partito Repubblicano in vista delle elezioni di medio termine. Cavalcando la protesta contro il presunto aumento incontrollato delle spese federali, puntualmente alimentata dai principali media d’oltreoceano, il manifesto repubblicano richiama in maniera esplicita il “Contratto con l’America” del 1994, che garantì al partito la riconquista della Camera, e promette sostanzialmente di ridurre il deficit pubblico con provvedimenti che lo aumenterebbero vertiginosamente, come l’estensione dei tagli alle tasse voluti da Bush per tutte le fasce di reddito.

Sotto l’influenza dei Tea Party, il Partito Repubblicano ha così anch’esso svoltato ulteriormente a destra, mettendo all’angolo i candidati più moderati che in una manciata di elezioni primarie hanno subito pesanti e inaspettate sconfitte. Le vittorie più clamorose sono arrivate nelle ultime settimane, quando, grazie all’appoggio dei Tea Party, Joe Miller in Alaska, Sharron Angle in Nevada e Christine O’Donnell in Delaware hanno conquistato le nomination per i rispettivi seggi al Senato, liquidando i candidati centristi dell’establishment repubblicano.

Galvanizzati da questi successi, i Tea Party e gli altri gruppi formati da attivisti conservatori hanno immediatamente riversato le loro risorse su molte altre competizioni a livello nazionale nella speranza di incidere in maniera decisiva sull’esito delle elezioni per il Congresso. Se molti di questi candidati hanno spesso un curriculum a dir poco discutibile e risultano oggettivamente troppo radicali per attrarre il voto degli elettori indipendenti e moderati, è anche vero che la stampa e le televisioni americane stanno amplificando a dismisura il peso dei Tea Party, offrendo loro un’esposizione mediatica straordinaria.

Pur senza raccogliere nel paese indici di gradimento migliori di quello Democratico, il Partito Repubblicano il prossimo novembre finirà in ogni caso per incassare una vittoria elettorale che, secondo alcuni, potrebbe addirittura tradursi in un trionfo. Con un’economia ancora in affanno ed un quadro politico soffocato da un sistema bipartitico totalmente delegittimato, quei pochi americani che si recheranno alle urne voteranno soprattutto per impartire una lezione ai politici che hanno servito a Washington in questi ultimi anni.

A farne le spese saranno così i democratici che hanno avuto la maggioranza al Congresso senza riuscire a tradurla in una autentica politica progressista che pure sembrava raccogliere vasti consensi nel paese. Le eventuali divisioni all’interno del Partito Repubblicano prodotte dall’emergere dei Tea Party potranno forse attenuare la disfatta democratica, come credono in molti, ma qualche seggio in più o in meno alla fine per Obama e i suoi non cambierà la realtà della chiara bocciatura che li attende a due anni di distanza da una vittoria elettorale che aveva illuso l’America e il mondo.

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