di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è concluso in questi giorni un altro capitolo della storia decennale delle occupazioni illegali di Berlino. La polizia ha sgomberato Liebigstr 14, uno degli ultimi condomini occupati dell’ex-Berlino est, tra le violente proteste dei gruppi autonomi anarchici. Non resta che chiarire l’identità dei protagonisti di un fenomeno, quello delle case progetto abusive, che appare ormai quasi fuori luogo e fuori dal tempo: disadattati in cerca di violenza gratuita, o giovani che, per non rinunciare a un sogno, provano difendere con i denti un’utopia? 

Allo sgombero di Liebig 14 hanno preso parte 2’500 poliziotti, piazzati già dalle prime ore del mattino attorno al condominio e in tutto il quartiere; qualche giorno prima sono stati chiusi due asili e diversi negozi della zona per ragioni di sicurezza. Lo scontro diretto tra forze dell’ordine e gli inquilini è durato solo poche ore: nel primo pomeriggio di mercoledì, nel condominio di Liebig 14 era già tornato il silenzio. Non soddisfatti, gli autonomi hanno continuato a protestare violentemente nei quartieri circostanti fino a notte tarda. I giornali parlano di centinaia di migliaia di euro di danni, che qualcuno arriva a stimare in un milione. Senza dimenticare i 60 poliziotti feriti e le decine di arresti tra i manifestanti.

Occupata dal 1990, Liebig 14 era un’icona per i movimenti anarchici e antifascisti berlinesi, ma non solo. Numerose manifestazioni di solidarietà sono state organizzate anche a Copenhagen, Amburgo e Amsterdam, quasi a ribadire ancora una volta a gran voce una filosofia, quella delle occupazioni illegali, che appare in pericolo. Chi occupa vuole essere libero dagli obblighi e dalle convenzioni sociali per dimostrare che l’uomo sa portare avanti una convivenza pacifica e intellettualmente produttiva senza leggi. Lo scopo è costruire una vita di comunità al di fuori di regolamenti imposti dall’alto, al di là dallo schema di vita prefissato dalla società in cui viviamo. Ideologie che hanno vissuto il loro tempo, forse, e che, alla luce dei privilegi di cui godiamo nella nostra società, potrebbero apparire utopie senza senso. Eppure non è sempre stato così.

Le prime occupazioni abusive risalgono agli anni ’70: la finanza si stava preparando a trasformare Francoforte sul Meno (Sud della Germania) nella capitale dell’economia europea, ma a qualcuno il progetto non piaceva. Gli uffici scintillanti degli istituti bancari tedeschi avrebbero dovuto sostituire le vecchie abitazioni del centro storico.

Già era tutto scritto, eppure il movimento studentesco ha cominciato a occupare gli stabili proprio per provare a impedirlo. È stata una lotta vera e propria contro il nuovo sistema capitalista che considerava gli immobili alla stregua di oggetti di speculazione, senza tenere conto della necessità dei cittadini. Tra i giovani militanti di Francoforte, tra l’altro, c’erano alcuni futuri ministri del Bundestag, il Parlamento tedesco.

L’occupazione abusiva si diffonde poi in Germania per ragioni più concrete. Siamo all’inizio degli anni ’80 e nel Paese, come del resto in tutta l’Europa, abbondano i condomini vuoti in attesa di ristrutturazione: le agenzie cacciano gli inquilini per modernizzare gli stabili, ma li lasciano vuoti per anni aspettando i periodi più lucrosi per la vendita. Risultato? Tanta la gente senza casa, poche e costose le abitazioni rinnovate, centinaia e centinaia i condomini in rovina senza proprietari veri e propri. “Occupare per recuperare, piuttosto che possedere per lasciare andare in rovina”, hanno cominciato a gridare i giovani.

Il centro nevralgico delle occupazioni abusive in territorio tedesco è stata Berlino, forse proprio in ragione della sua storia travagliata. Nel 1981 la parte ovest della città contava ben 300 stabili occupati: gli effetti della seconda Guerra mondiale sono stati devastanti e l’attuale capitale tedesca ha impiegato molto tempo per risanarsi e riempire i vuoti, forse più di altre città.

Nei confronti delle numerose case occupate, la Berlino degli anni Ottanta ha adottato una politica di tolleranza che ha fatto storia, la cosiddetta “linea berlinese”: la polizia impediva con ogni mezzo le nuove occupazioni, ma tollerava le vecchie finché i proprietari non avessero richiesto espressamente lo sgombero. Nel frattempo si arrivava a patti tra gli inquilini “abusivi” e i proprietari. Da centinaia che erano, nel 1985 una malinconica Belino ovest contava 78 case “occupate”, i cui inquilini pagavano affitti simbolici ai proprietari.

Dopo la caduta del Muro sono state occupate un centinaio di case anche nei quartieri dell’ex-Berlino est,;una quantità non indifferente per cui la capitale riunificata ha rispolverato la “linea berlinese”. Liebig 14 era una degli ultimi immobili adattati dagli attivisti a progetto culturale ed è stata sgomberata dopo ventuno anni di occupazione proprio alla luce della richiesta dei nuovi proprietari.

Il centro di Berlino, così come già quello di altre metropoli prima di lei, sta diventando un territorio monotono, standardizzato e accessibile esclusivamente ai benestanti: per il suo carattere di città giovane ancora in evoluzione, i risultati della speculazione edilizia sono più visibili a Berlino che altrove, forse proprio perché ancora “in atto”.

Uno fra tanti, fenomeno sociologico per eccellenza, la gentrificazione. E non occorre essere d’accordo con il carattere a volte violento delle occupazioni illegali per notarlo e affermarlo. Eppure, il tempo ha mostrato che per cambiare il volto di una società non serve la violenza e non bastano le occupazioni illegali. Credere in un’utopia non è sbagliato: serve anche ad imparare a scendere a compromessi con la società per trasformarla in traguardo. Difenderla con i mezzi sbagliati, purtroppo, non porta a niente. Ma non basta, di per sé, a dichiararla sbagliata per principio.

 

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