di Giuliano Luongo

La chiusura del vertice dei G20 a Seul la scorsa settimana ha portato con sé il prevedibile carico di osservazioni, aspettative deluse e soprattutto di tentate previsioni per il futuro dei principali attori economico-politici coinvolti. Al centro delle attenzioni di analisti più o meno competenti, ci sono stati come da copione gli Stati Uniti e la Cina e le loro relazioni politiche ed economiche.

Prima di entrare nel vivo delle trattative non dobbiamo dimenticare che, come accade durante il più elitario G8, i partecipanti al meeting sono stati accolti dalla folla prevedibilmente non festante: ben diecimila manifestanti (ridotti a tremila nelle stime della pubblica sicurezza, che mostra un modus operandi comune dal Manzanarre al Reno) hanno espresso il loro dissenso nei confronti dei leader mondiali. Tra le loro fila hanno marciato studenti, rappresentanti di ONG, sindacalisti e privati cittadini in maggioranza sudcoreani, uniti al grido di “le persone non devono pagare per la crisi”.

Abbandonando questa parentesi sociale, si può tentare di dare uno sguardo al tentato progresso fatto nelle relazioni economiche est-ovest. Il primo accordo, che doveva andare in porto con relativa facilità, era quello tra i governi di Washington e Seul, intenzionati a portare avanti l’intesa commerciale nei settori automobilistico ed alimentare del 2007 per poi trasformarla in un accordo di libero scambio: i rispettivi ministri del commercio hanno percepito lo stallo in quanto incapaci di produrre un impegno reciproco che non danneggiasse troppo i rispettivi mercati interni del lavoro. La titubanza statunitense ha pesantemente contribuito a far impantanare il dialogo.

E veniamo alla Cina. Hu Jintao ha aperto il vertice cercando di creare un clima di generale benevolenza, aprendo ad una “nuova era di cooperazione con gli Stati Uniti”: questo si è tradotto nel semplice desiderio di un incontro “faccia a faccia” per discutere la pesante questione dell’ancoraggio della valuta cinese a quella americana ed i problemi che ne derivano direttamente. Come noto, non si tratta di una questione risolvibile senza il pieno consenso delle autorità cinesi, unici soggetti in grado di dare ordini alla Banca Centrale di questo paese.

La politica dello yuan debole è stata essenziale per favorire le esportazioni e per contenere allo stesso tempo la domanda privata per beni di consumo, in particolare quelli da importazione. Le critiche statunitensi si sono concretizzate in un generico invito ad un sistema dei cambi internazionalmente più liberista ed orientato al mercato, abbandonando questo sistema di cambi fissi autogestiti. Obama non è riuscito ad ottenere nulla di tangibile alla fine del meeting, se non la promessa per un incontro successivo sul tema in territorio americano per l’anno venturo.

Il secondo punto d’interesse ha riguardato il ruolo internazionale del dollaro: i rappresentanti dei paesi BRIC (Brasile in primis, stavolta) hanno fatto pressione per intavolare discussioni sul tema della sostituzione (almeno parziale) della valuta americana come unico intermediario degli scambi. Il discorso è caduto nel vuoto per l’ennesima volta, con l’interlocutore a stelle e strisce ben più preoccupato di risolvere esclusivamente la questione cinese.

Va comunque segnalato che il movimento congiunto dei BRIC verso questa decisione è comunque un evento d’interesse per misurare la compattezza del fronte delle nuove economie: sarà poi ancor più interessante vedere su quale nuova valuta di riserva internazionale convergeranno gli interessi dei BRIC, visto che nessuno di essi ha un moneta così forte ed universalmente accettata. Solo la Cina parrebbe avere aspirazioni simili, fondabili sul peso internazionale della sua politica monetaria: sono noti da tempo i progetti di una alternativa al dollaro da proporre, ad uno stato iniziale, limitatamente ai mercati asiatici, ma in ogni caso non sono stati ancora fatti progressi tangibili.

Ha fatto discutere la nuova proposta di controllo economico internazionale degli USA, che consisteva in un accordo per fissare il tasso annuo di crescita delle economie al 4%: una misura di protezionismo internazionale a dir poco assurda, che per avvantaggiare paesi incapaci di competere nel campo produttivo taglierebbe le gambe ai nuovi arrivati. Non pensiamo solo alla vertiginosa crescita in doppia cifra dei cinesi, ma anche un paese come la Germania, che ha risultati di poco superiori a questa soglia ipotizzata, subirebbe danni enormi: ne risentirebbe di conseguenza tutta la stagnante regione europea, che continua ad essere trainata dai tedeschi. La proposta non è stata comunque bocciata in toto, ma solo rimandata al prossimo meeting G20 l’anno venturo.

Tra i pochissimi punti d’intesa raggiunti a Seul, va segnalato l’affidamento al FMI di compiti di controllo sulla stabilità finanziaria dei paesi per lottare meglio contro gli squilibri internazionali assieme ad una magra promessa fatta dagli stati volta all’impedimento delle svalutazioni competitive.

Tirando le somme, non dobbiamo bollare il summit come il solito incontro di “transizione” che ha solo rimandato la soluzione di pesanti problematiche, ma possiamo vederlo come un primo banco di prova delle rinnovate relazioni economiche internazionali dopo il recente terremoto interno al FMI. A Seul gli Stati Uniti sono apparsi abbastanza grintosi, con proposte oggettivamente inapplicabili e pronti ad esigere pacatamente un dietrofront dei cinesi i quali, forti proprio delle conquiste in seno al Fondo (e del fatto di avere tuttora la morsa stretta sul debito americano), sanno di poter condurre il gioco in maniera più attiva della loro principale controparte.

Bisogna vedere come la Cina (e gli altri tre BRIC al seguito) riuscirà a gestire questo nuovo prestigio nei successivi incontri con gli Stati Uniti e gli altri partner: di fronte ad un governo di Washington che cerca ancora di esercitare un’influenza che va sfaldandosi, Pechino dovrà lavorare molto su alleanze nuove e vecchie per spostare con decisione l’ago della bilancia degli equilibri internazionali sul proprio territorio. I nuovi banchi di prova saranno i prossimi incontri APEC e le nuove dinamiche interne al FMI, in particolare riguardo le proposte di ricalcolo dei DSP.

 

 

 

 

 

 

 

di Ilvio Pannullo

La sintesi dell'ambiguità italiana è tutta nell’ "errore" del Financial Times del 12 novembre. Quando, sulle pagine del giornale cartaceo più letto da Wall Street, viene pubblicato un articolo dove si sostiene che i mercati obbligazionari stanno già scommettendo sulla bancarotta "delle tre economie più deboli della zona euro: la Grecia, l'Italia e il Portogallo". C'è anche il grafico che evidenzia i picchi di rendimento dei Btp decennali italiani rispetto ai Bund tedeschi, cioè quanto il debito pubblico italiano sia percepito come più rischioso di quello tedesco. Poi lo stesso articolo viene pubblicato sull'edizione on-line e, sorpresa, le tre economie europee più deboli sono indicate (correttamente) come Irlanda, Portogallo e Grecia. Niente Italia quindi.

Si tratta di un errore dunque o forse c'è qualcosa di più? Appare infatti ai più maliziosi qualcosa di più di un refuso; assomiglia a un lapsus freudiano. Perché l'Italia non sarà tra le tre economie più fragili, ma in molti cominciano a pensare che arrivi subito dopo. Anche ieri il differenziale di rendimento tra Btp e Bund ha toccato un nuovo record da quando esiste l'euro e, quindi, da quando i diversi debiti pubblici sono apprezzati nella stessa valuta, eliminando gli effetti del cambio di valuta: 1,91%, poi sceso di poco.

Segno che gli investitori sono un po' nervosi riguardo l'Italia che, sei mesi dopo il panico finanziario innescato dalla Grecia, sembra molto più fragile: nel mezzo di una crisi politica, con stime di crescita del Pil dimezzate rispetto a un anno fa (all'1% annuo, se tutto va bene) e che si scopre più fragile del previsto, tutta protesa nel decidere come spendere miliardi di euro con la correzione al maxi-emendamento alla finanziaria mentre gli altri paesi insistono con ulteriori risanamenti.

Un segnale concreto è arrivato dall'asta del 12 novembre dei titoli di Stato italiani. La domanda degli investitori è rimasta alta, ma è stato alto anche il prezzo di vendita: per i Btp a 15 anni, per esempio, i tassi da riconoscere ai sottoscrittori sono saliti dal 3,98% al 4,81%. Conseguenza: il macigno del debito pubblico da ieri è un po' più pesante da portare per l'economia italiana. Lato positivo: secondo le stime degli analisti di Unicredit, nel 2010 restano soltanto altri 10 miliardi di euro di debito da piazzare sul mercato. Quindi, almeno per ora, non ci sono grossi rischi. Ma è solo una tregua.

Il fondo europeo di salvataggio per gli Stati, come la Grecia ieri e l'Irlanda oggi, che faticano troppo a trovare credito a prezzi accettabili, scatterà solo per il debito emesso a partire dal 2013. La notizia è arrivata ieri a Bruxelles dal G20 di Seoul, dal quale la linea tedesca di rigidità estrema è uscita sconfitta ed ha riportato un po' di normalità: per ora sembra archiviata l'ipotesi del cosiddetto haircut, cioè l'idea che i detentori del debito pubblico di uno Stato in bancarotta vengano risarciti solo in parte dagli interventi di salvataggio, pagando quindi comunque un prezzo per aver sostenuto uno Stato sovrano attraverso l'acquisto dei suoi titoli pubblici.

In compenso, la Germania di Angela Merkel è riuscita a moderare un po' la linea americana al G20: dal comunicato finale del vertice sono scomparsi i riferimenti ai tetti ai surplus commerciali. Tradotto: visto che Washington vuole che la Cina esporti di meno ma non riesce a convincerla a rivalutare drasticamente lo yuan, la sua moneta sovrana, per rendere le sue merci più costose rispetto quelle americane, sperava di ottenere l'impegno a limitare volontariamente l'export. Invece niente: la Repubblica Popolare Cinese rimane l’unico soggetto a poter determinare la propria politica economica e monetaria.

Il G20 s'impegna solo a vigilare sugli eccessi di volatilità delle monete e a condannare le svalutazioni competitive. In pratica una disapprovazione ufficiale della politica monetaria degli Stati Uniti che continuano a stampare dollari per sostenere la propria economia, mettendo però a soqquadro il mercato delle materie prime che è (ovviamente) quotato in dollari e danneggiando le economie emergenti come il Brasile che vedono le loro monete rafforzarsi indebitamente rispetto al dollaro, così che i loro prodotti da esportazione diventano meno competitivi.

L'Italia, in tutto questo, si limita a fare da spettatore. E il Ministro degli Esteri Franco Frattini deve constatare: "L'impegno italiano di molti altri paesi contro le speculazioni internazionali è serio, ma c'è il problema sul regime dei cambi e come si è visto né gli Stati Uniti né la Cina sono in condizioni di risolverlo ora". L’unica sicurezza concreta per l'Italia è che l'Euro resta forte, scambiato a $ 1,37, nonostante le difficoltà di molti Stati dell'euro zona. Le esportazioni italiane, quindi, non vengono aiutate dal tasso di cambio, che le rende più costose sui mercati mondiali.

Il problema principale per l'Italia, infatti, resta quello della bassa crescita che, in prospettiva, rende più difficile sostenere il peso del debito. I parametri in base ai quali si decide oggi della vita e della morte delle nazioni sovrane sono infatti i rapporti debito/Pil (in Italia al 116%) e deficit/Pil (in Italia al 5,1%). Quindi se il Pil va giù il rapporto schizza alle stelle ed il nostro paese entra nel mirino degli speculatori.

Il Pil, dice l’Istat con gli ultimi dati, non crescerà più dell'1% nel 2010. E mentre il debito continua a crescere, le entrate si confermano in calo: -1,8%, dice Bankitalia nell’ultimo bollettino con il Tesoro che cerca come sempre di ridimensionare. Se a questo si aggiunge che dopo le prime analisi i tecnici della Camera stanno già mettendo in dubbio l'esistenza reale dei soldi che il governo vuole spendere con la finanziaria e che, elezioni o meno, c'è il rischio che la politica economica italiana resti congelata per molti mesi, si capisce perché, forse, quello  del Financial Times più che un refuso, somigli ad un'anticipazione.

di Ilvio Pannullo

Sono state diverse, ultimamente, le giornate difficili per i mercati. Piazza Affari di umore nero, perde nettamente più delle altre Borse continentali, complici alcuni spunti negativi e la debacle del comparto bancario, afflitto da alcune trimestrali non entusiasmanti e da rinnovati timori sul debito sovrano di alcuni paesi periferici. L'indice Ftse Mib cede il 2,41%, l'All Share il 2,15%. Ad innescare nuovamente la speculazione è la sua eccezionale redditività: sparare a zero sugli Stati e scommettere sul disastro è troppo vantaggioso. Chi può specula e vince, mentre il resto del mondo assiste impotente a questo gioco al massacro.

La storia è sempre la stessa: i mercati sono stati scoraggiati dalla speculazione sui titoli di Stato di alcuni paesi il cui debito pubblico è considerato troppo alto, come Portogallo, Grecia e Irlanda. A contribuire al clima da fine impero sono le politiche monetarie statunitensi. Le parole, infatti, sono importanti, soprattutto quando a pronunciarle sono i banchieri centrali.

La Federal Reserve americana ha deciso mercoledì 3 novembre di dare il via alla seconda ondata di “ quantitative easing". Il termine - di origine ovviamente anglosassone - si traduce in italiano con alleggerimento quantitativo ed indica la creazione di moneta da parte della banca centrale e la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto, cioè effettuate direttamente in borsa, nel sistema finanziario ed economico. È essenzialmente il processo attraverso il quale un istituto monetario aumenta la base monetaria attraverso la stampa (termine non esatto, dato che oggi l'immissione avviene in forma elettronica) di nuova moneta. I tecnocrati la considerano una politica monetaria non convenzionale. Nella realtà l’operazione rende esplicito il problema del cosiddetto reddito monetario, ossia il guadagno che un istituto autorizzato per legge ad emettere moneta può ottenere dalla mera stampa di banconote.

L'espressione, all'apparenza freddamente scientifica, nasconde l'ultima mossa disperata dell’establishment americano: la Fed comprerà i titoli del debito pubblico americano semplicemente stampando denaro, ossia attraverso lo sfruttamento grossolano del cosiddetto signoraggio bancario. Gli Stati Uniti potranno così mantenere il rapporto deficit/Pil al 13% (superiore a quello della Grecia) confidando nel fatto di potersi comunque indebitare a bassi tassi attraverso l'emissione di obbligazioni. Perché ci sarà sempre la Federal Reserve pronta a comprare. Non viene creata ricchezza con la produzione industriale, con l'edilizia o la fornitura di servizi. Si crea solo moneta per comprare debito. Un debito che non avrebbe ragione d’esistere se l’istituto di emissione fosse controllato dallo stesso governo, ma di questo problema si è già discusso in abbondanza e non interessa qui riaprire la questione.

Ciò che invece è opportuno sottolineare è che la Federal Reserve aveva già acquistato 1700 miliardi di dollari in titoli immettendo nel sistema altrettanta liquidità e si appresta ora a comprarne altri per un valore pari a 600 miliardi di dollari. Se ne deduce che in meno di tre anni negli USA si è stampato denaro per un ammontare superiore al Pil dell'Italia nell’anno contabile 2010. Una creazione di moneta che non ha precedenti nella storia, una misura "unconventional” come dice con un eufemismo il presidente della Fed Ben Bernake. La verità è che una simile misura non è mai stata testata e gli effetti che provocherà sono tutti da verificare. La cavia ovviamente siamo noi, le economie del resto del mondo.

Per ora la stampa eccessiva di biglietti verdi ha già portato il dollaro ai minimi rispetto alle altre valute, compreso l'euro. Sulla scacchiera i vari giocatori preparano le loro contromisure. La Corea del Sud si appresta a seguire Thailandia e Brasile nell'introduzione di misure che contengano il forte afflusso di moneta americana verso il proprio paese, cosa che provoca una valorizzazione eccessiva delle monete nazionali. I paesi emergenti sono in subbuglio.

Nella prima intervista pubblica, la neo eletta presidentessa brasiliana, Dilma Rousseff, ha detto quanto da molti pensato: "Non possiamo pensare che gli Stati Uniti facciano pagare i loro problemi a tutto il mondo attraverso la svalutazione del dollaro". Il prossimo G20 a Seul si annuncia dunque tempestoso, preludio di un ritorno a misure protezionistiche dagli esiti imprevedibili. L'Europa per il momento tace. Gli economisti tedeschi e inglesi sono molto più preoccupati dell'inflazione che questa massa di denaro può provocare piuttosto che dell'impatto immediato sui tassi di cambio.

Germania e Inghilterra hanno infatti inaugurato l'era dell'austerità estrema: hanno la fondata paura che questa massa incredibile di cartamoneta che si sta riversando nell'economia mondiale possa causare uno tsumami finanziario senza precedenti, che potrebbe scuotere dalle fondamenta la fiducia non solo nei governi ma nel sistema internazionale monetario. E’ dunque proprio per questo motivo che i tedeschi vogliono far passare a Bruxelles il principio che se un paese chiede un aiuto finanziario, i detentori dei titoli obbligazionari di quel paese "devono sopportare un sacrificio". Il riferimento alla Grecia è fin troppo esplicito: tutti sanno che nei prossimi tre anni il governo di Atene sarà costretto a ristrutturare il proprio debito e la Germania non intende offrire una garanzia in bianco ai creditori.

Inutile dire che nel giro di poche ore i titoli di Stato greci hanno perso il 20% del loro valore, ricacciando Atene nella quasi certezza del declino finanziario finale. L’Irlanda non gode di una salute molto migliore e deve pagare ai propri creditori un tasso quattro volte maggiore di quello tedesco, seguita a ruota dal Portogallo. Ma fino a quando questa situazione sarà sostenibile? I più pessimisti ritengono che fra poco più di un anno si vedranno gli effetti di queste politiche monetarie a dir poco spericolate e che ci troveremo di nuovo al centro della tempesta perfetta: crisi della fiducia negli stati, crisi della fiducia nella moneta ed inflazione alle stelle.

Insomma sembra già di sentire le sette trombe dell’apocalisse. Non sappiamo però se questo succederà davvero, ma il semplice rischio della catastrofe dovrebbe essere sufficiente per osservare più attentamente le politiche economiche di tedeschi e inglesi che, a differenza di altri, stanno prendendo la situazione molto sul serio.

E noi? L'Italia come sempre è ferma. In questo momento siamo bloccati sulla manovra finanziaria di luglio che appare sempre più insufficiente e inadeguata a fronteggiare i rischi che ci riserva il futuro. Il ministro dell'economia Giulio Tremonti, per ora, sembra non poter fare altro che arginare le richieste di spesa che gli arrivano dai colleghi di governo. Purtroppo per noi sembra non riesca neanche a delineare un piano strutturale che metta definitivamente al sicuro i nostri conti pubblici e ci preservi dai "rischi fatali" - per citare un suo libro di qualche anno fa - della globalizzazione economica e finanziaria. Appare semmai più preoccupato dell’ombra di Draghi, le cui proposte di regolarizzazione dei precari e di rilancio della domanda interna vengono insultate dal ministro con la proverbiale stizza da ragioniere isterico che lo contraddistingue.

L'inevitabilità della catastrofe la si può osservare cristallizzata nell'esito delle elezioni di medio termine recentemente perse dalla Presidente Obama. Con quel voto gli americani hanno lanciato al mondo il messaggio peggiore che potessero lanciare. Quello che ci comunicano è che loro vogliono continuare a fare come hanno sempre fatto e che non sono disposti ad indietreggiare dalla loro posizione di dominazione e dunque accettare una loro diversa collocazione nel mondo. Gli americani vogliono cioè continuare a scaricare i loro problemi sulle spalle del resto del pianeta, ma quello che l'America vuole non lo può più ottenere e questo, semplicemente, perché non sono più il centro del mondo. La grande questione aperta rimane questa: chi riuscirà a far capire agli americani che non è più possibile continuare su questa strada? L’impero sta raschiando il fondo del barile.

di Giuliano Luongo

Tutte le istituzioni internazionali, di livello più o meno alto, dalla maggiore o dalla minore consacrazione governativa, condividono una caratteristica peculiare: la rigidità, la scarsa adattabilità alle nuove sfide che si frappongono tra l’istituzione in questione ed i suoi scopi. Strano a dirsi, proprio il Fondo Monetario Internazionale, una di quelle meno reattive alle esigenze dei paesi che dovrebbe aiutare, ha recentemente cercato di invertire questo trend, almeno sulla carta, accettando la proposta di modifica dei poteri di voto all’interno della sua principale sede decisionale, l’Executive Board.

Il processo che pochi giorni fa è arrivato a questa tappa fondamentale è stato lungo e spesso apparentemente senza vere e proprie speranze. Il Fondo, erede della vecchia sovrastruttura del sistema di Bretton Woods, sentiva il bisogno di un cambiamento nei rapporti di forza interna da tempo immemore, a partire dal crollo del sistema che l’aveva visto nascere nel lontano 1976.

Sin dall’anno della sua istituzione, l’ancor più lontano 1944 (iniziò i lavori ufficialmente a dicembre ’45), il Fondo prende le sue decisioni tramite il citato Executive Board, composto da 24 membri, di cui cinque nominati dai cinque paesi membri con le quote di partecipazione più cospicue ed i restanti nominati dall’altro organo decisionale, il Consiglio dei Governatori, composto dai rappresentanti di tutti i paesi membri.

Per comprendere le dinamiche interne al Fondo, si ricordi che le decisioni vengono prese esclusivamente a maggioranza molto elevata (di solito all’85%) e che il voto è ponderato in base alla quota versata per la partecipazione all’organizzazione. In breve, decide il più “generoso”, che casualmente è anche il più ricco, che ancor più casualmente sono gli Stati Uniti. Il gruppo dei “grandi cinque” è stato sempre composto, accanto agli americani, da Francia, Gran Bretagna, Giappone e Germania: viste le quote, gli Stati Uniti hanno avuto sempre la possibilità di poter imporre un veto oggettivo ad una qualsiasi decisione prendibile dal Board, con il 16,74% dei voti ottenibili.

Accanto ad essi, l’Europa, in teoria, con un’azione coordinata, ha avuto per lungo tempo la possibilità di imporsi come secondo “membro” con potere di veto (32,07% dei voti totali in caso di intesa): ipotesi comunque alquanto difficile da raggiungere, salvo situazioni di grosso rischio per ampi interessi condivisi.

Il Fondo è stato dunque per larghissima parte della sua storia un ente diretto non solo formalmente dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati, che sotto la maschera di guardiano della stabilità economica mondiale si è reso di fatto il garante di noti equilibri geopolitici mantenuti a suon di dollari e finanziamenti a politici poco raccomandabili: inutile dire che una tale struttura di controllo non fosse assolutamente interessata a rivedere il proprio ruolo e soprattutto il proprio sistema di funzionamento. Un cedimento in tal senso avrebbe significato far retrocedere il sistema di controllo economico internazionale che con tanta fatica si era imposto.

L’arrivo degli anni ’90 ed i terremoti nelle relazioni internazionali con essi venuti, parvero segnare una nuova era nell’espansione del Fondo: l’accettazione delle politiche di liberalizzazione estrema per i paesi più poveri voluta dal Washington Consensus e le linee guida stilate sulla medesima falsariga consigliate ad i paesi usciti dal blocco sovietico, parvero consacrare l’influenza del FMI. Ed è proprio dal momento del suo apice apparente che l’ideologia liberista espansionistica dei cervelloni di Washington iniziò a perdere colpi: l’impoverimento progressivo dei paesi che avevano seguito i suoi consigli, lo sfascio economico della Russia e dei suoi (non troppo) ex-satelliti mostrarono la fragilità delle sue teorie.

Accanto a questo, l’esistenza stessa della Cina continuava a dare colpi alla struttura creata dal Fondo: il fenomeno delle economie asiatiche in crescita faceva capire come la balance of power interna all’organizzazione non era più efficace nel mostrare i rapporti di forza economici del mondo. Il crack dell’Argentina del 2001, grande pupillo dell’economia neo-con, è stato uno delle ulteriori prove del fiasco sia politico che teorico del Fondo. La recente ascesa dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) come leaders del movimento dei paesi di nuova industrializzazione, ha fatto capire che l’organizzazione doveva seguire una strada diversa.

Da metà degli anni 2000, sono state numerose le richieste giunte dal movimento più o meno organizzato dei paesi emergenti per una generale riforma della governance dell’istituzione: il Gruppo dei 20 ha fatto da navigatore in questo senso, grazie anche alla progressiva affermazione dei quattro BRIC come nuovo ago della bilancia dell’economia mondiale.

E’ dunque dall’ultima riunione dei G-20 tenutasi lo scorso anno a Pittsburgh che i paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione hanno progettato una riforma del sistema decisionale del Fondo, per far sì che la propria voce avesse più peso: la richiesta più importante era quella di ottenere lo spostamento del 5% dei voti nelle mani delle nuove economie. Questo avrebbe dovuto far sì che gli equilibri di forza interni all’organizzazione rispecchiassero maggiormente la realtà dei fatti economici.

Il lungo percorso delle trattative è giunto ad una svolta nelle ultime due settimane: l’Executive Board, infatti, ha dato il via libera alle richieste del sud del mondo. Evento definito come epocale dal Direttore Generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, il quale, sin dal momento del suo insediamento nel 2007, si è sempre mostrato favorevole ad una certa inversione di tendenza nella direzione dell’organizzazione. Sincero o meno, questo interesse verso una maggiore responsività alle esigenze della situazione economica internazionale ha finalmente trovato uno sbocco pratico.

Il gruppo dei “grandi cinque” è stato di fatto abolito: dieci seggi del board sono garantiti a Stati Uniti, Giappone, Brasile, India, Russia, Cina, più Germania, Regno Unito, Francia e Italia. Il Vecchio Continente vede fissato il numero dei suoi paesi a sette rispetto ai nove precedenti. Si concede il trasferimento del 6% dei diritti di voto dalle economie industriali a quelle dinamiche, tutelando i diritti di voto dei paesi meno abbienti (quelli con un reddito pro capite inferiore a 1135 dollari l’anno). Passa inoltre la riforma delle quote, che saranno raddoppiate (anche questo supera le iniziali richieste dei G-20). La Cina diviene il terzo paese per potere di voto all’interno dell’organizzazione.

L’operazione di riforma non sarà breve: si pensa alla metà del 2012 per l’ultimazione di tutti i dettagli, data in cui l’Europa dovrà decidere a chi sarà sottratta la sedia tra i suoi membri (si pensa ad esempio ad una rotazione tra Belgio ed Olanda).

Se è troppo presto per dire quanto questi cambiamenti saranno efficaci, bisogna comunque riconoscere la portata dell’evento: la vecchia élite ha accettato dei nuovi membri nelle sue file, ha fatto un passo indietro rispetto al nuovo mondo che avanza. Bisognerà di certo vedere in che misura questa evoluzione gioverà davvero alle “pedine” dell’economia mondiale o se, invece, ci troviamo davanti solo ad un parziale cambiamento di élite, utile solo ai diretti interessati. Di certo, non è tanto la liberalità europea a colpire. Colpisce che i BRIC siano riconosciuti finalmente come le nuove potenze economiche. E che le nuove potenze siano due economie pianificate, più una neo-socialista ed una in fervente ri-sovietizzazione.

 

 

 

 

 

di Mario Braconi

Quando si tratta di fare quattrini la fantasia umana sembra non conoscere limiti. Da questo punto di vista l’ultima frontiera è rappresentata dai sistemi di trading automatizzati conosciuti come “arbitraggi meccanici”: in parole povere, si tratta di un software che compra e vende sfruttando in modo automatico ogni minimo disallineamento dei corsi dei titoli sulle varie Borse.

Il concetto è sempre lo stesso: si tratta di scandagliare il mercato alla ricerca di qualche cosa (azioni, obbligazioni, derivati) che costi un po’ meno di quello che dovrebbe, per poi venderlo un secondo dopo tenendo un piccolo margine per sé. E’ una cosa che una macchina, molto più veloce a scovare possibili arbitraggi e immune alle defaillances emotive degli esseri umani, è in grado di fare molto meglio di una persona, che dovrebbe restare inchiodata davanti ad una serie di schermi a scrutare ogni minima variazione di prezzo per poi cliccare abbassare l’indice sul mouse per validare un “buy” o un “sell”.

Spesso i disallineamenti di prezzo sono irrisori, ma con questa metodologia, lavorando sulle numeriche (ovvero moltiplicando all’infinito il numero delle transazioni vantaggiose) si riescono a portare a casa milioni di Euro praticamente senza alzare un dito (o meglio senza collegare due sinapsi) e per di più facendo “del bene” al mercato, poiché - sostengono i fan dei mercati perfetti - grazie agli speculatori seriali i valori vengono riportati in equilibrio.

La variabile critica, qui, è il tempo: quando si comprano azioni o commodities per tenerle qualche secondo per poi rivenderle, un vantaggio anche solo di pochi decimi di secondo sui “competitor” fa davvero la differenza. A tutti coloro che hanno vissuto o subito il salto quantico tra il sano (e lento) mondo analogico e l’orgia di “digitalismo” nel quale viviamo immersi volenti o nolenti, viene naturale pensare, oggi, che grazie ai nostri giocattoli elettronici tutto avvenga in tempo reale. Ma, come sanno benissimo i fisici, la velocità alla quale viaggiano l’informazione e le transazioni che di essa si nutrono è limitata dalla velocità della luce. Insomma, esistono limiti fisici alla velocità di reazione di un sistema di trading automatizzato.

Una delle conseguenze di questo vincolo è che il concetto d’inevitabile contiguità fisica tra interlocutori (imprescindibile solo fino a qualche decennio fa, apparentemente obsoleto oggi) si impone di nuovo, e prepotentemente, alla nostra attenzione. Molti intermediari finanziari, infatti, proprio per ridurre i tempi di trasmissione degli ordini, spesso sistemano i propri server molto vicini a quelli della Borsa Valori sulla quale vogliono scambiare titoli - in alcuni casi, direttamente negli stessi locali (co-locazione delle macchine). Si noti, per inciso, come il libero mercato consenta ad alcuni operatori di essere “più uguali degli altri”, pagando qualche cosa per il disturbo, s’intende...

Quando però si parla di titoli trattati da più di un mercato regolamentato, è necessario trovare una collocazione fisica delle macchine che minimizzi la dispersione di tempo causata dalla trasmissione dei dati. E’ questo il senso della ricerca effettuata dal fisico Alex Wissener-Gross e dal matematico Cameron Freer (entrambi del MIT di Boston) e pubblicata sulla Physical Review E. I due scienziati hanno analizzato una cinquantina di borse valori mondiali, tracciando una mappa delle “zone” ideali dai quali si potrebbe operare in modo ottimale: si va da un punto nel bel mezzo dell’Oceano Indiano alle foreste remote del Canada o della Russia.

“Anche solo fatto di avere la sovranità su un particolare punto della terra, per quanto apparentemente sterile o inutilizzabile, insomma, potrebbe rivelarsi un asso nella manica” argomenta Wissener-Gross, “benché, riconosce, la gran parte dei punti ottimali siano in luoghi remoti e dunque non dotati delle infrastrutture necessarie a connettersi. Vi sono certo anche eccezioni, come ad esempio Los Angeles, in posizione strategica per ottimizzare le operazioni che transitano tanto su Tokio che su New York (sarebbe questo un modo per dare un senso a quella specie di città...).
 
Benché Wissener-Gross e Freer si dicano sicuri del fatto loro, al punto da affermare di essere già in contatto con numerosi intermediari finanziari per vendere loro la metodologia quantitativa alla base della pubblicazione del loro lavoro, non mancano voci critiche: come quella di Michael Kearns, esperto di finanza computazionale presso l’università della Pennsylvania di Philadelphia. Kearns ricorda che i punti ottimali costituiscono un eccellente esercizio teorico, che però ha il limite notevole di basarsi sull’ipotesi, invero molto irreale, che le informazioni circolino alla velocità della luce.

In verità, a meno che si disponga di un collegamento punto-punto in fibra ottica dalla postazione al trading floor della banca, i dati normalmente rimbalzano da un router all’altro viaggiando a velocità molto più basse anche nei casi più fortunati. Senza contare che la ricerca parla di un mondo perfetto (per la finanza) privo anche delle più elementari forme di regolamentazione - cosa che non accade nemmeno negli Stati Uniti, che dopo le batoste degli anni scorsi hanno per lo meno cercato di darsi qualche regola un po’ più seria. Insomma, sembra proprio che Wissener-Gross e Freer non abbiano (ancora?) trovato la pietra filosofale del trader.


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