- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Ilvio Pannullo
I 27 paesi dell’Unione Europea hanno recentemente raggiunto un'intesa su un fondo permanente per i paesi dell’area euro. Viene così solo parzialmente soddisfatta la richiesta della cancelliera tedesca Merkel: il presidente dell’eurogruppo Van Rompuy dovrà preparare un rapporto sulla "eventuale revisione" del Patto di Lisbona, un accordo nato già superato. Il momento è di quelli decisivi: si dovrà infatti sperare che i gruppi dirigenti degli Stati membri riescano a trovare la quadra per assicurare all’economia europea una comune ed equa gestione.
Davanti alla sempre più evidente crescita, in termini tanto economici quanto politici e militari, di paesi come il Brasile, la Federazione Russa, l’India e la Repubblica Popolare Cinese, con l’impero angloamericano in piena crisi di credibilità, un’Europa divisa da inutili ed anacronistici nazionalismi, non potrà infatti che crollare sotto il peso di una competizione ingiusta e brutale. Una sfida che, se giocata con le regole attuali, non potrà che essere persa.
La crisi americana, nata dallo scoppio dell’ultima bolla speculativa che ha travolto la credibilità di tutte le istituzioni finanziarie, nessuna esclusa, ha innescato un cambiamento negli assetti e nei rapporti internazionali oramai inarrestabile e per certi aspetti anche auspicabile.
Per recuperare la fiducia dei consumatori e dei mercati, chi ha potuto - quegli stati cioè che sono ancora nelle condizioni di poter controllare politicamente il settore bancario e la leva monetaria - è intervenuto stampando carta e massimizzando l’incidenza del debito sull’economia reale. In poche parole si è deciso, per salvare la faccia e il salvabile, di scaricare le disastrose conseguenze della scellerata gestione dell’economia sulle spalle di quelle giovani generazioni, che domani dovranno pagare con le proprie pensioni e i propri diritti sociali colpe di altri.
Recentemente, dopo il primo QE (quantitative easying) la Federal Reserve Bank ha deciso di stampare altri 600 miliardi di dollari da iniettare direttamente nella pancia di quegli istituti bancari ancora pieni di titoli strutturati, passando prima per l’acquisto di titoli del debito pubblico statunitense: quegli strumenti finanziari derivati che prima della crisi erano guardati dagli esperti del settore come l’ultima grande invenzione per la ripartizione del rischio, ora valgono meno della carta straccia. L’ennesima illusione.
Se i problemi sono comuni, purtroppo però non si può dire lo stesso delle soluzioni. Se l’impero può sopperire al crollo della credibilità del proprio sistema bancario e finanziario con la violenta credibilità delle proprie forze armate dislocate in tutti gli angoli del mondo, altrettanto non si può dire dell’Europa. Da qui la preoccupazione franco-tedesca a mantenere alta la reputazione della divisa europea, garante di quel complesso economico produttivo che ha fatto la fortuna del nostro continente e che adesso è a rischio delocalizzazione.
Gli Stati Uniti hanno appena iniziato le pratiche di quello che, inevitabilmente, sarà il loro fallimento. Basta qualche cifra per poter comprendere l'entità del problema: nel 2007 la Cina comprava circa la metà dei titoli del debito pubblico americano di nuova emissione; nel 2008, nel pieno dell'ultima crisi finanziaria ne ha acquistato circa il 20% ; nel 2009, cioè l'anno scorso, ne ha acquistato solamente il 5%. La politica economica cinese è dunque chiarissima: il dragone rosso si ritira dal mercato dei titoli del debito pubblico americano.
Dal momento che la Repubblica Popolare Cinese copriva da sola, sostenendolo attraverso il suo titanico disavanzo primario, la gran parte del debito pubblico americano, si impone una domanda fondamentale: chi paga adesso? Chi riequilibrerà la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti d'America? La risposta deve essere chiara: nessuno. In queste condizioni non ci sarà nessuno disposto a sostenere l'economia americana.
La situazione è drammatica, in quanto gli Stati Uniti d'America rimangono pur sempre la prima superpotenza militare al mondo ed è dunque fuori discussione l'idea che si limitino semplicemente a prendere atto del cambiamento dello status quo. In questo sono sempre stati molto coerenti, l’hanno sempre detto: il tenore di vita degli americani non è in discussione né potrà mai esserlo.
La situazione è molto più grave di quella che sembrano descrivere gli economisti tedeschi e inglesi quando pensano a piani di rigore e a misure di feroce austerità per ridare alle proprie divise una dignità e una credibilità spendibili sui mercati mondiali. Il problema, infatti, non è solo ravvisabile nella sicura inflazione che questa enorme emissione di moneta creerà; il punto centrale è comprendere chi farà presente agli americani che il loro livello di consumi non è più sostenibile.
La situazione cui stiamo per assistere potrebbe essere l'inizio della catastrofe: quella che si potrebbe definire - mutuando un termine dalla fisica classica e trasportandolo in un ragionamento macroeconomico - una transizione di fase. Come quando l'acqua viene fatta bollire prima che si trasformi in vapore acqueo, evaporando non appena raggiunge la temperatura limite. Se per l'acqua è un cambiamento di stato, in termini economici e sociali rappresenta il collasso del sistema. In questo momento l’acqua sta iniziando a bollire. Si guardi alla Grecia per una conferma.
Qua e là si sentono voci che sostengono che l’Europa imploderà e che la Grecia, nonostante l’adozione del piano di austerità, sarà la prima a cadere, seguita da Spagna, Portogallo e Irlanda. C’è tuttavia anche chi sostiene che questo non si verificherà, perché tutti i paesi europei sono legati fra loro in un immenso domino finanziario di debiti. E questo corrisponde sicuramente a verità. Inoltre, le grandi banche europee si trovano direttamente esposte in Grecia, come ad esempio la Crédit Agricole che, secondo il Wall Street Job Report, è la banca più colpita dalla crisi.
Secondo le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali, se si aggiungono Spagna e Portogallo, l’esposizione delle banche francesi salirebbe ad un ammontare di 306 miliardi di dollari, un vero e proprio suicidio per i galli cisalpini se si abbandonassero questi paesi alla loro sorte. L’unica soluzione si trova nella creazione di una struttura che metta in atto delle condizioni risolutive e che consenta di sanare i crediti a rischio: un’Agenzia Europea del Tesoro che presti in nome dell’Europa.
Le ipotesi sul tavolo sono diverse. Un Cers, cioè un comitato europeo del rischio sistemico, verrà presto messo in opera, così come un Fondo Monetario Europeo (FME), associato ad un sistema europeo di sorveglianza finanziaria (SESF). Per convincersene, basta leggere le recenti dichiarazioni dei maggiori protagonisti di questa crisi sistemica. Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del FMI, nel marzo 2010 ha dichiarato: «Necessitiamo di un’autorità europea per la risoluzione delle crisi, dotata di potere e di strumenti per gestire nel miglior modo il caso di cedimenti di banche transfrontaliere».
Jacques Attali, famoso economista, nel suo articolo «Dirigeants de l’Europe, agissez!» il 4 maggio 2010 ha scritto: «Deve essere decisa, già da domani, la creazione di un’Agenzia europea del Tesoro, immediatamente autorizzata al prestito in nome dell’Unione, e di un fondo budgetario che abbia mandato di controllo sulle spese dei paesi il cui debito supera l’ 80% del PIL» .
A queste dichiarazioni si aggiunga la posizione del ministro dell’economia tedesco, Rainer Brüderle, che in un articolo del 10 marzo 2010 su Reuters scriveva: «Qualsiasi fondo europeo che fosse creato per salvare economie in difficoltà dell’area euro, non dovrebbe intervenire che nel caso in cui fosse l’intera regione ad essere minacciata dal rischio insolvibilità di uno Stato membro». Segno evidente questo che anche i rigidi crucchi hanno iniziato ad essere sensibili rispetto ad un argomento che tempo fa li vedeva assolutamente contrari.
La verità è che siamo di fronte ad una crisi del debito. Un debito che è sistemico ed esponenziale, vista la natura intrinsecamente fraudolenta del sistema a riserva frazionaria in cui ci ostiniamo a vivere. Osservando infatti le economie teoricamente più avanzate, Inghilterra e Stati Uniti in testa, si può osservare da una parte un debito privato in costante crescita, con cittadini che non riescono più a rimborsare i loro crediti (vedi caso suprime); dall’altra, il debito degli stati, che iniettano migliaia di miliardi nelle banche e nell’economia per mantenere a galla il sistema, appare fuori controllo e paradossalmente espone gli stessi Stati al rischio della speculazione.
Secondo il Fmi, entro la fine del 2010 la Grecia sarà indebitata per il 123% del suo PIL, la Spagna per il 68%, il Portogallo per il 91 %, e l’ Italia per il 130%. Vista l’evoluzione dei tassi, queste cifre sono destinate ad esplodere. Occorrerà andare a cercare il denaro altrove, in una struttura sovranazionale. Una struttura che sicuramente non dovrà essere etero diretta dagli americani, ma realizzata attraverso una cooperazione politica tra i gruppi dirigenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Una gigantesca fuga in avanti, vista la conclamata insostenibilità dell’attuale sistema economico fondato sulla base di un trittico privo di senso: dal debito il consumo, dal consumo il lavoro.
Peggio di ogni altra cosa, ad essere spezzato è il patto sociale, perché è il popolo che sta per passare alla cassa, per una crisi causata dal gotha della finanza. Ammortizzatori e aiuti sociali si riducono al minimo, le pensioni non saranno più che un ricordo, mentre aumenta in modo esponenziale il numero di persone che perde il proprio impiego. La creazione di un Fondo Monetario Europeo, di un CERS, o di un qualsiasi altro organismo, non potrà che ritardare una scadenza che si rivelerà fatale e la disoccupazione, in qualsiasi modo venga affrontata, seguirà il modello della Spagna, che ha superato attualmente il 20 % di disoccupati.
Il patto sociale e il sistema di ammortizzatori e regole è in effetti spezzato, perché le nostre élites sono ormai incapaci di garantire il minimo, vale a dire il lavoro. Le leggi si stanno inasprendo ovunque e la democrazia è oggi in pericolo. Le sommosse in Grecia potrebbero essere solo il segnale d´inizio.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Ilvio Pannullo
Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?
Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.
Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.
Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.
Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.
È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.
Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.
C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.
Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?
L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.
Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.
Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.
Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.
Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.
Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Giuliano Luongo
La chiusura del vertice dei G20 a Seul la scorsa settimana ha portato con sé il prevedibile carico di osservazioni, aspettative deluse e soprattutto di tentate previsioni per il futuro dei principali attori economico-politici coinvolti. Al centro delle attenzioni di analisti più o meno competenti, ci sono stati come da copione gli Stati Uniti e la Cina e le loro relazioni politiche ed economiche.
Prima di entrare nel vivo delle trattative non dobbiamo dimenticare che, come accade durante il più elitario G8, i partecipanti al meeting sono stati accolti dalla folla prevedibilmente non festante: ben diecimila manifestanti (ridotti a tremila nelle stime della pubblica sicurezza, che mostra un modus operandi comune dal Manzanarre al Reno) hanno espresso il loro dissenso nei confronti dei leader mondiali. Tra le loro fila hanno marciato studenti, rappresentanti di ONG, sindacalisti e privati cittadini in maggioranza sudcoreani, uniti al grido di “le persone non devono pagare per la crisi”.
Abbandonando questa parentesi sociale, si può tentare di dare uno sguardo al tentato progresso fatto nelle relazioni economiche est-ovest. Il primo accordo, che doveva andare in porto con relativa facilità, era quello tra i governi di Washington e Seul, intenzionati a portare avanti l’intesa commerciale nei settori automobilistico ed alimentare del 2007 per poi trasformarla in un accordo di libero scambio: i rispettivi ministri del commercio hanno percepito lo stallo in quanto incapaci di produrre un impegno reciproco che non danneggiasse troppo i rispettivi mercati interni del lavoro. La titubanza statunitense ha pesantemente contribuito a far impantanare il dialogo.
E veniamo alla Cina. Hu Jintao ha aperto il vertice cercando di creare un clima di generale benevolenza, aprendo ad una “nuova era di cooperazione con gli Stati Uniti”: questo si è tradotto nel semplice desiderio di un incontro “faccia a faccia” per discutere la pesante questione dell’ancoraggio della valuta cinese a quella americana ed i problemi che ne derivano direttamente. Come noto, non si tratta di una questione risolvibile senza il pieno consenso delle autorità cinesi, unici soggetti in grado di dare ordini alla Banca Centrale di questo paese.
La politica dello yuan debole è stata essenziale per favorire le esportazioni e per contenere allo stesso tempo la domanda privata per beni di consumo, in particolare quelli da importazione. Le critiche statunitensi si sono concretizzate in un generico invito ad un sistema dei cambi internazionalmente più liberista ed orientato al mercato, abbandonando questo sistema di cambi fissi autogestiti. Obama non è riuscito ad ottenere nulla di tangibile alla fine del meeting, se non la promessa per un incontro successivo sul tema in territorio americano per l’anno venturo.
Il secondo punto d’interesse ha riguardato il ruolo internazionale del dollaro: i rappresentanti dei paesi BRIC (Brasile in primis, stavolta) hanno fatto pressione per intavolare discussioni sul tema della sostituzione (almeno parziale) della valuta americana come unico intermediario degli scambi. Il discorso è caduto nel vuoto per l’ennesima volta, con l’interlocutore a stelle e strisce ben più preoccupato di risolvere esclusivamente la questione cinese.
Va comunque segnalato che il movimento congiunto dei BRIC verso questa decisione è comunque un evento d’interesse per misurare la compattezza del fronte delle nuove economie: sarà poi ancor più interessante vedere su quale nuova valuta di riserva internazionale convergeranno gli interessi dei BRIC, visto che nessuno di essi ha un moneta così forte ed universalmente accettata. Solo la Cina parrebbe avere aspirazioni simili, fondabili sul peso internazionale della sua politica monetaria: sono noti da tempo i progetti di una alternativa al dollaro da proporre, ad uno stato iniziale, limitatamente ai mercati asiatici, ma in ogni caso non sono stati ancora fatti progressi tangibili.
Ha fatto discutere la nuova proposta di controllo economico internazionale degli USA, che consisteva in un accordo per fissare il tasso annuo di crescita delle economie al 4%: una misura di protezionismo internazionale a dir poco assurda, che per avvantaggiare paesi incapaci di competere nel campo produttivo taglierebbe le gambe ai nuovi arrivati. Non pensiamo solo alla vertiginosa crescita in doppia cifra dei cinesi, ma anche un paese come la Germania, che ha risultati di poco superiori a questa soglia ipotizzata, subirebbe danni enormi: ne risentirebbe di conseguenza tutta la stagnante regione europea, che continua ad essere trainata dai tedeschi. La proposta non è stata comunque bocciata in toto, ma solo rimandata al prossimo meeting G20 l’anno venturo.
Tra i pochissimi punti d’intesa raggiunti a Seul, va segnalato l’affidamento al FMI di compiti di controllo sulla stabilità finanziaria dei paesi per lottare meglio contro gli squilibri internazionali assieme ad una magra promessa fatta dagli stati volta all’impedimento delle svalutazioni competitive.
Tirando le somme, non dobbiamo bollare il summit come il solito incontro di “transizione” che ha solo rimandato la soluzione di pesanti problematiche, ma possiamo vederlo come un primo banco di prova delle rinnovate relazioni economiche internazionali dopo il recente terremoto interno al FMI. A Seul gli Stati Uniti sono apparsi abbastanza grintosi, con proposte oggettivamente inapplicabili e pronti ad esigere pacatamente un dietrofront dei cinesi i quali, forti proprio delle conquiste in seno al Fondo (e del fatto di avere tuttora la morsa stretta sul debito americano), sanno di poter condurre il gioco in maniera più attiva della loro principale controparte.
Bisogna vedere come la Cina (e gli altri tre BRIC al seguito) riuscirà a gestire questo nuovo prestigio nei successivi incontri con gli Stati Uniti e gli altri partner: di fronte ad un governo di Washington che cerca ancora di esercitare un’influenza che va sfaldandosi, Pechino dovrà lavorare molto su alleanze nuove e vecchie per spostare con decisione l’ago della bilancia degli equilibri internazionali sul proprio territorio. I nuovi banchi di prova saranno i prossimi incontri APEC e le nuove dinamiche interne al FMI, in particolare riguardo le proposte di ricalcolo dei DSP.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Ilvio Pannullo
La sintesi dell'ambiguità italiana è tutta nell’ "errore" del Financial Times del 12 novembre. Quando, sulle pagine del giornale cartaceo più letto da Wall Street, viene pubblicato un articolo dove si sostiene che i mercati obbligazionari stanno già scommettendo sulla bancarotta "delle tre economie più deboli della zona euro: la Grecia, l'Italia e il Portogallo". C'è anche il grafico che evidenzia i picchi di rendimento dei Btp decennali italiani rispetto ai Bund tedeschi, cioè quanto il debito pubblico italiano sia percepito come più rischioso di quello tedesco. Poi lo stesso articolo viene pubblicato sull'edizione on-line e, sorpresa, le tre economie europee più deboli sono indicate (correttamente) come Irlanda, Portogallo e Grecia. Niente Italia quindi.
Si tratta di un errore dunque o forse c'è qualcosa di più? Appare infatti ai più maliziosi qualcosa di più di un refuso; assomiglia a un lapsus freudiano. Perché l'Italia non sarà tra le tre economie più fragili, ma in molti cominciano a pensare che arrivi subito dopo. Anche ieri il differenziale di rendimento tra Btp e Bund ha toccato un nuovo record da quando esiste l'euro e, quindi, da quando i diversi debiti pubblici sono apprezzati nella stessa valuta, eliminando gli effetti del cambio di valuta: 1,91%, poi sceso di poco.
Segno che gli investitori sono un po' nervosi riguardo l'Italia che, sei mesi dopo il panico finanziario innescato dalla Grecia, sembra molto più fragile: nel mezzo di una crisi politica, con stime di crescita del Pil dimezzate rispetto a un anno fa (all'1% annuo, se tutto va bene) e che si scopre più fragile del previsto, tutta protesa nel decidere come spendere miliardi di euro con la correzione al maxi-emendamento alla finanziaria mentre gli altri paesi insistono con ulteriori risanamenti.
Un segnale concreto è arrivato dall'asta del 12 novembre dei titoli di Stato italiani. La domanda degli investitori è rimasta alta, ma è stato alto anche il prezzo di vendita: per i Btp a 15 anni, per esempio, i tassi da riconoscere ai sottoscrittori sono saliti dal 3,98% al 4,81%. Conseguenza: il macigno del debito pubblico da ieri è un po' più pesante da portare per l'economia italiana. Lato positivo: secondo le stime degli analisti di Unicredit, nel 2010 restano soltanto altri 10 miliardi di euro di debito da piazzare sul mercato. Quindi, almeno per ora, non ci sono grossi rischi. Ma è solo una tregua.
Il fondo europeo di salvataggio per gli Stati, come la Grecia ieri e l'Irlanda oggi, che faticano troppo a trovare credito a prezzi accettabili, scatterà solo per il debito emesso a partire dal 2013. La notizia è arrivata ieri a Bruxelles dal G20 di Seoul, dal quale la linea tedesca di rigidità estrema è uscita sconfitta ed ha riportato un po' di normalità: per ora sembra archiviata l'ipotesi del cosiddetto haircut, cioè l'idea che i detentori del debito pubblico di uno Stato in bancarotta vengano risarciti solo in parte dagli interventi di salvataggio, pagando quindi comunque un prezzo per aver sostenuto uno Stato sovrano attraverso l'acquisto dei suoi titoli pubblici.
In compenso, la Germania di Angela Merkel è riuscita a moderare un po' la linea americana al G20: dal comunicato finale del vertice sono scomparsi i riferimenti ai tetti ai surplus commerciali. Tradotto: visto che Washington vuole che la Cina esporti di meno ma non riesce a convincerla a rivalutare drasticamente lo yuan, la sua moneta sovrana, per rendere le sue merci più costose rispetto quelle americane, sperava di ottenere l'impegno a limitare volontariamente l'export. Invece niente: la Repubblica Popolare Cinese rimane l’unico soggetto a poter determinare la propria politica economica e monetaria.
Il G20 s'impegna solo a vigilare sugli eccessi di volatilità delle monete e a condannare le svalutazioni competitive. In pratica una disapprovazione ufficiale della politica monetaria degli Stati Uniti che continuano a stampare dollari per sostenere la propria economia, mettendo però a soqquadro il mercato delle materie prime che è (ovviamente) quotato in dollari e danneggiando le economie emergenti come il Brasile che vedono le loro monete rafforzarsi indebitamente rispetto al dollaro, così che i loro prodotti da esportazione diventano meno competitivi.
L'Italia, in tutto questo, si limita a fare da spettatore. E il Ministro degli Esteri Franco Frattini deve constatare: "L'impegno italiano di molti altri paesi contro le speculazioni internazionali è serio, ma c'è il problema sul regime dei cambi e come si è visto né gli Stati Uniti né la Cina sono in condizioni di risolverlo ora". L’unica sicurezza concreta per l'Italia è che l'Euro resta forte, scambiato a $ 1,37, nonostante le difficoltà di molti Stati dell'euro zona. Le esportazioni italiane, quindi, non vengono aiutate dal tasso di cambio, che le rende più costose sui mercati mondiali.
Il problema principale per l'Italia, infatti, resta quello della bassa crescita che, in prospettiva, rende più difficile sostenere il peso del debito. I parametri in base ai quali si decide oggi della vita e della morte delle nazioni sovrane sono infatti i rapporti debito/Pil (in Italia al 116%) e deficit/Pil (in Italia al 5,1%). Quindi se il Pil va giù il rapporto schizza alle stelle ed il nostro paese entra nel mirino degli speculatori.
Il Pil, dice l’Istat con gli ultimi dati, non crescerà più dell'1% nel 2010. E mentre il debito continua a crescere, le entrate si confermano in calo: -1,8%, dice Bankitalia nell’ultimo bollettino con il Tesoro che cerca come sempre di ridimensionare. Se a questo si aggiunge che dopo le prime analisi i tecnici della Camera stanno già mettendo in dubbio l'esistenza reale dei soldi che il governo vuole spendere con la finanziaria e che, elezioni o meno, c'è il rischio che la politica economica italiana resti congelata per molti mesi, si capisce perché, forse, quello del Financial Times più che un refuso, somigli ad un'anticipazione.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Ilvio Pannullo
Sono state diverse, ultimamente, le giornate difficili per i mercati. Piazza Affari di umore nero, perde nettamente più delle altre Borse continentali, complici alcuni spunti negativi e la debacle del comparto bancario, afflitto da alcune trimestrali non entusiasmanti e da rinnovati timori sul debito sovrano di alcuni paesi periferici. L'indice Ftse Mib cede il 2,41%, l'All Share il 2,15%. Ad innescare nuovamente la speculazione è la sua eccezionale redditività: sparare a zero sugli Stati e scommettere sul disastro è troppo vantaggioso. Chi può specula e vince, mentre il resto del mondo assiste impotente a questo gioco al massacro.
La storia è sempre la stessa: i mercati sono stati scoraggiati dalla speculazione sui titoli di Stato di alcuni paesi il cui debito pubblico è considerato troppo alto, come Portogallo, Grecia e Irlanda. A contribuire al clima da fine impero sono le politiche monetarie statunitensi. Le parole, infatti, sono importanti, soprattutto quando a pronunciarle sono i banchieri centrali.
La Federal Reserve americana ha deciso mercoledì 3 novembre di dare il via alla seconda ondata di “ quantitative easing". Il termine - di origine ovviamente anglosassone - si traduce in italiano con alleggerimento quantitativo ed indica la creazione di moneta da parte della banca centrale e la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto, cioè effettuate direttamente in borsa, nel sistema finanziario ed economico. È essenzialmente il processo attraverso il quale un istituto monetario aumenta la base monetaria attraverso la stampa (termine non esatto, dato che oggi l'immissione avviene in forma elettronica) di nuova moneta. I tecnocrati la considerano una politica monetaria non convenzionale. Nella realtà l’operazione rende esplicito il problema del cosiddetto reddito monetario, ossia il guadagno che un istituto autorizzato per legge ad emettere moneta può ottenere dalla mera stampa di banconote.
L'espressione, all'apparenza freddamente scientifica, nasconde l'ultima mossa disperata dell’establishment americano: la Fed comprerà i titoli del debito pubblico americano semplicemente stampando denaro, ossia attraverso lo sfruttamento grossolano del cosiddetto signoraggio bancario. Gli Stati Uniti potranno così mantenere il rapporto deficit/Pil al 13% (superiore a quello della Grecia) confidando nel fatto di potersi comunque indebitare a bassi tassi attraverso l'emissione di obbligazioni. Perché ci sarà sempre la Federal Reserve pronta a comprare. Non viene creata ricchezza con la produzione industriale, con l'edilizia o la fornitura di servizi. Si crea solo moneta per comprare debito. Un debito che non avrebbe ragione d’esistere se l’istituto di emissione fosse controllato dallo stesso governo, ma di questo problema si è già discusso in abbondanza e non interessa qui riaprire la questione.
Ciò che invece è opportuno sottolineare è che la Federal Reserve aveva già acquistato 1700 miliardi di dollari in titoli immettendo nel sistema altrettanta liquidità e si appresta ora a comprarne altri per un valore pari a 600 miliardi di dollari. Se ne deduce che in meno di tre anni negli USA si è stampato denaro per un ammontare superiore al Pil dell'Italia nell’anno contabile 2010. Una creazione di moneta che non ha precedenti nella storia, una misura "unconventional” come dice con un eufemismo il presidente della Fed Ben Bernake. La verità è che una simile misura non è mai stata testata e gli effetti che provocherà sono tutti da verificare. La cavia ovviamente siamo noi, le economie del resto del mondo.
Per ora la stampa eccessiva di biglietti verdi ha già portato il dollaro ai minimi rispetto alle altre valute, compreso l'euro. Sulla scacchiera i vari giocatori preparano le loro contromisure. La Corea del Sud si appresta a seguire Thailandia e Brasile nell'introduzione di misure che contengano il forte afflusso di moneta americana verso il proprio paese, cosa che provoca una valorizzazione eccessiva delle monete nazionali. I paesi emergenti sono in subbuglio.
Nella prima intervista pubblica, la neo eletta presidentessa brasiliana, Dilma Rousseff, ha detto quanto da molti pensato: "Non possiamo pensare che gli Stati Uniti facciano pagare i loro problemi a tutto il mondo attraverso la svalutazione del dollaro". Il prossimo G20 a Seul si annuncia dunque tempestoso, preludio di un ritorno a misure protezionistiche dagli esiti imprevedibili. L'Europa per il momento tace. Gli economisti tedeschi e inglesi sono molto più preoccupati dell'inflazione che questa massa di denaro può provocare piuttosto che dell'impatto immediato sui tassi di cambio.
Germania e Inghilterra hanno infatti inaugurato l'era dell'austerità estrema: hanno la fondata paura che questa massa incredibile di cartamoneta che si sta riversando nell'economia mondiale possa causare uno tsumami finanziario senza precedenti, che potrebbe scuotere dalle fondamenta la fiducia non solo nei governi ma nel sistema internazionale monetario. E’ dunque proprio per questo motivo che i tedeschi vogliono far passare a Bruxelles il principio che se un paese chiede un aiuto finanziario, i detentori dei titoli obbligazionari di quel paese "devono sopportare un sacrificio". Il riferimento alla Grecia è fin troppo esplicito: tutti sanno che nei prossimi tre anni il governo di Atene sarà costretto a ristrutturare il proprio debito e la Germania non intende offrire una garanzia in bianco ai creditori.
Inutile dire che nel giro di poche ore i titoli di Stato greci hanno perso il 20% del loro valore, ricacciando Atene nella quasi certezza del declino finanziario finale. L’Irlanda non gode di una salute molto migliore e deve pagare ai propri creditori un tasso quattro volte maggiore di quello tedesco, seguita a ruota dal Portogallo. Ma fino a quando questa situazione sarà sostenibile? I più pessimisti ritengono che fra poco più di un anno si vedranno gli effetti di queste politiche monetarie a dir poco spericolate e che ci troveremo di nuovo al centro della tempesta perfetta: crisi della fiducia negli stati, crisi della fiducia nella moneta ed inflazione alle stelle.
Insomma sembra già di sentire le sette trombe dell’apocalisse. Non sappiamo però se questo succederà davvero, ma il semplice rischio della catastrofe dovrebbe essere sufficiente per osservare più attentamente le politiche economiche di tedeschi e inglesi che, a differenza di altri, stanno prendendo la situazione molto sul serio.
E noi? L'Italia come sempre è ferma. In questo momento siamo bloccati sulla manovra finanziaria di luglio che appare sempre più insufficiente e inadeguata a fronteggiare i rischi che ci riserva il futuro. Il ministro dell'economia Giulio Tremonti, per ora, sembra non poter fare altro che arginare le richieste di spesa che gli arrivano dai colleghi di governo. Purtroppo per noi sembra non riesca neanche a delineare un piano strutturale che metta definitivamente al sicuro i nostri conti pubblici e ci preservi dai "rischi fatali" - per citare un suo libro di qualche anno fa - della globalizzazione economica e finanziaria. Appare semmai più preoccupato dell’ombra di Draghi, le cui proposte di regolarizzazione dei precari e di rilancio della domanda interna vengono insultate dal ministro con la proverbiale stizza da ragioniere isterico che lo contraddistingue.
L'inevitabilità della catastrofe la si può osservare cristallizzata nell'esito delle elezioni di medio termine recentemente perse dalla Presidente Obama. Con quel voto gli americani hanno lanciato al mondo il messaggio peggiore che potessero lanciare. Quello che ci comunicano è che loro vogliono continuare a fare come hanno sempre fatto e che non sono disposti ad indietreggiare dalla loro posizione di dominazione e dunque accettare una loro diversa collocazione nel mondo. Gli americani vogliono cioè continuare a scaricare i loro problemi sulle spalle del resto del pianeta, ma quello che l'America vuole non lo può più ottenere e questo, semplicemente, perché non sono più il centro del mondo. La grande questione aperta rimane questa: chi riuscirà a far capire agli americani che non è più possibile continuare su questa strada? L’impero sta raschiando il fondo del barile.