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di Ilvio Pannullo
L’Irlanda è salva, ma i suoi cittadini sono spacciati. Si parla tanto di salvataggi ultimamente, ma di chi? Questa è la prima vera domanda da porsi. Siamo al secondo salvataggio in Europa. Al secondo salvataggio delle banche tedesche. Ma chi ne ha beneficiato? Cui prodest, come direbbero i saggi latini? Come nel caso della Grecia, chi sicuramente ha guadagnato dalla soluzione della crisi irlandese sono i creditori. Che vedono scongiurato il rischio di non vedersi restituiti i soldi incautamente prestati alle banche ed allo Stato irlandese.
E anche adesso, come per la Grecia, tra i primi creditori ci sono le banche tedesche: allora in compagnia delle banche francesi, adesso in coppia con le banche inglesi. Solo e unicamente per questo motivo anche l’odiata Gran Bretagna si è detta infatti disponibile a partecipare al salvataggio, con buona pace dei nazionalisti irlandesi.
Considerando che l'esposizione del Regno Unito sull’Irlanda è di ben 188 miliardi di euro e quella tedesca di "appena" di 184 miliardi, si capisce come nella realtà dei numeri quello che si è appena concluso non è stato di certo un atto di solidarietà tra pari, quanto piuttosto un aiuto interessato. Ma a pagarlo sarà l’Europa - quindi tutta indistintamente - e la ripartizione del debito avverrà facendo riferimento alle quote azionarie della BCE possedute da ogni Banca Centrale nazionale. Nella sostanza un ottimo affare per i banchieri tedeschi e inglesi.
Il secondo aspetto da sottolineare - non ci stancheremo mai di ripeterlo - è che sono i cittadini a pagare la crisi delle banche. Nel caso del paziente irlandese, quello che è avvenuto è chiarissimo. Riepilogando in ordine cronologico la storia della tigre celtica si capisce chiaramente l’ingiustizia subita dai cittadini: 1) il Governo inizialmente decide di salvare le due maggiori banche del paese, travolte dalla crisi immobiliare e vicinissime al fallimento, con iniezioni di capitale per decine di miliardi di euro; 2) l’intervento provoca l’esplosione del deficit pubblico ( l'ammontare della spesa pubblica non coperta dalle entrate), che schizza al 32% su base annua, mentre il limite previsto dal trattato di Maastricht è pari al 3%, imprimendo così una tremenda accelerazione al debito pubblico; 3) per fronteggiare l’impennata del debito pubblico e il conseguente peggioramento del parametro debito\PIL vengono assunte, sempre dal medesimo Governo, misure di austerity così feroci da precipitare il paese in deflazione (ossia una diminuzione generale del livello dei prezzi dovuta alla debolezza della domanda di beni e servizi).
Che succede arrivati a questo punto? Che la crisi economica del paese e del settore bancario si approfondisce anche, se non soprattutto, per questo motivo: servono dunque altri soldi per evitare il fallimento del paese, soldi che lo Stato irlandese non è grado di pagare. Si chiude allora la partita, si spengono le giostre e si alza il sipario: le condizioni macroeconomiche del paese peggiorano al punto da rendere indispensabile la necessità di un soccorso internazionale stimato in circa 95 miliardi di euro, un terzo dei quali destinato alle banche, a fronte di una severissima manovra di bilancio su quattro anni che prevede tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali per 15 miliardi di euro.
In soldoni: 25.000 impiegati pubblici a casa e i neoassunti con uno stipendio del 10% inferiore rispetto ai loro colleghi. Conclusione: il governo irlandese salva le banche dal fallimento, i cittadini irlandesi pagano il conto con i loro diritti economici e sociali, presenti e futuri.
Le tasse alle imprese restano invece bassissime, agli attuali livelli: il 12,5% degli utili dichiarati. Il motivo è presto detto: su questa tassazione irrisoria delle imprese si è basato il successo della tigre celtica, per diversi anni indicato come modello anche per noi. Nei fatti l’Irlanda faceva dumping fiscale, spalancando le porte a tutte quelle società europee intenzionate a pagare meno tasse rispetto a quelle pagate nel proprio paese. Proprio questa possibilità di fare arbitraggio fiscale è, infatti, una delle cause principali degli attuali problemi dell'Europa.
Perché senza una tassazione uniforme non può esistere una seria politica economica comune, e senza una politica economica comune la moneta unica non basta. In caso di crisi questa può anzi diventare un peso insostenibile per chi l'ha adottata. Ma a quanto pare il dumping fiscale non ha portato fortuna neanche all'Irlanda: la bolla immobiliare che è scoppiata travolgendo le banche, e ora anche lo Stato, è stata alimentata proprio dagli investimenti delle imprese straniere, ansiose di monetizzare l’irrisorio trattamento fiscale.
Altro aspetto interessante è la valutazione degli stress test: molto semplicemente un fallimento, se non proprio una bufala. "Allied Bank e Bank of Ireland hanno i requisiti patrimoniali richiesti e non hanno bisogno di ulteriori aumenti di capitale": così la Banca Centrale irlandese, lo scorso 23 luglio, annunciò i risultati degli stress test condotti a luglio sulle banche europee. Per la verità, che quei test fossero taroccati l'avevano sospettato in molti, soprattutto quando si è appreso che i titoli di Stato posseduti dalle banche non erano considerati un fattore di rischio (e questo dopo la crisi greca!). Se i test si rifacessero dando il giusto peso a questa variabile, ben pochi grandi banchieri in Europa dormirebbero sonni tranquilli.
Un po' come dire che le dichiarazioni ufficiali degli istituti finanziari nazionali ed internazionali sono tutte finalizzate alla ricostruzione di quel bene comune da troppo tempo sovra-sfruttato da tutti gli attori economici: la fiducia dei consumatori. Finché c’è qualcuno che ancora crede a quello che dicono, costoro (coerentemente dal loro punto di vista) vanno avanti. Dunque ogni parola, ogni gesto, ogni comunicato non ha valore in sé perché non ha credibilità, non mirando ad affermare ciò che è vero, ma semplicemente a ricostruire quella fiducia necessaria agli investitori per tornare a spendere i propri soldi sui mercati internazionali. E questo è possibile solo se si nasconde per l'appunto ciò che è vero: la reale situazione in cui versano oggi gli Stati e le imprese, ossia gli enti economici pubblici e privati che producono quei beni e quei servizi necessari ai cittadini.
Questo il quadro dell’Europa. A ciò si aggiunge, tuttavia, un’ulteriore ansia, uno spettro vero e proprio: una Germania irresponsabile. Oggi, purtroppo, dire Europa significa dire Germania. Bisogna capire che la Germania da questa crisi ci guadagna tre volte: in primo luogo le sue banche, sovraesposte sui titoli di Stato irlandesi, ora sono al sicuro; in secondo luogo, le attuali difficoltà europee, aggravate dalle dichiarazioni terroristiche della stessa cancelliera Merkel, fanno crollare la quotazione dell'euro rispetto al dollaro, spingendo le esportazioni tedesche diventate così più competitive; infine, i titoli di Stato tedeschi sono più che mai un rifugio sicuro e possono quindi essere venduti anche a fronte di rendimenti risibili.
È quindi decisamente singolare che il governo tedesco si possa ergere a giudice degli altri paesi "meno virtuosi”, gli stessi paesi cioè che comprando i prodotti tedeschi ne sostengono l'economia: non si ricorderà mai abbastanza che il commercio estero dei paesi dell'Unione Europea è infatti per la sua quota maggiore interno alla stessa Unione Europea. L'impressione è che, con la sua arroganza dei suoi ricatti, l’establishment tedesco stia tagliando il ramo su cui è (comodamente) seduto: ossia l'euro. E’ un gioco molto pericoloso. Un gioco che potrebbe ritorcersi proprio contro la stessa Germania.
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di Giuliano Luongo
A pochi giorni dall’approvazione del bailout per rimettere in condizioni quantomeno decenti la disastrata situazione economica irlandese, continuano a serpeggiare sospetti e dubbi sullo stato di salute dei conti dei cosiddetti paesi deboli (che già tempo fa qualche analista burlone ebbe l’idea di riunire sotto l’acronimo PIGS). Dall’inizio della settimana, abbiamo visto come l’ottimismo a giorni alterni del Commissario Europeo agli affari economici e monetari Olli Rehn ha fatto segnare un picco negativo, con l’invito al rigore fatto all’Italia per quanto riguarda la solidità dei conti statali.
Nel mentre, si continuano ad allargare i timori sul fronte iberico, dal quale Zapatero continua quasi istericamente a sottolineare (millantare?) la solidità dell’economia del proprio paese, per concludere poi con un invito ad una politica economica più integrata da parte dell’Unione, al fine di evitare la caduta in questi pozzi neri economici e finanziari di un numero probabilmente crescente di paesi.
Se quest’ultima può sembrare la tipica ovvietà che avviene in regimi di divisione delle competenze, dove si domanda sempre l’intervento - se non l’aiuto - di un qualche ente superiore per rimediare ad errori non propri, basta andare anche un minimo a fondo nei fatti per vedere come sia proprio il deficit sia normativo che di applicazione delle norme esistenti a peggiorare le situazioni causate da shock sia interni che esterni al sistema economico comunitario.
Quello che sembra mancare, in effetti, all’Europa economica (e anche politica…ed anche sociale, ma per il momento conteniamoci), sembra essere proprio una capacità di amministrazione degna di questo nome, dove i ruoli sono ben definiti e soprattutto vengono seguite linee di pensiero e comportamentali coerenti: il sistema defìcita più che gravemente di una vera leadership istituzionalizzata e continua ad essere appesantito da un sistema normativo obsoleto, poco flessibile ed eccessivamente tarato su di un rigore che rispecchiava equilibri economici e geopolitici ormai non più realistici.
Il primo problema, visto a partire dalla recente crisi greca (in teoria anche da prima, ma limitiamoci a situazioni recenti), è quello della mancanza di consapevolezza dei leader e delle istituzioni europee riguardo semplicemente quello che sta loro attorno: un tracollo come quello greco, costruito sulla base di anni di pessima gestione interna, doveva essere previsto dagli organi sovranazionali della comunità, o almeno tamponato in tempo.
Prima di attivare i “soccorsi”, i paesi “importanti” dell’Unione, Germania in primis, sono riusciti a perdere il più tempo possibile per rendere più gravoso il riaggiustamento della situazione: il loro impegno tardivo ha poi drenato talmente tanto le loro attenzioni portandoli, tramite una sorta di ridicola quanto pesante cataratta istituzionale, a non vedere per tempo il disastro che si stava perpetrando in Irlanda da due anni a questa parte.
Tutto questo proprio mentre, durante un momento difficile che influenzava il valore della moneta unica, la “cancelliera” tedesca si dilettava nel parlare del definitivo crollo del sistema euro, favorendo il terrore nei mercati, l’instabilità generale e le risate grasse di americani, britannici e nostalgici del vecchio conio.
E questo apre il secondo punto: una grande entità politico-economico come l’Unione Europea può ancora permettersi di parlare a più voci, quando anche il meno smaliziato - per non dire il più deficiente - degli operatori sa che in un ambito delicato come quello economico internazionale anche un rumor messo lì per errore o per provocazione può innescare reazioni a catena dalle conseguenze imprevedibili?
Ovviamente no, ma continuerà a farlo. In una situazione di crisi come quella attuale - ma beninteso, anche in momenti di “bonaccia” - ci si dovrebbe muovere verbalmente con i piedi di piombo, mentre invece ci limitiamo ad un insieme di grida nel vuoto provenienti dai livelli più disparati: gli stessi funzionari comunitari cambiano idea ogni due giorni, riuscendo sempre a dire il contrario di quello che verrà fuori dalla bocca del direttivo della BCE.
Terzo ordine di problemi, quelli dell’euro: ad ormai otto anni dalla sua entrata in vigore ufficiale, la moneta unica continua a mostrare segni di cattiva salute nonostante un valore nominale elevato. L’aspetto che vogliamo prendere in considerazione è quello della legittimazione di tale moneta: va notato come gli stessi leader europei sembrino non più convinti della forza - se non anche del bisogno dell’esistenza - dell’euro, visto il loro atteggiamento durante la recente crisi.
Infine, va riaperto il problema delle fondamenta economiche dell’Unione, quelle che poggiano sul recentemente ridiscusso Patto di Stabilità e Crescita e che fanno di questa grande entità sovranazionale un’istituzione a metà: ci sono ambiti in cui il lungo braccio comunitario è fin troppo lungo e rigido, mentre altri non sono minimamente toccati.
Inoltre, far girare gli ingranaggi della regolamentazione anche dove possibile è orribilmente macchinoso, con i soliti paesi influenti che regolano la responsività delle istituzioni solo sulla base dei propri interessi: tutto ciò senza dimenticare che gli stessi “grandi regolatori” - Francia e Germania in primis - non hanno un curriculum esattamente immacolato riguardo al rispetto delle disposizioni comunitarie.
Se dunque è ormai comprovato che dal punto di vista sociale e politico l’Europa è alquanto arenata, sta diventando chiaro anche come dal punto di vista economico, vecchio propulsore dell’integrazione europea, i problemi abbondino: il mix letale di governance casuale, mancanza di leadership e di convinzione nelle potenzialità e nei pilastri comunitari, generica incompetenza tecnica ed abuso di anglicismi e parole inventate (peggio che in questo articolo) renderà senza dubbio poco roseo il future della “Unione”.
Di certo, non sarà facile regredire (ancora) o ottenere inquietanti debacle come i peggiori detrattori - anche interni - si augurano, ma un’Unione Europea che non sa gestire i propri né sa costruire e far sviluppare le proprie stesse istituzioni non ha e non potrà avere un ruolo da attore protagonista sulla scacchiera economica del domani. E nemmeno del week-end.
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di Ilvio Pannullo
Non si sono ancora spenti i riflettori delle news dei media allineati sul caso Irlanda che già iniziano i campanelli d'allarme sulla tenuta dei conti pubblici della Spagna e sulla necessità del salvataggio. I credit default swaps (CDS) sul debito del Portogallo sono schizzati di 40 punti base al picco di 542 punti - in base ai dati riportati dall’agenzia Bloomberg - e quelli sulla Spagna hanno segnato un rialzo di 22,25 punti al nuovo massimo di 336 punti.
In aumento anche i CDS sull'Italia con un incremento di 14 punti base a 230, il livello più alto da almeno sei mesi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta che, forse in astinenza per la mancata somministrazione coatta di ottimismo, si dice “preoccupato”. C’era ovviamente da aspettarselo. Insomma nulla di nuovo, anche se è proprio di qualcosa di nuovo che si dovrebbe iniziare a parlare.
In un momento di transizione, di forte incertezza, d’instabilità per le economie di mezzo mondo come quello che stiamo vivendo, è opportuno, infatti, oltre ad analizzare i problemi e le condizioni che hanno reso possibile il loro verificarsi, analizzare anche le possibili soluzioni, magari cercando delle alternative ai dogmi che hanno fino ad oggi dominato la scena nei mercati internazionali. Un ottimo spunto lo si può trovare nel lavoro dell’economista Elinor Ostrom, che il 12 ottobre 2009 è stata insignita del Premio Nobel per l'economia, insieme a Oliver Williamson, per l'analisi della governance e in particolare dei beni comuni.
Il premio Nobel a Elinor Ostrom riconosce l'importanza di aver ipotizzato l'esistenza di una terza via tra Stato e mercato ed è forse anche il segno che negli ambienti accademici s’inizia finalmente a sentire l’esigenza di un’alternativa. Perché è tutto quello di cui abbiamo bisogno: tornare ad immaginare un’alternativa. Un mondo nuovo, diverso, impromettibile, ma in quanto già pensato una consolazione, un dovere, un imperativo.
Quella della Ostrom è infatti una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione "comunitaria" dei beni possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi, a proposito dei beni collettivi globali come l'atmosfera, il clima o gli oceani. Ma molto significativa anche per l'attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori.
Uno dei dogmi fondativi della moderna economia dell’ambiente è la cosiddetta “tragedy of the commons”, risalente a Garrett Hardin. Secondo questa impostazione, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo. L’individuo che si appropria del bene comune deteriorandolo, infatti, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo in quanto la grande parte di questo verrà socializzato.
Poiché tutti ragionano nello stesso modo, il risultato è il saccheggio del bene. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi solo che in parte. Per trovare qualche esempio basterà affacciarsi dal balcone di casa ed osservare come vengono gestiti gli spazi pubblici.
Il ragionamento di Hardin partiva dall’esempio delle enclosures inglesi, precondizione della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni, in questa visione, costituiva il necessario presupposto di una gestione razionale ed efficiente: mentre in regime di libero accesso il pascolo indiscriminato stava portando alla rovina del territorio, il proprietario privato, in quanto detentore del surplus, aveva l’interesse a sfruttare il bene in modo ottimale e a investire per il suo miglioramento.
Quando non vi sono le condizioni per un’appropriazione privata, deve essere semmai lo Stato ad assumere la proprietà pubblica. Solo i beni così abbondanti da non avere valore economico possono essere lasciati al libero accesso; per tutti gli altri occorre definire un regime di diritto di proprietà privato o pubblico. Il merito di Elinor Ostrom è stato quello di ipotizzare l’esistenza di una “terza via” tra Stato (il trionfo della proprietà pubblica) e mercato (il trionfo della proprietà privata), analizzando le condizioni che devono verificarsi affinché le “common properties” non degenerino.
La Ostrom prende le mosse dal lavoro di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell’epoca in cui scrivevano: lo svizzero tedesco, naturalizzato americano, Ciriacy-Wantrup, che ancora negli anni Cinquanta osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste e i pascoli alpini. Distingueva appunto le “common pool resources” (res communis omnium – beni comuni di proprietà della collettività) dai “free goods” (res nullius – semplicemente beni liberi da qualsiasi vincolo proprietario e possessorio).
Nel primo caso, pur in assenza di un’entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l’esistenza di una comunità, l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di chi non le rispetta.
Su queste fondamenta poggia l’edificio concettuale della Ostrom, la cui opera più importante, Governing the Commons, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Il lavoro di Ostrom trova anche punti di contatto con la teoria dei giochi: in particolare con quei filoni di ricerca che, attraverso il concetto di gioco ripetuto, mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali (equilibri di Nash, di cui la stessa “tragedy of the commons” è in fondo un esempio) possano essere evitati se nella ripetizione del gioco gli attori “scoprono” il vantaggio di comportamenti cooperativi, che a quel punto possono essere codificati in vere e proprie istituzioni.
Un po’ quello che è accaduto con la crisi dei subprime, dove i mercati di tutto il mondo hanno potuto sperimentare quanto la regola generale dell’avidità e del profitto ad ogni costo possa provocare danni irreparabili per gli stessi attori del gioco.
È interessante anche notare come il “comunitarismo” della Ostrom trovi qui un punto di contatto con “l’anarchismo” antistatale; ma Ostrom enfatizza piuttosto l’importanza della comunità, della democrazia partecipativa, della società civile organizzata, delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste e non per un calcolo di convenienza. Non risulta che Ostrom si sia mai occupata di finanza, ma è quanto meno singolare la coincidenza del premio con la ri-scoperta dell’importanza del capitale sociale e delle regole condivise per il buon funzionamento dei mercati. La crisi finanziaria che stiamo vivendo, infatti, altro non è che un esempio di “saccheggio” di una “proprietà comune”, la fiducia degli investitori, per ricostruire la quale servirà qualcosa di più di una temporanea iniezione di capitale nel sistema bancario.
Sarà necessario creare le basi per una nuova fiducia fondata su nuove regole fondamentali, cristallizzate magari in nuove e più credibili istituzioni economiche internazionali. Serve cioè tornare a ragionare in modo costruttivo su di un modello di sviluppo alternativo, per tornare ad immaginare un futuro e riappriopriarci della speranza che possa essere migliore del presente.
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di Ilvio Pannullo
Dopo la pioggia di miliardi votati e spesi a tempo di record per salvare gli istituti finanziari “too big to fail”, dopo i due recenti interventi di “alleggerimento quantitativo” della Federal Reserve americana, dopo lo strozzinaggio di Grecia e Irlanda per mano e volontà della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, nessuno può più onestamente dire di non aver capito cos’è in gioco.
Non chiamatelo più capitalismo, quello vero è un’altra cosa. Prevede grandi ricompense per chi riesce, ma anche grandi punizioni per chi fallisce. Qui invece si assiste ad un ritorno al passato: ad una situazione che assomiglia molto a quella precedente la tanto millantata rivoluzione francese, nella quale una casta di nobili era al di sopra di tutto e non pagava mai.
I nostri Paesi non sono più sovrani, né giusti, né democratici. Forse non lo sono mai stati, ma dalla creazione della BCE e dell’Unione Economica Monetaria lo sono ancora meno. Un vero e proprio salto di qualità. La vera democrazia presuppone l’assunzione di responsabilità e un rapporto di causa ed effetto tra il popolo e gli eletti. Ora il vero potere é nelle mani di un mondo finanziario che non rispetta le regole costituite e men che meno lo stato di diritto. E che sta sancendo una pericolosa consuetudine: quella che permette alle banche di scaricare su cittadini incolpevoli le proprie colpe.
Loro sbagliano noi paghiamo. Loro risanano rapidamente, incassano bonus milionari, mentre i popoli sono costretti a subire restrizioni pazzesche per anni e forse decenni, in condizioni, talvolta, di moderna schiavitù. E chi osa protestare viene zittito con il ricatto supremo: o é così o viene giù l’Irlanda. E se viene giù l’Irlanda viene giù il Portogallo, poi la Spagna, l’Italia ed infine l’intera Comunità Europea per via di un complesso domino finanziario. Insomma la fine del mondo. Dunque meglio che pochi si sacrifichino per il bene di tutti.
La Bce dovrebbe essere chiamata a rispondere per non aver monitorato, per aver diffuso stress-test a dir poco ridicoli. Ma non succederà nulla. Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale andrebbero messi sotto inchiesta ed essere costretti a rispondere dei loro errori. Invece, essendo sovranazionali, non sono sottoposti ad alcun tipo di controllo e di verifica. Avanza così una dittatura invisibile, che non sfida apertamente la democrazia e la sovranità nazionale, ma la svuota progressivamente di contenuti e rende i cittadini schiavi, moderni schiavi ingabbiati per sempre dalla logica del debito. Nel nome del progresso e del consumismo.
E ci siamo dentro tutti, perché non esiste un piano B per nessuno, neanche per la Germania, se si continua a giocare con queste regole. Prendiamo l’esempio del nostro paese: quando l'Italia uscirà dalla crisi, verosimilmente non prima della seconda metà del 2011 (ma c’è anche chi è più pessimista), quando quindi l'economia riprenderà a crescere in modo significativo, si verificherà infatti un forte rialzo dei tassi di interesse.
In questo momento sono artificialmente troppo bassi per non tornare ad aumentare non appena il ciclo economico si rimetterà, anche solo parzialmente, in piedi. Sui mercati internazionali si sta rovesciando una gigantesca quantità di debito pubblico, una massa enorme di titoli finanziari, cioè titoli emessi da tutti gli stati economicamente sviluppati per sostenere i rispettivi piani di spesa pubblica. La ripresa dell'economia porterà contemporaneamente anche le imprese a riaffacciarsi sul mercato dei capitali, per richiedere prestiti o emettendo titoli obbligazionari e facendo, quindi, ulteriormente innalzare il livello dei tassi d’interesse.
Questo accadrà come inevitabile conseguenza del crescente aumento della richiesta di denaro: aumentando la domanda di liquidità, data una costante capacità di assorbimento della domanda di liquidità da parte del mercato dei capitali, il tasso a cui le somme verranno prestate non potrà che salire, anche in misura considerevole.
Ora purtroppo per l'Italia il debito pubblico rappresenta il fardello, le odiose catene che ne impediscono il libero movimento, il libero sviluppo. Il recente considerevole aumento di questo dato è dovuto al crollo del prodotto interno lordo. I due dati sono infatti fortemente correlati: quando infatti il paese cresce può verosimilmente permettersi di sostenere un più alto rapporto tra deficit e prodotto interno lordo senza correre il rischio di insolvenza. Il secondo dato da tenere in considerazione sono i tassi d’interesse: più alti sono i tassi di interesse più basso diventa il punto critico superato il quale il paese diventa tecnicamente fallito; il punto cioè in cui lo Stato non è più in grado di rimborsare le somme ricevute contro le emissioni di titoli del debito pubblico.
Quando si parla di punto di rottura del debito si fa riferimento al momento in cui i potenziali sottoscrittori del debito pubblico italiano chiederanno un tasso di rendimento così elevato da non poter essere pagato dal Tesoro. Questo scenario rappresenterebbe una tragedia per il paese, in quanto più della metà del debito pubblico italiano è nelle mani di istituzioni finanziarie straniere. È dunque inevitabile pensare che una simile caduta avrebbe ripercussioni serissime anche in tutto il continente europeo, Francia e Germania in testa.
Una cosa è certa: la fine di questa crisi segnerà un profondo cambiamento nella produzione di beni e servizi e nel loro relativo consumo. Si stima infatti, causa le pesanti perdite che hanno colpito il sistema angloamericano, che l'inestimabile ricchezza andata bruciata si tradurrà in un - 3% di capitali americani investiti in beni e servizi prodotti in Europa. È vero anche che da questa crisi sono uscite nazioni diverse, che hanno saputo meglio interpretare l'attuale congiuntura economica.
Spesso si sente sostenere che ai consumatori americani si sostituiranno i consumatori cinesi. Purtroppo, nel fare questi ragionamenti semplicistici, ci si dimentica che, ad oggi, l'economia cinese è giusto un terzo di quella americana. Per ovviare dunque a una perdita degli investimenti pari al 3% del Pil americano sui mercati europei, sarà necessario un aumento del 10% del consumo cinese negli stessi settori affinché il livello degli scambi rimanga invariato. Cambiando dunque i consumatori sarà inevitabile il cambiamento anche dei beni e dei servizi richiesti. Le richieste saranno dunque diverse e non è assolutamente detto che a soddisfarle siano gli stessi produttori.
Non è dunque difficile immaginare che la crisi finanziaria maturata negli USA nel 2008 sarà ricordata come il punto di non ritorno, il momento storico in cui è cominciato il declino dell’impero per far posto ad un nuovo assetto degli equilibri mondiali. A livello economico oramai il primato è passato nelle mani dell’Oriente, con la Cina in testa e subito dietro India e Vietnam.
È invece difficile immaginare che l’impero anglo-americano accetti passivamente questo ridimensionamento. Lasciando da parte per ora eventuali scenari terribili e sicuramente non azzardati come quello di una possibile follia sionista che, spalleggiata da un impero in caduta libera, azzardi un attacco all’Iran per riaffermare l’ordine mondiale uscito dalla seconda guerra mondiale e cristallizzato nelle decisioni prese a Bretton Wodds, toccherà vedere quale ruolo vorrà giocare l’Europa in questa nuova fase.
Lungi dal potersi permettere ancora di scadere in facili soluzioni nazionaliste, il continente europeo sarà messo nelle condizioni di dover scegliere se continuare ad essere solo un gigante economico, un nano politico ed un verme militare o, visti anche i rischi che corre di un forte ridimensionamento proprio sul lato economico, fare un salto di qualità ed abbracciare con fiducia una prospettiva politicamente unitaria e federalista.
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di Giuliano Luongo
Le fondamenta economiche dell’Europa tremano. Ancora profondamente scosse dal crack greco, che ha messo a nudo molti difetti strutturali e ruggini politiche all’interno dell’Unione, il colpo inferto dall’esplosione della bolla immobiliare irlandese ha innescato una reazione a catena che potrebbe infliggere danni molto seri all’intero sistema euro. Molte sono le speculazioni in corso provenienti dagli addetti ai lavori, dai capi di stato agli analisti, passando per i dirigenti del FMI: il nodo focale della discussione, arricchita dal non sorprendente sensazionalismo giornalistico più o meno politicamente interessato, verte sul rischio contagio e sulle possibili conseguenze. Tra queste, il possibile abbandono dell’euro, uno spettro già avvistato da alcuni durante “la tragedia greca”.
E’ dunque interessante ripassare le origini di questo terremoto per poterne comprendere l’entità e le conseguenze future e soprattutto per pesare la veridicità delle considerazioni delle Cassandre. La debolezza del sistema irlandese non è storia nuova: dopo un’apparente crescita - che le valse l’appellativo di “tigre celtica” - l’economia dell’isola iniziò a mostrare la sua fragilità, a causa di una ricchezza fondata sul mix di bolle immobiliari, di mercato ed alti stipendi (senza dimenticare la corporate tax più vantaggiosa al mondo), con il solo turismo a fornire una componente “sicura” di entrate.
Questa miscela è esplosa già agli albori della crisi internazionale: l’Irlanda è stato il primo paese dell’eurozona a sentirne gli effetti. Il governo guidato da Brian Cowen cercò di reagire, al 30 settembre 2008, con un pacchetto di salvataggio di 400 miliardi di euro per coprire il debito di sei banche irlandesi: tale misura fu ampliata di altri 85 miliardi per aiutare anche delle banche straniere con numerose attività sul territorio irlandese.
Il crack della Anglo Irish Bank (terza banca del paese), causato non solo dalla congiuntura ma anche dalla corruzione di alcuni dei suoi dirigenti, diede un altro brutto colpo all’economia del paese: il 31 dicembre 2008 il governo nazionalizzò l’istituto, in un’operazione di rifinanziamento di 5,5 miliardi di euro in soccorso anche di altre due banche. Questa instabilità portò, nel primo trimestre 2009, al declassamento del credito irlandese da parte di S&P e Fitch da AAA a AA+, con prospettive di ulteriore downgrading. La risposta governativa alla crisi si concentrò soprattutto sui tagli della spesa sociale, assieme ad un incremento della tassazione ed al taglio del 25% degli stipendi dei manager delle banche nazionalizzate.
Calcolando anche gli ulteriori tagli al budget 2010 (comunicati a dicembre 2009), l’economia irlandese non riuscì a trarne giovamento, con una crescita costante del deficit ed il continuo marcire del sistema bancario: elementi più che sufficienti per confermare, a luglio di quest’anno, il nuovo declassamento, stavolta da parte di Moody’s. Nonostante le proteste dell’agenzia irlandese per la gestione del debito, sia S&P che Fitch hanno confermato l’outlook negativo sull’economia irlandese, abbassando il rating ad A-. L’unica risposta pratica da parte del governo irlandese, dai primi di novembre è stata la preparazione di un piano economico quadriennale per la stabilità, volto a restaurare la fiducia degli investitori.
A margine di questo, ricordiamo come il commissario economico UE Olli Rehn, durante una visita in Irlanda, confermava che il paese non avesse bisogno di alcun supporto dall’Unione. E’ stato smentito il 16 di questo mese, quando i ministri europei delle finanze hanno gettato le basi per un bailout, vista l’apertura dei rischi di contagio per le banche continentali con attività oltremanica e l’instabilità crescente del valore dell’euro.
E veniamo così agli eventi più recenti. L’Irlanda ha esposto il piano quadriennale di austerità, che consiste in una manovra da 15 miliardi di euro tra tagli alla spesa pubblica (compresi licenziamenti) ed incremento della tassazione (diretta ed indiretta). Scopo ultimo: risanare l’economia quanto basta per poter ottenere il bailout congiunto da FMI ed Unione Europea per circa 85 miliardi di euro.
Dovrebbero chiudersi per la sera del 28 novembre gli incontri dei membri dell’Eurogruppo e dell’Ecofin per stabilire i dettagli del prestito. Molto probabilmente si opterà per dare 35 miliardi alle banche e lasciare il resto al risanamento del debito estero. Sono in via di discussione anche ulteriori prestiti bilaterali con Gran Bretagna e Svezia.
Tutto questo ovviamente avendo una crisi circoscritta al territorio irlandese, cosa attualmente non certa. Parlando dei rischi per le banche, i “dirimpettai” britannici sono esposti tramite la Royal Bank of Scotland ed il gruppo Lloyds, che hanno perso rispettivamente il 5,3 ed il 4,4%; segue la spagnola Santander con 3,7% e la belga KBC col 3,3%. Tra le prossime vittime potenziali dell’ascia delle agenzie di rating vi sono anche le sussidiarie irlandesi dei gruppi tedeschi Allianz e Aviva.
E’ stato aperto inoltre il tema degli altri “paesi deboli”, le cui finanze sarebbero in condizioni simili a quelle irlandesi e pertanto foriere di ulteriori crack in altre zone d’Europa.
Il Portogallo è il primo sulla lista, per lo più a causa del deficit crescente (+2,8% year-on-year) e dei dubbi delle agenzie di rating, anche se dai vertici dell’Unione si tende a minimizzare facendo riferimento ad un’economia generalmente stabile con un sistema bancario solido e non tarlato dalla corruzione come quello irlandese. Segue a ruota la Spagna, paese il cui debito non ha esattamente uno stuolo di fan all’estero: Zapatero in persona si è attivato per rassicurare gli investitori pronti a vendere all’impazzata titoli spagnoli. Può sembrare strano, ma l’Italia non pare essere tra le principali preoccupazioni dell’Unione, in quanto paese non ancora a rischio contaminazione.
L’ultimo grande allarme è quello dell’abbandono dell’euro. Dubbi gravi sulla moneta unica erano trasparsi dalle dichiarazioni della Merkel, di certo non famosa per la qualità delle sue esternazioni durante momenti di tensione. Va però sottolineato da dove sia partito il gioco al rialzo sul possibile e prossimo decesso dell’euro, ossia dagli analisti britannici e da quelli americani, da sempre contrari all’esistenza stessa della moneta unica e pronti ad attacchi selvaggi in ogni occasione.
Da Bruxelles sono già partite voci rassicuranti, ma non è tanto nelle dichiarazioni politiche che va letta la quasi impossibilità della dissoluzione dell’eurozona, quanto nella vera realtà economica dei fatti: allo stato attuale, la crisi riguarda i paesi di “periferia” dell’Unione e non il centro dell’eurozona. Inoltre, smantellare il sistema euro porterebbe ad una serie di costi aggiuntivi che non solo danneggerebbero seriamente i paesi “stabili”, ma che affosserebbero definitivamente le economie di quelli più deboli, rendendoli praticamente nulli sul piano economico internazionale.
Non deve rimanere inascoltata la voce del popolo di fronte all’ennesimo disastro innescato dagli istituti di credito: visto il contenuto del piano di austerità, il grosso della crisi sarà pagato dai privati cittadini in moneta contante. A prescindere dalle idee geniali dei vari policy-makers, pare che non ci sarà mai uno strumento per evitare che le crisi danneggino chi non ne sia stato responsabile. Non resta quindi che osservare l’applicazione dei vari piani di risanamento e prestito, con gli occhi aperti su Bruxelles come sulla penisola iberica.