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di Ilvio Pannullo
Non si sono ancora spenti i riflettori delle news dei media allineati sul caso Irlanda che già iniziano i campanelli d'allarme sulla tenuta dei conti pubblici della Spagna e sulla necessità del salvataggio. I credit default swaps (CDS) sul debito del Portogallo sono schizzati di 40 punti base al picco di 542 punti - in base ai dati riportati dall’agenzia Bloomberg - e quelli sulla Spagna hanno segnato un rialzo di 22,25 punti al nuovo massimo di 336 punti.
In aumento anche i CDS sull'Italia con un incremento di 14 punti base a 230, il livello più alto da almeno sei mesi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta che, forse in astinenza per la mancata somministrazione coatta di ottimismo, si dice “preoccupato”. C’era ovviamente da aspettarselo. Insomma nulla di nuovo, anche se è proprio di qualcosa di nuovo che si dovrebbe iniziare a parlare.
In un momento di transizione, di forte incertezza, d’instabilità per le economie di mezzo mondo come quello che stiamo vivendo, è opportuno, infatti, oltre ad analizzare i problemi e le condizioni che hanno reso possibile il loro verificarsi, analizzare anche le possibili soluzioni, magari cercando delle alternative ai dogmi che hanno fino ad oggi dominato la scena nei mercati internazionali. Un ottimo spunto lo si può trovare nel lavoro dell’economista Elinor Ostrom, che il 12 ottobre 2009 è stata insignita del Premio Nobel per l'economia, insieme a Oliver Williamson, per l'analisi della governance e in particolare dei beni comuni.
Il premio Nobel a Elinor Ostrom riconosce l'importanza di aver ipotizzato l'esistenza di una terza via tra Stato e mercato ed è forse anche il segno che negli ambienti accademici s’inizia finalmente a sentire l’esigenza di un’alternativa. Perché è tutto quello di cui abbiamo bisogno: tornare ad immaginare un’alternativa. Un mondo nuovo, diverso, impromettibile, ma in quanto già pensato una consolazione, un dovere, un imperativo.
Quella della Ostrom è infatti una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione "comunitaria" dei beni possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi, a proposito dei beni collettivi globali come l'atmosfera, il clima o gli oceani. Ma molto significativa anche per l'attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori.
Uno dei dogmi fondativi della moderna economia dell’ambiente è la cosiddetta “tragedy of the commons”, risalente a Garrett Hardin. Secondo questa impostazione, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo. L’individuo che si appropria del bene comune deteriorandolo, infatti, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo in quanto la grande parte di questo verrà socializzato.
Poiché tutti ragionano nello stesso modo, il risultato è il saccheggio del bene. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi solo che in parte. Per trovare qualche esempio basterà affacciarsi dal balcone di casa ed osservare come vengono gestiti gli spazi pubblici.
Il ragionamento di Hardin partiva dall’esempio delle enclosures inglesi, precondizione della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni, in questa visione, costituiva il necessario presupposto di una gestione razionale ed efficiente: mentre in regime di libero accesso il pascolo indiscriminato stava portando alla rovina del territorio, il proprietario privato, in quanto detentore del surplus, aveva l’interesse a sfruttare il bene in modo ottimale e a investire per il suo miglioramento.
Quando non vi sono le condizioni per un’appropriazione privata, deve essere semmai lo Stato ad assumere la proprietà pubblica. Solo i beni così abbondanti da non avere valore economico possono essere lasciati al libero accesso; per tutti gli altri occorre definire un regime di diritto di proprietà privato o pubblico. Il merito di Elinor Ostrom è stato quello di ipotizzare l’esistenza di una “terza via” tra Stato (il trionfo della proprietà pubblica) e mercato (il trionfo della proprietà privata), analizzando le condizioni che devono verificarsi affinché le “common properties” non degenerino.
La Ostrom prende le mosse dal lavoro di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell’epoca in cui scrivevano: lo svizzero tedesco, naturalizzato americano, Ciriacy-Wantrup, che ancora negli anni Cinquanta osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste e i pascoli alpini. Distingueva appunto le “common pool resources” (res communis omnium – beni comuni di proprietà della collettività) dai “free goods” (res nullius – semplicemente beni liberi da qualsiasi vincolo proprietario e possessorio).
Nel primo caso, pur in assenza di un’entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l’esistenza di una comunità, l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di chi non le rispetta.
Su queste fondamenta poggia l’edificio concettuale della Ostrom, la cui opera più importante, Governing the Commons, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Il lavoro di Ostrom trova anche punti di contatto con la teoria dei giochi: in particolare con quei filoni di ricerca che, attraverso il concetto di gioco ripetuto, mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali (equilibri di Nash, di cui la stessa “tragedy of the commons” è in fondo un esempio) possano essere evitati se nella ripetizione del gioco gli attori “scoprono” il vantaggio di comportamenti cooperativi, che a quel punto possono essere codificati in vere e proprie istituzioni.
Un po’ quello che è accaduto con la crisi dei subprime, dove i mercati di tutto il mondo hanno potuto sperimentare quanto la regola generale dell’avidità e del profitto ad ogni costo possa provocare danni irreparabili per gli stessi attori del gioco.
È interessante anche notare come il “comunitarismo” della Ostrom trovi qui un punto di contatto con “l’anarchismo” antistatale; ma Ostrom enfatizza piuttosto l’importanza della comunità, della democrazia partecipativa, della società civile organizzata, delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste e non per un calcolo di convenienza. Non risulta che Ostrom si sia mai occupata di finanza, ma è quanto meno singolare la coincidenza del premio con la ri-scoperta dell’importanza del capitale sociale e delle regole condivise per il buon funzionamento dei mercati. La crisi finanziaria che stiamo vivendo, infatti, altro non è che un esempio di “saccheggio” di una “proprietà comune”, la fiducia degli investitori, per ricostruire la quale servirà qualcosa di più di una temporanea iniezione di capitale nel sistema bancario.
Sarà necessario creare le basi per una nuova fiducia fondata su nuove regole fondamentali, cristallizzate magari in nuove e più credibili istituzioni economiche internazionali. Serve cioè tornare a ragionare in modo costruttivo su di un modello di sviluppo alternativo, per tornare ad immaginare un futuro e riappriopriarci della speranza che possa essere migliore del presente.
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di Ilvio Pannullo
Dopo la pioggia di miliardi votati e spesi a tempo di record per salvare gli istituti finanziari “too big to fail”, dopo i due recenti interventi di “alleggerimento quantitativo” della Federal Reserve americana, dopo lo strozzinaggio di Grecia e Irlanda per mano e volontà della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, nessuno può più onestamente dire di non aver capito cos’è in gioco.
Non chiamatelo più capitalismo, quello vero è un’altra cosa. Prevede grandi ricompense per chi riesce, ma anche grandi punizioni per chi fallisce. Qui invece si assiste ad un ritorno al passato: ad una situazione che assomiglia molto a quella precedente la tanto millantata rivoluzione francese, nella quale una casta di nobili era al di sopra di tutto e non pagava mai.
I nostri Paesi non sono più sovrani, né giusti, né democratici. Forse non lo sono mai stati, ma dalla creazione della BCE e dell’Unione Economica Monetaria lo sono ancora meno. Un vero e proprio salto di qualità. La vera democrazia presuppone l’assunzione di responsabilità e un rapporto di causa ed effetto tra il popolo e gli eletti. Ora il vero potere é nelle mani di un mondo finanziario che non rispetta le regole costituite e men che meno lo stato di diritto. E che sta sancendo una pericolosa consuetudine: quella che permette alle banche di scaricare su cittadini incolpevoli le proprie colpe.
Loro sbagliano noi paghiamo. Loro risanano rapidamente, incassano bonus milionari, mentre i popoli sono costretti a subire restrizioni pazzesche per anni e forse decenni, in condizioni, talvolta, di moderna schiavitù. E chi osa protestare viene zittito con il ricatto supremo: o é così o viene giù l’Irlanda. E se viene giù l’Irlanda viene giù il Portogallo, poi la Spagna, l’Italia ed infine l’intera Comunità Europea per via di un complesso domino finanziario. Insomma la fine del mondo. Dunque meglio che pochi si sacrifichino per il bene di tutti.
La Bce dovrebbe essere chiamata a rispondere per non aver monitorato, per aver diffuso stress-test a dir poco ridicoli. Ma non succederà nulla. Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale andrebbero messi sotto inchiesta ed essere costretti a rispondere dei loro errori. Invece, essendo sovranazionali, non sono sottoposti ad alcun tipo di controllo e di verifica. Avanza così una dittatura invisibile, che non sfida apertamente la democrazia e la sovranità nazionale, ma la svuota progressivamente di contenuti e rende i cittadini schiavi, moderni schiavi ingabbiati per sempre dalla logica del debito. Nel nome del progresso e del consumismo.
E ci siamo dentro tutti, perché non esiste un piano B per nessuno, neanche per la Germania, se si continua a giocare con queste regole. Prendiamo l’esempio del nostro paese: quando l'Italia uscirà dalla crisi, verosimilmente non prima della seconda metà del 2011 (ma c’è anche chi è più pessimista), quando quindi l'economia riprenderà a crescere in modo significativo, si verificherà infatti un forte rialzo dei tassi di interesse.
In questo momento sono artificialmente troppo bassi per non tornare ad aumentare non appena il ciclo economico si rimetterà, anche solo parzialmente, in piedi. Sui mercati internazionali si sta rovesciando una gigantesca quantità di debito pubblico, una massa enorme di titoli finanziari, cioè titoli emessi da tutti gli stati economicamente sviluppati per sostenere i rispettivi piani di spesa pubblica. La ripresa dell'economia porterà contemporaneamente anche le imprese a riaffacciarsi sul mercato dei capitali, per richiedere prestiti o emettendo titoli obbligazionari e facendo, quindi, ulteriormente innalzare il livello dei tassi d’interesse.
Questo accadrà come inevitabile conseguenza del crescente aumento della richiesta di denaro: aumentando la domanda di liquidità, data una costante capacità di assorbimento della domanda di liquidità da parte del mercato dei capitali, il tasso a cui le somme verranno prestate non potrà che salire, anche in misura considerevole.
Ora purtroppo per l'Italia il debito pubblico rappresenta il fardello, le odiose catene che ne impediscono il libero movimento, il libero sviluppo. Il recente considerevole aumento di questo dato è dovuto al crollo del prodotto interno lordo. I due dati sono infatti fortemente correlati: quando infatti il paese cresce può verosimilmente permettersi di sostenere un più alto rapporto tra deficit e prodotto interno lordo senza correre il rischio di insolvenza. Il secondo dato da tenere in considerazione sono i tassi d’interesse: più alti sono i tassi di interesse più basso diventa il punto critico superato il quale il paese diventa tecnicamente fallito; il punto cioè in cui lo Stato non è più in grado di rimborsare le somme ricevute contro le emissioni di titoli del debito pubblico.
Quando si parla di punto di rottura del debito si fa riferimento al momento in cui i potenziali sottoscrittori del debito pubblico italiano chiederanno un tasso di rendimento così elevato da non poter essere pagato dal Tesoro. Questo scenario rappresenterebbe una tragedia per il paese, in quanto più della metà del debito pubblico italiano è nelle mani di istituzioni finanziarie straniere. È dunque inevitabile pensare che una simile caduta avrebbe ripercussioni serissime anche in tutto il continente europeo, Francia e Germania in testa.
Una cosa è certa: la fine di questa crisi segnerà un profondo cambiamento nella produzione di beni e servizi e nel loro relativo consumo. Si stima infatti, causa le pesanti perdite che hanno colpito il sistema angloamericano, che l'inestimabile ricchezza andata bruciata si tradurrà in un - 3% di capitali americani investiti in beni e servizi prodotti in Europa. È vero anche che da questa crisi sono uscite nazioni diverse, che hanno saputo meglio interpretare l'attuale congiuntura economica.
Spesso si sente sostenere che ai consumatori americani si sostituiranno i consumatori cinesi. Purtroppo, nel fare questi ragionamenti semplicistici, ci si dimentica che, ad oggi, l'economia cinese è giusto un terzo di quella americana. Per ovviare dunque a una perdita degli investimenti pari al 3% del Pil americano sui mercati europei, sarà necessario un aumento del 10% del consumo cinese negli stessi settori affinché il livello degli scambi rimanga invariato. Cambiando dunque i consumatori sarà inevitabile il cambiamento anche dei beni e dei servizi richiesti. Le richieste saranno dunque diverse e non è assolutamente detto che a soddisfarle siano gli stessi produttori.
Non è dunque difficile immaginare che la crisi finanziaria maturata negli USA nel 2008 sarà ricordata come il punto di non ritorno, il momento storico in cui è cominciato il declino dell’impero per far posto ad un nuovo assetto degli equilibri mondiali. A livello economico oramai il primato è passato nelle mani dell’Oriente, con la Cina in testa e subito dietro India e Vietnam.
È invece difficile immaginare che l’impero anglo-americano accetti passivamente questo ridimensionamento. Lasciando da parte per ora eventuali scenari terribili e sicuramente non azzardati come quello di una possibile follia sionista che, spalleggiata da un impero in caduta libera, azzardi un attacco all’Iran per riaffermare l’ordine mondiale uscito dalla seconda guerra mondiale e cristallizzato nelle decisioni prese a Bretton Wodds, toccherà vedere quale ruolo vorrà giocare l’Europa in questa nuova fase.
Lungi dal potersi permettere ancora di scadere in facili soluzioni nazionaliste, il continente europeo sarà messo nelle condizioni di dover scegliere se continuare ad essere solo un gigante economico, un nano politico ed un verme militare o, visti anche i rischi che corre di un forte ridimensionamento proprio sul lato economico, fare un salto di qualità ed abbracciare con fiducia una prospettiva politicamente unitaria e federalista.
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di Giuliano Luongo
Le fondamenta economiche dell’Europa tremano. Ancora profondamente scosse dal crack greco, che ha messo a nudo molti difetti strutturali e ruggini politiche all’interno dell’Unione, il colpo inferto dall’esplosione della bolla immobiliare irlandese ha innescato una reazione a catena che potrebbe infliggere danni molto seri all’intero sistema euro. Molte sono le speculazioni in corso provenienti dagli addetti ai lavori, dai capi di stato agli analisti, passando per i dirigenti del FMI: il nodo focale della discussione, arricchita dal non sorprendente sensazionalismo giornalistico più o meno politicamente interessato, verte sul rischio contagio e sulle possibili conseguenze. Tra queste, il possibile abbandono dell’euro, uno spettro già avvistato da alcuni durante “la tragedia greca”.
E’ dunque interessante ripassare le origini di questo terremoto per poterne comprendere l’entità e le conseguenze future e soprattutto per pesare la veridicità delle considerazioni delle Cassandre. La debolezza del sistema irlandese non è storia nuova: dopo un’apparente crescita - che le valse l’appellativo di “tigre celtica” - l’economia dell’isola iniziò a mostrare la sua fragilità, a causa di una ricchezza fondata sul mix di bolle immobiliari, di mercato ed alti stipendi (senza dimenticare la corporate tax più vantaggiosa al mondo), con il solo turismo a fornire una componente “sicura” di entrate.
Questa miscela è esplosa già agli albori della crisi internazionale: l’Irlanda è stato il primo paese dell’eurozona a sentirne gli effetti. Il governo guidato da Brian Cowen cercò di reagire, al 30 settembre 2008, con un pacchetto di salvataggio di 400 miliardi di euro per coprire il debito di sei banche irlandesi: tale misura fu ampliata di altri 85 miliardi per aiutare anche delle banche straniere con numerose attività sul territorio irlandese.
Il crack della Anglo Irish Bank (terza banca del paese), causato non solo dalla congiuntura ma anche dalla corruzione di alcuni dei suoi dirigenti, diede un altro brutto colpo all’economia del paese: il 31 dicembre 2008 il governo nazionalizzò l’istituto, in un’operazione di rifinanziamento di 5,5 miliardi di euro in soccorso anche di altre due banche. Questa instabilità portò, nel primo trimestre 2009, al declassamento del credito irlandese da parte di S&P e Fitch da AAA a AA+, con prospettive di ulteriore downgrading. La risposta governativa alla crisi si concentrò soprattutto sui tagli della spesa sociale, assieme ad un incremento della tassazione ed al taglio del 25% degli stipendi dei manager delle banche nazionalizzate.
Calcolando anche gli ulteriori tagli al budget 2010 (comunicati a dicembre 2009), l’economia irlandese non riuscì a trarne giovamento, con una crescita costante del deficit ed il continuo marcire del sistema bancario: elementi più che sufficienti per confermare, a luglio di quest’anno, il nuovo declassamento, stavolta da parte di Moody’s. Nonostante le proteste dell’agenzia irlandese per la gestione del debito, sia S&P che Fitch hanno confermato l’outlook negativo sull’economia irlandese, abbassando il rating ad A-. L’unica risposta pratica da parte del governo irlandese, dai primi di novembre è stata la preparazione di un piano economico quadriennale per la stabilità, volto a restaurare la fiducia degli investitori.
A margine di questo, ricordiamo come il commissario economico UE Olli Rehn, durante una visita in Irlanda, confermava che il paese non avesse bisogno di alcun supporto dall’Unione. E’ stato smentito il 16 di questo mese, quando i ministri europei delle finanze hanno gettato le basi per un bailout, vista l’apertura dei rischi di contagio per le banche continentali con attività oltremanica e l’instabilità crescente del valore dell’euro.
E veniamo così agli eventi più recenti. L’Irlanda ha esposto il piano quadriennale di austerità, che consiste in una manovra da 15 miliardi di euro tra tagli alla spesa pubblica (compresi licenziamenti) ed incremento della tassazione (diretta ed indiretta). Scopo ultimo: risanare l’economia quanto basta per poter ottenere il bailout congiunto da FMI ed Unione Europea per circa 85 miliardi di euro.
Dovrebbero chiudersi per la sera del 28 novembre gli incontri dei membri dell’Eurogruppo e dell’Ecofin per stabilire i dettagli del prestito. Molto probabilmente si opterà per dare 35 miliardi alle banche e lasciare il resto al risanamento del debito estero. Sono in via di discussione anche ulteriori prestiti bilaterali con Gran Bretagna e Svezia.
Tutto questo ovviamente avendo una crisi circoscritta al territorio irlandese, cosa attualmente non certa. Parlando dei rischi per le banche, i “dirimpettai” britannici sono esposti tramite la Royal Bank of Scotland ed il gruppo Lloyds, che hanno perso rispettivamente il 5,3 ed il 4,4%; segue la spagnola Santander con 3,7% e la belga KBC col 3,3%. Tra le prossime vittime potenziali dell’ascia delle agenzie di rating vi sono anche le sussidiarie irlandesi dei gruppi tedeschi Allianz e Aviva.
E’ stato aperto inoltre il tema degli altri “paesi deboli”, le cui finanze sarebbero in condizioni simili a quelle irlandesi e pertanto foriere di ulteriori crack in altre zone d’Europa.
Il Portogallo è il primo sulla lista, per lo più a causa del deficit crescente (+2,8% year-on-year) e dei dubbi delle agenzie di rating, anche se dai vertici dell’Unione si tende a minimizzare facendo riferimento ad un’economia generalmente stabile con un sistema bancario solido e non tarlato dalla corruzione come quello irlandese. Segue a ruota la Spagna, paese il cui debito non ha esattamente uno stuolo di fan all’estero: Zapatero in persona si è attivato per rassicurare gli investitori pronti a vendere all’impazzata titoli spagnoli. Può sembrare strano, ma l’Italia non pare essere tra le principali preoccupazioni dell’Unione, in quanto paese non ancora a rischio contaminazione.
L’ultimo grande allarme è quello dell’abbandono dell’euro. Dubbi gravi sulla moneta unica erano trasparsi dalle dichiarazioni della Merkel, di certo non famosa per la qualità delle sue esternazioni durante momenti di tensione. Va però sottolineato da dove sia partito il gioco al rialzo sul possibile e prossimo decesso dell’euro, ossia dagli analisti britannici e da quelli americani, da sempre contrari all’esistenza stessa della moneta unica e pronti ad attacchi selvaggi in ogni occasione.
Da Bruxelles sono già partite voci rassicuranti, ma non è tanto nelle dichiarazioni politiche che va letta la quasi impossibilità della dissoluzione dell’eurozona, quanto nella vera realtà economica dei fatti: allo stato attuale, la crisi riguarda i paesi di “periferia” dell’Unione e non il centro dell’eurozona. Inoltre, smantellare il sistema euro porterebbe ad una serie di costi aggiuntivi che non solo danneggerebbero seriamente i paesi “stabili”, ma che affosserebbero definitivamente le economie di quelli più deboli, rendendoli praticamente nulli sul piano economico internazionale.
Non deve rimanere inascoltata la voce del popolo di fronte all’ennesimo disastro innescato dagli istituti di credito: visto il contenuto del piano di austerità, il grosso della crisi sarà pagato dai privati cittadini in moneta contante. A prescindere dalle idee geniali dei vari policy-makers, pare che non ci sarà mai uno strumento per evitare che le crisi danneggino chi non ne sia stato responsabile. Non resta quindi che osservare l’applicazione dei vari piani di risanamento e prestito, con gli occhi aperti su Bruxelles come sulla penisola iberica.
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di Ilvio Pannullo
I 27 paesi dell’Unione Europea hanno recentemente raggiunto un'intesa su un fondo permanente per i paesi dell’area euro. Viene così solo parzialmente soddisfatta la richiesta della cancelliera tedesca Merkel: il presidente dell’eurogruppo Van Rompuy dovrà preparare un rapporto sulla "eventuale revisione" del Patto di Lisbona, un accordo nato già superato. Il momento è di quelli decisivi: si dovrà infatti sperare che i gruppi dirigenti degli Stati membri riescano a trovare la quadra per assicurare all’economia europea una comune ed equa gestione.
Davanti alla sempre più evidente crescita, in termini tanto economici quanto politici e militari, di paesi come il Brasile, la Federazione Russa, l’India e la Repubblica Popolare Cinese, con l’impero angloamericano in piena crisi di credibilità, un’Europa divisa da inutili ed anacronistici nazionalismi, non potrà infatti che crollare sotto il peso di una competizione ingiusta e brutale. Una sfida che, se giocata con le regole attuali, non potrà che essere persa.
La crisi americana, nata dallo scoppio dell’ultima bolla speculativa che ha travolto la credibilità di tutte le istituzioni finanziarie, nessuna esclusa, ha innescato un cambiamento negli assetti e nei rapporti internazionali oramai inarrestabile e per certi aspetti anche auspicabile.
Per recuperare la fiducia dei consumatori e dei mercati, chi ha potuto - quegli stati cioè che sono ancora nelle condizioni di poter controllare politicamente il settore bancario e la leva monetaria - è intervenuto stampando carta e massimizzando l’incidenza del debito sull’economia reale. In poche parole si è deciso, per salvare la faccia e il salvabile, di scaricare le disastrose conseguenze della scellerata gestione dell’economia sulle spalle di quelle giovani generazioni, che domani dovranno pagare con le proprie pensioni e i propri diritti sociali colpe di altri.
Recentemente, dopo il primo QE (quantitative easying) la Federal Reserve Bank ha deciso di stampare altri 600 miliardi di dollari da iniettare direttamente nella pancia di quegli istituti bancari ancora pieni di titoli strutturati, passando prima per l’acquisto di titoli del debito pubblico statunitense: quegli strumenti finanziari derivati che prima della crisi erano guardati dagli esperti del settore come l’ultima grande invenzione per la ripartizione del rischio, ora valgono meno della carta straccia. L’ennesima illusione.
Se i problemi sono comuni, purtroppo però non si può dire lo stesso delle soluzioni. Se l’impero può sopperire al crollo della credibilità del proprio sistema bancario e finanziario con la violenta credibilità delle proprie forze armate dislocate in tutti gli angoli del mondo, altrettanto non si può dire dell’Europa. Da qui la preoccupazione franco-tedesca a mantenere alta la reputazione della divisa europea, garante di quel complesso economico produttivo che ha fatto la fortuna del nostro continente e che adesso è a rischio delocalizzazione.
Gli Stati Uniti hanno appena iniziato le pratiche di quello che, inevitabilmente, sarà il loro fallimento. Basta qualche cifra per poter comprendere l'entità del problema: nel 2007 la Cina comprava circa la metà dei titoli del debito pubblico americano di nuova emissione; nel 2008, nel pieno dell'ultima crisi finanziaria ne ha acquistato circa il 20% ; nel 2009, cioè l'anno scorso, ne ha acquistato solamente il 5%. La politica economica cinese è dunque chiarissima: il dragone rosso si ritira dal mercato dei titoli del debito pubblico americano.
Dal momento che la Repubblica Popolare Cinese copriva da sola, sostenendolo attraverso il suo titanico disavanzo primario, la gran parte del debito pubblico americano, si impone una domanda fondamentale: chi paga adesso? Chi riequilibrerà la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti d'America? La risposta deve essere chiara: nessuno. In queste condizioni non ci sarà nessuno disposto a sostenere l'economia americana.
La situazione è drammatica, in quanto gli Stati Uniti d'America rimangono pur sempre la prima superpotenza militare al mondo ed è dunque fuori discussione l'idea che si limitino semplicemente a prendere atto del cambiamento dello status quo. In questo sono sempre stati molto coerenti, l’hanno sempre detto: il tenore di vita degli americani non è in discussione né potrà mai esserlo.
La situazione è molto più grave di quella che sembrano descrivere gli economisti tedeschi e inglesi quando pensano a piani di rigore e a misure di feroce austerità per ridare alle proprie divise una dignità e una credibilità spendibili sui mercati mondiali. Il problema, infatti, non è solo ravvisabile nella sicura inflazione che questa enorme emissione di moneta creerà; il punto centrale è comprendere chi farà presente agli americani che il loro livello di consumi non è più sostenibile.
La situazione cui stiamo per assistere potrebbe essere l'inizio della catastrofe: quella che si potrebbe definire - mutuando un termine dalla fisica classica e trasportandolo in un ragionamento macroeconomico - una transizione di fase. Come quando l'acqua viene fatta bollire prima che si trasformi in vapore acqueo, evaporando non appena raggiunge la temperatura limite. Se per l'acqua è un cambiamento di stato, in termini economici e sociali rappresenta il collasso del sistema. In questo momento l’acqua sta iniziando a bollire. Si guardi alla Grecia per una conferma.
Qua e là si sentono voci che sostengono che l’Europa imploderà e che la Grecia, nonostante l’adozione del piano di austerità, sarà la prima a cadere, seguita da Spagna, Portogallo e Irlanda. C’è tuttavia anche chi sostiene che questo non si verificherà, perché tutti i paesi europei sono legati fra loro in un immenso domino finanziario di debiti. E questo corrisponde sicuramente a verità. Inoltre, le grandi banche europee si trovano direttamente esposte in Grecia, come ad esempio la Crédit Agricole che, secondo il Wall Street Job Report, è la banca più colpita dalla crisi.
Secondo le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali, se si aggiungono Spagna e Portogallo, l’esposizione delle banche francesi salirebbe ad un ammontare di 306 miliardi di dollari, un vero e proprio suicidio per i galli cisalpini se si abbandonassero questi paesi alla loro sorte. L’unica soluzione si trova nella creazione di una struttura che metta in atto delle condizioni risolutive e che consenta di sanare i crediti a rischio: un’Agenzia Europea del Tesoro che presti in nome dell’Europa.
Le ipotesi sul tavolo sono diverse. Un Cers, cioè un comitato europeo del rischio sistemico, verrà presto messo in opera, così come un Fondo Monetario Europeo (FME), associato ad un sistema europeo di sorveglianza finanziaria (SESF). Per convincersene, basta leggere le recenti dichiarazioni dei maggiori protagonisti di questa crisi sistemica. Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del FMI, nel marzo 2010 ha dichiarato: «Necessitiamo di un’autorità europea per la risoluzione delle crisi, dotata di potere e di strumenti per gestire nel miglior modo il caso di cedimenti di banche transfrontaliere».
Jacques Attali, famoso economista, nel suo articolo «Dirigeants de l’Europe, agissez!» il 4 maggio 2010 ha scritto: «Deve essere decisa, già da domani, la creazione di un’Agenzia europea del Tesoro, immediatamente autorizzata al prestito in nome dell’Unione, e di un fondo budgetario che abbia mandato di controllo sulle spese dei paesi il cui debito supera l’ 80% del PIL» .
A queste dichiarazioni si aggiunga la posizione del ministro dell’economia tedesco, Rainer Brüderle, che in un articolo del 10 marzo 2010 su Reuters scriveva: «Qualsiasi fondo europeo che fosse creato per salvare economie in difficoltà dell’area euro, non dovrebbe intervenire che nel caso in cui fosse l’intera regione ad essere minacciata dal rischio insolvibilità di uno Stato membro». Segno evidente questo che anche i rigidi crucchi hanno iniziato ad essere sensibili rispetto ad un argomento che tempo fa li vedeva assolutamente contrari.
La verità è che siamo di fronte ad una crisi del debito. Un debito che è sistemico ed esponenziale, vista la natura intrinsecamente fraudolenta del sistema a riserva frazionaria in cui ci ostiniamo a vivere. Osservando infatti le economie teoricamente più avanzate, Inghilterra e Stati Uniti in testa, si può osservare da una parte un debito privato in costante crescita, con cittadini che non riescono più a rimborsare i loro crediti (vedi caso suprime); dall’altra, il debito degli stati, che iniettano migliaia di miliardi nelle banche e nell’economia per mantenere a galla il sistema, appare fuori controllo e paradossalmente espone gli stessi Stati al rischio della speculazione.
Secondo il Fmi, entro la fine del 2010 la Grecia sarà indebitata per il 123% del suo PIL, la Spagna per il 68%, il Portogallo per il 91 %, e l’ Italia per il 130%. Vista l’evoluzione dei tassi, queste cifre sono destinate ad esplodere. Occorrerà andare a cercare il denaro altrove, in una struttura sovranazionale. Una struttura che sicuramente non dovrà essere etero diretta dagli americani, ma realizzata attraverso una cooperazione politica tra i gruppi dirigenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Una gigantesca fuga in avanti, vista la conclamata insostenibilità dell’attuale sistema economico fondato sulla base di un trittico privo di senso: dal debito il consumo, dal consumo il lavoro.
Peggio di ogni altra cosa, ad essere spezzato è il patto sociale, perché è il popolo che sta per passare alla cassa, per una crisi causata dal gotha della finanza. Ammortizzatori e aiuti sociali si riducono al minimo, le pensioni non saranno più che un ricordo, mentre aumenta in modo esponenziale il numero di persone che perde il proprio impiego. La creazione di un Fondo Monetario Europeo, di un CERS, o di un qualsiasi altro organismo, non potrà che ritardare una scadenza che si rivelerà fatale e la disoccupazione, in qualsiasi modo venga affrontata, seguirà il modello della Spagna, che ha superato attualmente il 20 % di disoccupati.
Il patto sociale e il sistema di ammortizzatori e regole è in effetti spezzato, perché le nostre élites sono ormai incapaci di garantire il minimo, vale a dire il lavoro. Le leggi si stanno inasprendo ovunque e la democrazia è oggi in pericolo. Le sommosse in Grecia potrebbero essere solo il segnale d´inizio.
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di Ilvio Pannullo
Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?
Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.
Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.
Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.
Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.
È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.
Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.
C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.
Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?
L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.
Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.
Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.
Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.
Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.
Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.