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di Ilvio Pannullo
Finalmente qualcosa torna a muoversi sotto i cieli d’Europa. E i francesi ne sanno qualcosa: il loro presidente Nicolas Sarkozy ha infatti ribadito che la riforma delle pensioni "andrà avanti", nonostante le forti contestazioni. "La porterò a termine perché il mio dovere in quanto capo dello Stato è di garantire ai francesi che loro stessi e i loro figli potranno contare sulle pensioni", ha dichiarato il capo dello Stato in un comunicato diramato dall'Eliseo.
Peccato che lo stesso risultato possa essere ottenuto utilizzando diverso strategie e quella scelta dal numero uno francese non va proprio giù a gran parte dei suoi concittadini. Proprio ieri si è svolta l'ultima giornata di manifestazioni prima del voto definitivo della legge sulla riforma in Senato, a cui secondo i sindacati hanno partecipato tre milioni e mezzo di persone.
Numeri enormi, specie se si considera che con quella di ieri è la sesta volta in poco più di un mese che i sindacati riescono a riempire le piazze di tutta Francia. Sarkozy ha anche deplorato i "disordini" generati dal blocco dei depositi di carburante, sostenendo che costituivano "una ingiustizia" verso "la maggioranza dei francesi che vuole continuare a circolare liberamente". A quale maggioranza faccia però riferimento ancora nessuno l’ha capito.
E che qualcosa si muove non lo certifica solo la rivolta francese. Accade di rivedere in ogni dove di Europa agitazioni sociali, scioperi generali e lavoratori finalmente in strada a rivendicare con forza quei diritti dati per acquisiti e adesso unilateralmente rimessi in discussione. Quella organizzata dalla Fiom a Roma lo scorso sabato, é stata una manifestazione imponente con al centro il tema della difesa della democrazia e dei princìpi costituzionali nell'organizzazione del lavoro. Ma non é stata la prima e non sarà l'ultima, in una Europa che propone un modello di profitti per le imprese da primo mondo a fronte di un'organizzazione del lavoro e salari da terzo mondo.
I paesi P.I.I.G.S. (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sentendo aria di macelleria sociale, sembrano infatti aver ritrovato una dimenticata dignità, registrando al loro interno movimenti sociali di ampie dimensioni, tutti indistintamente uniti nel chiedere che i danni della crisi siano sostenuti da chi quei danni li ha oggettivamente creati.
Stessa faccia, stessa razza verrebbe da dire. Ad essere uguali sono invece i problemi e le possibili soluzioni da mettere in campo per evitare una desertificazione non solo e non tanto economica, quanto soprattutto produttiva. Ma andiamo con ordine. Il Portogallo ha recentemente provato a convincere i mercati finanziari che i suoi titoli di Stato sono ancora degni di fiducia. Negli ultimi giorni di settembre le ultime operazioni di risanamento hanno previsto un taglio agli stipendi degli statali del 5% per contenere la spesa pubblica a partire dal 2011. Il governo di Lisbona è poi intervenuto sul lato delle entrate, con un aumento dell'Iva dal 21 al 23%. Ma gli spread - cioè i rendimenti pretesi dai mercati per sottoscrivere il debito di nuova emissione - dei titoli di Stato restano ancora su livelli record.
Così come quelli dell'Irlanda, la cui situazione appare sempre più compromessa. A peggiorare le cose per l’Eire ci si è messa la crisi della Anglo Irish Bank. Il piano di salvataggio potrebbe costare al governo di Dublino fino a 30 miliardi di Euro, una cifra che non può permettersi in questo momento. In questo periodo si potrà capire meglio anche quanto gli investitori si fidano dell'Italia. La crisi politica, che fino a ieri mattina ha animato la vita del Belpaese, pare essere già rientrata (sarà vero?); aveva fatto recentemente aumentare in modo significativo il differenziale di rendimento tra Bot e Bund tedeschi, segno che i mercati temevano l'apertura di una lunga fase di instabilità.
Anche la Grecia - di cui ci siamo interessati più volte su Altrenotizie - è di nuovo semiparalizzata per via delle proteste contro l'austerity e le riforme del governo di Giorgio Papandreu. Ai camionisti, che hanno deciso il proseguimento per la terza settimana consecutiva della protesta, si sono recentemente aggiunti i lavoratori dei trasporti ferroviari e stradali urbani ed extraurbani, dei portuali e dei medici, mentre manifestazioni sono state convocate da tutti i sindacati nel quadro di una scesa in campo a livello europeo. Non pare vero che finalmente i lavoratori di tutto il continente si stiano unendo nella lotta contro politiche di bilancio imposte da un’Europa guidata più dalle banche che dai popoli.
Ma è forse la Spagna il paese che meglio sintetizza il momento storico contingente. E? proprio nella terra della corrida che i trasporti pubblici sono stati semplicemente bloccati, intere città sono andate in tilt per il primo sciopero generale negli otto anni dell'era Zapatero, il settimo da quando c'è la democrazia. La domanda di elettricità nella capitale si è ridotta di un quinto rispetto al livello abituale di un giorno feriale. Ferme le industrie, in particolare il settore metallurgico e quello delle costruzioni.
Io "vado a lavorare", pare abbia detto Josè Luis Zapatero, con una battuta poco felice, mentre varcava il portone d'ingresso delle Cortes - il Parlamento spagnolo - nella giornata del primo sciopero generale in sei anni e mezzo di governo socialista. Apparentemente sicuro di sé, come sempre, non è da escludere che con il passare delle ore il premier spagnolo abbia perso in parte la sua tradizionale pacatezza. Non solo perché il livello straordinariamente alto di adesione alla protesta ha permesso ai sindacati di parlare di un "successo indiscutibile". Ma soprattutto perché è probabile che sia stato proprio lo sciopero a convincere gli analisti di Moody's a tagliare - la notizia è stata ufficializzata il 30 settembre quindi il giorno successivo alla mobilitazione - il rating sul debito della Spagna da AAA a AA1, con outlook stabile, spiegando di prevedere deboli prospettive di crescita economica per il paese iberico.
Moody's si aspetta che l'economia cresca in media dell'1% l'anno per diversi anni. Ha inoltre aggiunto che la Spagna raggiungerà gli obiettivi di bilancio che si é proposta per l'anno in corso e per il prossimo, ma saranno necessarie altre misure per ridurre il deficit dopo il 2011. Il riequilibrio dell'economia spagnola, aldilà del settore costruzioni, richiederà dunque diversi anni secondo Moody's, ma l'impegno del governo nella riduzione del debito - vista anche la forte risposta delle classi sociali colpite dai piani di riforma - è tra le ragioni principali che hanno portato a rivedere il rating al ribasso. Va rilevato, poi, che anche Ficht aveva tagliato il rating della Spagna con un outlook negativo ad aprile.
L’alta adesione allo sciopero ha preoccupato non poco il leader spagnolo e lo dimostra in modo chiaro soprattutto il suo tentativo realizzato in extremis - proprio alla vigilia della manifestazione - di tendere una mano ai sindacati con la proposta di aprire un tavolo negoziale sui regolamenti applicativi della riforma del mercato del lavoro, varata pochi giorni prima dal Parlamento. Un'apertura così timida che i leader delle due principali organizzazioni dei lavoratori - la Ugt e la Comissiones Obreras - l’hanno subito rispedita al mittente.
Qualcuno in Italia potrebbe prendere appunti e imparare. Per i sindacati spagnoli è l'intera legge a dover essere rimessa in discussione: oltre che inadeguata, la ritengono lesiva dei diritti dei lavoratori. In fondo, per una volta, concordano con la destra parlamentare del partito popolare, secondo cui si tratta di una riforma che "non serve né a generare fiducia, né ad aumentare i consumi, né a favorire la produzione e la creazione di posti di lavoro".
Solo su un punto la legge è chiara: d'ora in poi, per le aziende, sarà più facile licenziare, oltretutto con costi nettamente più bassi (appena 20 giorni di indennizzo per anno lavorato) con la semplice giustificazione di "perdite attuali o previste" o per la "diminuzione persistente del livello di entrate". Inoltre, si autorizza l'interruzione del rapporto di lavoro per assenteismo. Un attacco ai lavoratori e ai diritti sociali in pieno stile Marchionne; segno che se da una parte gli operai faticano a fare fronte comune contro le politiche dei governi europei, dall’altra i padroni non hanno certo perso tempo nel pressare i rispettivi esecutivi con la minaccia della delocalizzazione.
Ma veniamo alla protesta. Con la scelta di portare al centro dell'attenzione, in questa giornata di sciopero generale, il tema della reforma laboral i sindacati hanno cercato di allontanare il sospetto di una protesta "inutile e tardiva", com'è stata definita da alcuni settori della destra politica e mediatica, che sono arrivati a ipotizzare una sorta di gioco delle parti concordato con il governo per non perdere la faccia dopo anni di assoluta pace sociale. E in effetti, lo sciopero arriva solo quattro mesi dopo l'annuncio del durissimo pacchetto di misure di austerità varato dall'esecutivo, in seguito alle pressioni determinanti esercitate dall'Unione Europea nei giorni più drammatici della crisi finanziaria.
Fu quello il momento in cui la società spagnola si rese conto all'improvviso - con il taglio degli stipendi dei funzionari pubblici, il blocco delle pensioni e la drastica riduzione degli investimenti in infrastrutture - che Zapatero si stava rimangiano d'un colpo sei anni di politica tutta basata sul mantenimento dello stato sociale e sul rispetto delle garanzie fondamentali per i lavoratori. I sindacati hanno tuttavia consentito al premier di superare indenne un'estate in cui, solo grazie al tradizionale andamento favorevole dell'occupazione stagionale, per un paio di mesi si è diffusa l'impressione che le cose potessero cominciare a migliorare. Una situazione in tutto e per tutto uguale a quella dei fratelli greci impegnati nella resistenza ad oltranza contro le politiche varate dal governo Papandreu.
Riforme varate e difese dai governi ma decise e immaginate nei consigli di amministrazione delle banche creditrici dello Stato. Alla ripresa autunnale, in Grecia come in Spagna é tutto come prima: l'ultimo dato statistico parla di un nuovo incremento dei senza lavoro nel paese iberico, con 60.000 disoccupati in più ad agosto. In totale sono sempre circa 4 milioni, quasi il 20%, ovvero il doppio della media europea.
Nel frattempo, come se non bastasse, Zapatero ha anche insistito sulla necessità di portare a 67 anni l'età pensionabile (un’altra riforma sulla quale i sindacati si dicono intenzionati a dare battaglia) e, appena pochi giorni fa, ha presentato in Consiglio dei Ministri il progetto di bilancio per il 2011, per il quale si è assicurato il decisivo appoggio parlamentare del partito nazionalista basco, in cambio di nuove concessioni a favore della già vasta autonomia regionale.
Manco a dirlo, una nuova legge "lacrime e sangue", dove neppure l'annuncio di una stangata fiscale per i più ricchi (è previsto un aumento dell'Irpef dal 43 al 44% per i redditi superiori ai € 120.000 e al 45% per chi raggiunge il € 175.000 l’anno) gli è servito a raccogliere consensi tra i gruppi di sinistra.
Anche perché l'esigenza di riportare il deficit entro i limiti del 3% nel 2013 ha costretto il governo a confermare uno ad uno tutti i tagli di spesa previsti. È per questo che, mentre i sondaggi continuano a sancire - ormai da mesi - un vantaggio netto dei popolari sui socialisti, un protagonista storico della politica spagnola, il vecchio leader comunista Santiago Carrillo, paragona la solitudine di Zapatero a quella che soffrì il primo presidente della democrazia, Adolfo Suarez, nei mesi tragici che precedettero il golpe del 23 febbraio 1981.
Un punto è quindi importante da sottolineare: indipendentemente dal colore politico del governo in carica, il costo della crisi finanziaria, in tutta Europa, viene scaricato sui lavoratori e sull’economia reale. Di fronte a ciò, in controtendenza rispetto chi vede solamente depressione e senso d’impotenza, questa crisi potrebbe rappresentare paradossalmente una fonte d’ispirazione: generare speranza al posto del senso di colpa in chi si vede negati i propri diritti, ottimismo in un futuro diverso invece della rassegnazione davanti un presente tropo brutto per essere vero. Costruire una resistenza comunitaria, europea, finalmente post-ideologica, all’interno delle nostre comunità alla fine dell’era della finanza e delle banche, potrebbe rappresentare la via per la transizione verso un futuro più localistico, naturale, umano, condivisibile e partecipato.
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di Michele Paris
Il summit dei membri del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale in corso nel fine settimana a Washington è giunto nel bel mezzo del conflitto tra le maggiori potenze economiche del pianeta e quelle emergenti sul valore delle rispettive monete. Con il persistere della crisi economica e delle turbolenze sui mercati finanziari, sono infatti sempre più numerosi i paesi che ricorrono alla manipolazione della propria valuta e all’imposizione di misure daziarie sulle merci estere per stimolare la crescita interna, con il rischio concreto di far sfociare le tensioni diffuse in scontri che potrebbero andare al di là dell’ambito commerciale.
I provvedimenti, adottati un po’ ovunque all’indomani del tracollo finanziario inaugurato da Lehman Brothers nell’autunno del 2008, se pure hanno alleviato gli effetti della crisi, non hanno sostanzialmente corretto le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale. Al contrario, gli sforzi messi in atto dai governi per salvare gli istituti bancari sull’orlo del baratro stanno imponendo politiche di rigore che peggiorano la situazione economica e aggravano il disagio sociale per milioni di cittadini.
Di conseguenza, per continuare ad assicurare un mercato alle proprie grandi aziende, i governi e le banche centrali di molti paesi cercano di sfruttare a loro favore gli strumenti monetari di cui dispongono per tenere artificialmente basso il livello della valuta e favorire le esportazioni. Iniziative di questo genere da parte di un determinato paese causano necessariamente la rivalutazione della moneta di un’economia concorrente, provocando gli scontri e le tensioni attualmente in atto.
Tra i paesi che cercano di utilizzare la crisi economica per favorire i propri interessi e quelli delle proprie corporation spiccano naturalmente gli Stati Uniti. Primi finanziatori del FMI, sul quale detengono anche un vero e proprio potere di veto, gli USA hanno da tempo orchestrato una campagna per cercare di limitare gli spazi di manovra in ambito monetario dei rivali, in primo luogo la Cina. A questo scopo, l’appuntamento di Washington è servito a raccogliere il consenso degli alleati europei e asiatici per puntare il dito contro Pechino, da dove si vorrebbe arrivassero provvedimenti più incisivi per far lievitare il valore del renminbi (o yuan).
Oltre alla Cina, le minacce statunitensi sono rivolte a tutti quei paesi che possono vantare un segno positivo nella loro bilancia commerciale, come gli alleati Giappone e Germania, contro i quali però i toni risultano decisamente più attenuati. Così, il più recente rapporto sull’economia mondiale e sulla stabilità finanziaria globale, condotto dal Fondo Monetario e reso pubblico la settimana scorsa, segue il dettato di Washington chiedendo un maggiore bilanciamento dell’economia mondiale. In poche parole, l’aumento delle esportazioni per quei paesi in deficit - come appunto gli USA - ed una riduzione per quelli che hanno un’economia fondata precisamente sull’export.
Nonostante gli avvertimenti, in ogni caso, a prevalere continua ad essere il disaccordo e ogni paese cerca di dare uno stimolo alla propria economia stagnante sostenendo le proprie esportazioni. Così facendo, invece di diminuire, aumentano sia gli squilibri sia il rischio di una deriva protezionistica, come accadde durante la Grande Depressione degli anni Trenta. Solo nelle ultime settimane, ad esempio, paesi come il Brasile, che hanno visto rinforzarsi la propria moneta in seguito ad un afflusso di capitali speculativi, si sono mossi per prendere contromisure adeguate.
Se il governo di Brasilia ha raddoppiato il carico fiscale per gli investitori stranieri che acquistano i bond brasiliani, il Giappone ha a sua volta da poco annunciato la vendita di due mila miliardi di yen per svalutare la moneta nazionale e promuovere l’export. Anche Washington, d’altra parte, non disdegna manovre manipolative allo stesso scopo, tanto che nonostante le proteste nei confronti degli altri paesi, il dollaro prosegue la sua picchiata nei confronti di quasi tutte le principali altre monete. Lo scorso mese di settembre, inoltre, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato una legge esplicitamente rivolta verso Pechino, grazie alla quale il Ministero del Commercio avrebbe facoltà di imporre nuovi dazi sui prodotti di importazione provenienti da paesi definiti manipolatori di valuta.
Alla polemica nei confronti della Cina promossa in primo luogo dal Segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, si è unita anche l’Unione Europea, i cui vertici durante un recente meeting con i paesi asiatici a Bruxelles hanno chiesto ufficialmente al primo ministro cinese Wen Jiabao un netto apprezzamento del renminbi nel confronto con l’euro.
L’obiettivo propagandato dal FMI, dietro richiesta degli Stati Uniti, per un riequilibrio dei rapporti tra le valute delle principali potenze mondiali appare peraltro difficilmente raggiungibile in un contesto di persistente precarietà economica. Le stesse stime di crescita del Fondo Monetario per i paesi sviluppati sono infatti tutt’altro che confortanti, con un tasso che nel 2011 sarà praticamente per tutti inferiore rispetto a quello dell’anno in corso.
Se il consiglio per le economie cosiddette avanzate è sempre quello del “consolidamento fiscale” e il conseguente abbattimento della spesa pubblica per sostenere la competitività, per i paesi emergenti la ricetta prevede dunque il rafforzamento delle rispettive valute e l’inevitabile riduzione delle esportazioni. Una prescrizione che favorirebbe unicamente i grandi interessi economici e finanziari dei paesi più ricchi, producendo al contrario, in un paese come la Cina, licenziamenti di massa e l’impoverimento di ampi strati della popolazione.
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di Ilvio Pannullo
I nodi stanno arrivando al pettine. Le conseguenze della crisi finanziaria scoppiata negli USA nel 2008 stanno per abbattersi sui bilanci degli Stati che, per evitare il tracollo dell’intera economia, si fecero carico, nel momento di peggiore difficoltà dei mercati, delle follie contabili artificiali create da banchieri e tecnocrati spregiudicati. Dopo aver deciso di evitare il fallimento di quelle banche “troppo grandi per fallire” ed essersi accollati, attraverso il varo di piani di risanamento straordinari, i debiti tossici dei maggiori istituti finanziari del continente, agli Stati membri dell’Unione Europea viene adesso chiesto di pagare il conto.
Un conto amaro, troppo amaro per essere pagato. Misure draconiane che costeranno lacrime e sangue e che saranno sopportate - che novità! - da chi è sempre stato abituato a pagare tutto, specialmente i danni provocati da altri. Ecco dunque il senso della nuova austerità europea proposta a fine settembre a Bruxelles: nonostante l’intervento pubblico sia stato necessario per evitare un tracollo altrimenti inevitabile, i numeri parlano di debiti privati ora diventati debiti pubblici e prima o poi i debiti - si sa - vanno pagati.
Il momento è purtroppo arrivato. Quello cui si è assistito il 29 settembre potrebbe essere indicativo - se non paradigmatico - del clima che ci attende nei prossimi anni. Da un lato la Commissione Europea che presenta le sue proposte per ridurre il debito degli Stati troppo indebitati; dall'altro i sindacati di tutta Europa che si sono dati appuntamento nelle strade della capitale belga per una protesta all'insegna dello slogan "non vogliamo pagare il conto della crisi". Mentre l'Italia, un po' in sordina, rivede di nuovo al ribasso le stime di crescita per il prossimo anno.
Va precisato che la Commissione Europea non ha la competenza necessaria ad imporre le misure presentate, non ha cioè il potere di dire l'ultima parola sulle nuove punizioni previste per chi sfora i parametri del rapporto debito/PIL, previsti dal trattato di Maastricht. Chi decide davvero è il Consiglio Europeo (che raccoglie i Capi di Stato e di Governo) e c’è da giurare che in quella sede sarà assai complicato trovare una sintesi, visto che ancora non si è riuscito a trovare un accordo generale sulla linea di intervento da adottare in caso di crisi sistemica. Ma la linea della Commissione è comunque indicativa del clima e di quello di cui si discute.
In sintesi, la ricetta dell’Esecutivo europeo per riportare sotto controllo i conti pubblici e metterli al riparo dagli attacchi speculativi dei mercati, è netta: dato che l'obiettivo è arrivare al pareggio di bilancio nel medio termine, per poterlo raggiungere gli Stati in deficit (quelli cioè che ogni anno spendono più di quanto incassano) devono ridurre il rapporto deficit/PIL dello 0,5% ogni anno. Se questo non succede, se si continua cioè a scialare, la Commissione alzerà un cartellino giallo, dando un avvertimento. Poi passerà alle vie di fatto, pretendendo un deposito infruttifero (cioè una cauzione) pari allo 0,2% del Pil che, se le cose non cambieranno, diventerà una multa.
Per l'Italia lo 0,2% del Pil vale circa 320 milioni di Euro in un anno. Insomma non proprio bruscolini, ma le notizie peggiori purtroppo sono altre. La Commissione, infatti, propone anche che i paesi con un debito pubblico elevato, superiore cioè al 60% del Pil (il nostro è arrivato al 118%), lo riducano dello 0,05% ogni anno della quota che eccede il 60%. Tradotto in soldoni, per l'Italia significherebbe la stratosferica cifra di 52 miliardi di Euro all’anno. Un risanamento assolutamente insostenibile.
"Un debito pubblico enorme è un qualcosa di deleterio e di antisociale, perché vuol dire che non si possono fare spese nei settori in cui c'è bisogno; d'ora in poi deficit e debiti pubblici eccessivi dovranno essere trattati alla stessa stregua", ha spiegato il presidente Barroso nel commentare la proposta della Commissione da lui presieduta. I cittadini di tutta Europa, tuttavia, attendono ancora con impazienza che venga loro spiegato il meccanismo attraverso il quale questo debito si è andato creando nel tempo, per capire meglio cos’è veramente deleterio e antisociale e cosa invece ne è una semplice conseguenza.
Ma questo è un altro discorso. Rimane il fatto che la proposta è sul tavolo e, se fosse approvata così com’è, per l’Italia sarebbe la fine. Purtroppo, nonostante l’intervento alla Camera di Silvio Berlusconi, la richiesta italiana di considerare nel calcolo anche l'indebitamento privato (cosa che ci farebbe sembrare un po' più virtuosi in quanto la vera forza del nostro paese sta proprio nella saggezza e nell’attitudine al risparmio delle famiglie) non sembra essere stata accolta. Il Commissario agli Affari Economici, Olli Rehn, ha però voluto dare un contentino al Governo italiano dichiarando: "Terremo conto del debito privato nel caso in cui abbia un impatto significativo nel servire il debito pubblico". Tradotto: per i paesi che hanno un basso indebitamento privato come l'Italia ci sono margini di trattativa.
C'è dunque da preoccuparsi? Va detto che le sanzioni del patto di stabilità, com’erano state originariamente immaginate, non hanno mai davvero funzionato. Il motivo è che anche i paesi virtuosi come la Germania erano in deficit. E quindi nessuno aveva davvero interesse ad applicare il rigore. I tempi, però, sono cambiati. Ora i tedeschi hanno addirittura approvato una riforma costituzionale che prevede l'obbligo di avere il bilancio in pareggio, congiuntamente alla presenza di un tetto alla pressione fiscale. Si aggiunga che l'attenzione dei mercati finanziari sull'andamento del debito è tale che Portogallo e Irlanda - due dei “maiali europei” insieme a Grecia, Spagna e Italia - stanno già da ora pagando a caro prezzo l’instabilità dei loro conti come interessi supplementari sul debito pubblico di nuova emissione.
E noi? Il Governo in carica ha approvato a luglio una manovra da 25 miliardi che non riduce lo stock del debito, ma si limita a contenere l'aumento della spesa congelando gli stipendi dei dipendenti pubblici e riducendo i trasferimenti dallo Stato agli enti locali. Né più né meno che uno scarica barile in perfetto stile tricolore. Con il risultato che, almeno per ora, l’Italia sembra mantenersi fuori dal cuore dell’occhio del ciclone.
A fine settembre il Governo ha poi diffuso la decisione di finanza pubblica (la nuova versione delle DPEF) per gli anni 2011-2013, che aggiorna le previsioni sull'andamento dell'economia. Stando al documento, la manovra dovrebbe garantire la messa in sicurezza dei conti almeno per un po', con il deficit che dovrebbe scendere al 5% del Pil nel 2010 al 3,9 nel 2011 e, nel 2012, assestarsi sotto la soglia - psicologicamente fondamentale per evitare le attenzioni degli speculatori - del 3%, ossia al 2,7%. La crescita del 2010 si prevede un po' più bassa del previsto (1,2% invece di 1,7%) e sempre un po' più bassa nel 2011, cioè 1,3% che invece di 1,5%. Per capire se il risanamento reggerà, però, bisogna aspettare di verificare se i tagli agli enti locali saranno efficaci.
Cioè se Regioni, Province e Comuni si piegheranno muti davanti alla mannaia imposta dallo Stato centrale, riducendo di conseguenza la spesa nonostante rimangano invariate le competenze loro attribuite, o se, invece, le entrate degli enti territoriali minori aumenteranno (ad esempio con il massiccio aumento delle multe e delle addizionali regionali e comunali su IRPEF e IRAP) per coprire i mancati trasferimenti dallo Stato centrale.
È qui che si gioca la vera partita. Se, infatti, gli enti locali non ci stanno a pagare, anche vista la credibilità politica e l’incapacità del governo centrale nell’immaginare una risposta concreta e credibile per uscire dalla crisi, anche il mondo del lavoro è pronto a dare battaglia. Contestualmente alla presentazione del piano di austerità presentato dalla Commissione Barroso, per le strade di Bruxelles si è assistito a quella che si preannuncia come la rivolta dei sindacati.
"I lavoratori sono in piazza per mandare un messaggio ai leader europei", spiegava dalle strade della capitale belga John Monks, segretario generale della confederazione sindacale europea, promotrice della protesta. Il messaggio è questo: non bisogna rassegnarsi all'austerità perché questo significa far pagare ai cittadini il conto di una crisi maturata in gran parte nel settore della finanza. "Non c'è urgenza, non c'è panico" recitavano alcuni cartelli. I mercati finanziari, però, la pensano diversamente. E purtroppo, almeno in questa fase, sanno essere più persuasivi dei sindacati. Il conflitto sociale e la lotta di classe sembrano finalmente rianimare le strade d’Europa.
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di Mario Braconi
Dopo un processo durato tre settimane, Jérôme Kerviel, il trader di Société Générale capace di far perdere alla banca francese quasi 5 miliardi di Euro grazie alle sue folli speculazioni sui derivati azionari, è stato condannato a scontare in galera un periodo cinque anni (anche se due gli sono stati condonati). Il dispositivo prevede altresì l’obbligo del condannato a rifondere le perdite subite della parte offesa in seguito alla sua condotta.
Una sentenza francamente ridicola, a cominciare dal vistoso artificio retorico mediante il quale si finge di considerare realistico lo scenario di un comune mortale (cui peraltro è stato ovviamente proibito per sempre di prestare servizio presso qualsiasi entità in qualche modo legata al mondo della finanza) che, dopo un lustro in gattabuia, trovi un’occupazione talmente redditizia da consentirgli di trovare i 4,9 miliardi di Euro necessari a rifondere il suo ex datore di lavoro. Considerando la retribuzione media delle famiglie francesi - stima del 2007 - ci vorrebbero “solamente” 136.000 anni, ovvero un intero albero genealogico di oltre 2.700 discendenti di Kerviel, il cui unico scopo nella vita dovrebbe essere quello di indennizzare la banca dove lavorò a suo tempo un lontanissimo predecessore.
Davvero esilarante, a questo proposito, la dichiarazione di Caroline Guillaumin, portavoce di SocGen, la quale, dopo aver affermato l’ovvio (“si tratta di una richiesta simbolica, che la banca non si attende verrà mai soddisfatta”), si spinge oltre, dicendosi soddisfatta della sentenza. Essa, infatti, stabilisce che “la totalità dei danni subiti dalla banca sono riferibili alle azioni di Jérôme Kerviel”. Se si volesse dar credito a una simile scempiaggine, si dovrebbe essere disposti a credere che un impiegato di livello medio, in totale solitudine, sia riuscito a costruire una posizione pari a 50 miliardi di Euro (un valore superiore a quello di mercato dell’intera istituzione finanziaria) sul mercato dei derivati su indici azionari senza che i suoi capi si rendessero conto di nulla. E’ un po’ come ammettere l’esistenza di benefattori che acquistano case intestandole a Ministri della Repubblica Italiana ad insaputa di questi ultimi: si può sempre sostenerlo, ma non c’è garanzia che l’effetto non sia una salva di pernacchie...
Comprensibile, ovviamente, l’entusiasmo della signora Guillamin, perché la sentenza è una specie di pietra tombale sulle inequivocabili responsabilità (certamente negligenza, ma non è da escludersi la connivenza) del management. Poiché il diavolo è nei dettagli, è bene infatti ricordare che i capi di accusa contro Kerviel sono stati abuso di fiducia, truffa e, in mancanza di meglio, “uso non autorizzato dei computer aziendali”.
Cose leggere per una persona che il Presidente della Banca, Monsieur Bouton, all’acme della caos, si era spinto a definire addirittura “terrorista”: un’accusa ancora più ridicola, che farebbe somigliare Kerviel al protagonista dell’ottimo film australiano The Bank (2001), nel quale un neolaureato in matematica, impiegato modello, conquista la sala cambi di una banca al fine di distruggerla (nella fiction, si trattava di una forma di vendetta per il comportamento immorale della banca nei confronti della sua famiglia, distrutta dall’atteggiamento predatorio della banca sua creditrice). Come? Con un modello di trading disegnato per fallire.
Ma la realtà è ben diversa: certo, Kerviel è uomo scaltro quanto superficiale, ma bisogna ammettere che per cominciare a giocare sporco gli è bastato essere un esperto del sistema di back-office di SocGen. Nè si può tacere del modo quanto meno disinvolto con cui la banca “controllava” il rischio che il trader caricava a bilancio: ad esempio, ricorda il Financial Times, veniva monitorata esclusivamente la posizione netta aperta e non il valore assoluto delle operazioni di segno opposto aperte da Kerviel (senza contare che questi era in grado di generarne di fasulle per compensare quelle troppo rilevanti, salvo poi sostituirle alla scadenza con altre finte transazioni dello stesso tipo).
In realtà, sarebbe stato facilissimo smascherare il truffatore, semplicemente facendo quella che per un qualsiasi contabile è un’operazione di routine: riconciliare la posizione sui libri con quella di cassa. Poiché i contratti incriminati erano future e questi, per loro stessa natura, richiedono un margine (ovvero l’obbligo del contraente a versare o ricevere un valore integrativo in caso di variazione rilevante nel valore nominale dell’operazione), sarebbe bastato mettere a confronto la posizione di cassa con quella risultante dalle posizioni in derivati per capire che alle operazioni inventate da Kerviel, come è ovvio, non corrispondeva alcuna marginazione (secondo il Financial Times, spesso le discrepanze erano di svariati miliardi - miliardi di Euro!).
La verità, ricorda sempre il quotidiano finanziario londinese, è che, nell’arco di soli 7 anni (dal 1999 al 2006) il valore apportato dall’unità investment banking di SocGen al bilancio consolidato si è triplicato, fino a pesare circa la metà del giro d’affari della banca francese: una gallina dalla uova d’oro, insomma, nel cui lussuoso pollaio di vetro e cristallo alla Défénce non era opportuno ficcare troppo il naso, a meno che non si desiderasse vedere il prezioso metallo trasformarsi in piombo.
Eppure i segnali di un certo lassismo nei controlli c’erano eccome: non solo un ex ispettore interno della banca ha fatto sapere a Agence France Presse che in SocGen “i controlli erano deboli, i trader non erano puniti se si comportavano male e le ispezioni venivano guardate con sufficienza”; ma nel 2007, solo pochi mesi prima dell’esplosione del caso Kerviel, la Commissione di controllo bancaria francese aveva scritto per ben due volte a Bouton a seguito di una serie di controlli, raccomandando particolare attenzione proprio al settore dei derivati azionari, il settore dove operava Kerviel. Risulta poi agli atti anche l’e-mail di un funzionario della vigilanza di Eurex, che chiedeva al trader ragioni di due grossi ordini.
L’impressione è che il comportamento di Kerviel sia stato tollerato per un lungo periodo; più precisamente fino a che ha prodotto utili (1,4 miliardi di Euro). Poi, non appena il mercato ha cominciato a girare contro e sono cominciate perdite sempre più irreparabili, è stato impossibile ignorare il caso del piccolo Re Mida trasformatosi di colpo in un flagello. A quel punto, la banca ha deciso di intervenire chiudendo tutte le posizioni in vendita montate da Kerviel.
Un vero harakiri: scaraventando sul mercato miliardi di contratti di vendita, oltre a provocare a tutti gli altri operatori danni irreparabili, i vertici di SocGen hanno prodotto un avvitamento verso il basso dei corsi azionari, cosa che ha moltiplicato le perdite anche per SocGen. Un vero e proprio “panic selling”: non a caso, per citare un altro celebre film sul mondo della finanza, “un venditore frettoloso è un venditore morto”.
Il conto da pagare, alla fine, è stato di 6,9 miliardi, ma a quel punto sono stati estratti dal cilindro gli 1,4 miliardi di euro di utili che Kerviel aveva prodotto in tempi di vacche grasse ma che erano rimasti nascosti (!) per lungo tempo in qualche piega di bilancio. E’ evidente che Kerviel è stato solo un ingranaggio (sia pure essenziale) in un meccanismo molto più grande; è altrettanto chiaro che sarà l’unico a pagare. La Banca continuerà a prosperare.
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di Ilvio Pannullo
Sono tornate a cantare le sirene dell’ottimismo: la crisi che non c’era è già finita. Siamo già in ripresa: si ritorna a vedere il segno positivo davanti agli indicatori che misurano la dignità e il benessere dei popoli, quindi tutto é finalmente tornano a splendere come prima ed il futuro sarà migliore del presente. Ma siamo davvero sicuri che tutto vada bene? Chi l’ha detto che la crisi è finita? Sulla base di quali dati economici poggia quest’importante affermazione? Ovviamente si guarda allo stato di salute dell’economia americana per capire cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro. Se infatti Wall Street starnutisce, a Londra generalmente il termometro punta ai 40 gradi, ma se l’economia americana ha un raffreddore, in Europa si rischia di morire per un’influenza virale.
Ecco allora il resoconto in breve di quanto è accaduto recentemente nel cuore pulsante dell’impero: la settimana si è chiusa decisamente in bellezza per la piazza azionaria americana che, a distanza di poche ore dalla flessione di giovedì, non solo è riuscita a recuperare le perdite, ma è stata capace di spingersi anche oltre. Gli acquirenti hanno assunto da subito il comando sfruttando alcune positive indicazioni arrivate dal fronte macroeconomico. Prima dell’apertura a Wall Street è stato diffuso l’aggiornamento relativo agli ordini di beni durevoli che sono scesi dell‘1,3% ad agosto, oltre le previsioni degli analisti che puntavano ad un ribasso dell’1%.
A compensare questa delusione ci ha pensato, però, il dato al netto della componente trasporti, che ha evidenziato una variazione positiva del 2%, rispetto allo 0,8% atteso. Sul versante immobiliare - vero indicatore del reale stato dell’economia americana - si segnala invece che le vendite di case nuove si sono attestate a 288mila unità, in linea con la rilevazione precedente che è stata rivista al rialzo da 276mila a 288mila unità. Il dato si è rivelato inferiore alle previsioni degli analisti che avevano messo in conto una salita a 295mila unità.
Un’indicazione questa che tuttavia non ha scalfito l’ottimismo del mercato che ha continuato a guardare con fiducia alle prospettive della ripresa economica negli Stati Uniti. Il risultato è stato quello di una vera e propria corsa all’acquisto che ha permesso ai tre listini principali di terminare gli scambi sui massimi intraday (l’indicatore finanziario creato da David Bostian che mette in relazione il movimento di prezzo con i volumi scambiati di un titolo).
ll Dow Jones e l’S&P500 sono saliti rispettivamente dell‘1,86% e del 2,12%, mentre il Nasdaq Composite si è fermato a 2.381,22 punti, in salita del 2,33%. Tutto fantastico verrebbe da pensare. Peccato però - ha ammonito il Fondo Monetario Internazionale - che America ed Europa si trovino oggi di fronte alla peggiore crisi dell’occupazione dagli anni ’30. Il rischio - dice sempre il FMI - è “un’esplosione di agitazioni sociali” a meno che non si proceda con attenzione.
Una persona mentalmente sana a questo punto potrebbe interrogarsi sul perché di una situazione tanto paradossale. Com’è possibile che le borse di mezzo mondo addirittura recuperino terreno mentre i dati sul lavoro descrivono una realtà simile a quella che poi sfociò nella Seconda Guerra Mondiale? E’ possibile un tale evidente ossimoro? Può il sole essere freddo? La risposta è una e una soltanto: sì, il sole può essere freddo e i mercati in rally possono descrivere una realtà socioeconomica che definire drammatica sarebbe un eufemismo. Questo è il quadro che ci viene descritto dalle massime autorità di vigilanza dell’economia mondiale : “Il mercato del lavoro è in gravi difficoltà. La Grande Recessione si è lasciata alle spalle una terra desolata di disoccupazione”. A dirlo è stato Dominique Strauss-Kahn a capo dell’FMI, a Oslo nel corso di un summit dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
Strauss-Khan ha detto che una doppia recessione rimane improbabile, ma ha sottolineato che il mondo non è ancora sfuggito ad una crisi sociale ben più grave. Ha sostenuto che sia un grave errore pensare che l’Occidente sia di nuovo in salvo dopo aver barcollato così vicino all’abisso lo scorso anno. “Non siamo al sicuro”, ha detto testualmente. Nel rapporto congiunto FMI-ILO si afferma che dall’inizio della crisi sono andati perduti 30 milioni di posti di lavoro, di cui tre quarti nelle economie più ricche. La disoccupazione globale ha raggiunto il livello di 210 milioni d’individui senza lavoro.
Per non lasciare niente al caso, ha aggiunto che “la Grande Recessione ha lasciato ferite aperte. Un’alta e duratura disoccupazione rappresenta un rischio per la stabilità delle democrazie esistenti”. Si guardi a titolo di esempio alla Grecia, letteralmente strozzata dai debiti e costretta a sopportare la perdita di diritti acquisiti in secoli di lotte tra capitale e lavoro. Misure draconiane che verranno sopportate da chi ha già sopportato di tutto e che ora, non avendo più nulla da perdere, è disposto a perdere tutto pur di conservare quella dignità che spetta ad ogni essere umano. Con tutto quello che questo può significare in termini di violenza e repressione della stessa in nome di un presunto “ordine pubblico”.
Lo studio citato evidenzia poi che le vittime più giovani della recessione, sui vent’anni o poco più, riportano danni permanenti perdendo la fiducia nelle pubbliche istituzioni. Una nuova spirale è costituita da un apparente declino della “intensità dell’occupazione per lo sviluppo” perché il contraccolpo sulla produzione provoca un minore incremento del numero di lavoratori. Per questo motivo è difficile riassorbire tutti quelli lasciati fuori dal mondo del lavoro, anche se la ripresa riprende il ritmo.
Il mondo dovrebbe creare 45 milioni di posti di lavori all’anno nella prossima decade solo per stare a galla. Insomma nella migliore delle ipotesi si tratta di favole, nella peggiore di un depistaggio voluto e lasciato serpeggiare nel mainstream televisivo per distrarre le masse dal nocciolo del problema, che rimane la creazione di un mercato mondiale dei capitali e delle merci senza però che a globalizzarsi siano anche i diritti civili, politici e sociali.
Olivier Blanchard, il capo economista del FMI, ha detto che in passato la percentuale di lavoratori disoccupati è cresciuta ad ogni fase negativa, ma questa volta la cifre hanno visto un’impennata. “La disoccupazione a lungo termine è fortemente allarmante: negli USA la metà dei disoccupati è stata lontano dal lavoro per oltre sei mesi, qualcosa che non avevamo visto dai tempi della Grande Depresione”, ha detto. La Spagna ha subito il colpo più duro, con la disoccupazione vicina al 20%. Il tasso della Gran Bretagna è salito dal 5,3% al 7,8% negli ultimi due anni. Attualmente i disoccupati britannici raggiungono i 2,48 milioni.
Mr. Blanchard ha richiesto uno stimolo monetario addizionale quale prima linea di difesa se “i rischi peggiori dovessero materializzarsi”, ma ha aggiunto che le autorità non dovrebbero escludere un'altra spinta fiscale, nonostante le preoccupazioni sul debito. “Se lo stimolo fiscale aiuta a evitare la disoccupazione strutturale, effettivamente si paga da sé”, ha affermato. I Paesi più avanzati non dovrebbero, stando a quanto detto dal capo economista del FMI, dare una stretta alle politiche fiscali prima del 2011: restrizioni precoci indebolirebbero la ripresa ha dichiarato il rapporto, sgridando la Coalizione in Gran Bretagna, i falchi dell’opposizione in Germania, e i Repubblicani USA. Sotto il socialista francese Strauss-Kahn, pare, infatti, che il FMI abbia assunto un aspetto finalmente keynesiano.
Dunque non “meno Stato” come sempre veniva insegnato prima che il mondo della finanza crollasse sopra l’economia reale con le sue bolle e i suoi debiti, ma “più Stato”. Dunque non tagli alle tasse, ma una loro rimodulazione, affinché chi ha accumulato ingenti fortune in questi anni di espansionismo monetario paghi quanto dovuto, proporzionalmente al proprio reddito. Ma in America, patria della libertà, questo suona come socialismo. E l’impero - si sa - con i comunisti non discute, semplicemente li passa per le armi.
Nonostante infatti la povertà (in particolare quella estrema) abbia fatto uno straordinario balzo in avanti durante la recessione, milioni di persone abbiano perso la casa e i giovani non riescano a trovare un lavoro; malgrado ciò, le manifestazioni di collera - quella forma di rabbia che porta a paragonare il presidente Obama a Hitler, o ad accusarlo di tradimento - non la si trova tra gli americani cui toccano queste sofferenze. Ma la si trova tra quelli più privilegiati, che non hanno l’ansia di perdere il proprio lavoro, le loro case o la loro assicurazione medica, ma che sono scandalizzati ed indignati all’idea di dover pagare tasse leggermente più alte.
Questa rabbia dei ricchi monta da quando Obama è entrato in carica. All’inizio è rimasta confinata a Wall Street, ma adesso pare stia contagiando l’intero paese. Quando il miliardario Stephen Schwarzman ha paragonato una proposta di Obama all’invasione della Polonia da parte dei nazisti, la misura in questione prevedeva di sopprimere una nicchia fiscale di cui beneficiavano in particolare gestori di fondi come lui. Oggi, che si tratta di decidere della sorte delle riduzioni d’imposte stabilite da Bush - le tasse imposte ai più ricchi forse torneranno ai livelli dell’era Clinton - la collera dei ricchi si è amplificata. E da alcuni punti di vista ha cambiato natura.
Da una parte, questa collera ha guadagnato il dibattito pubblico. Una cosa è quando un miliardario si sfoga durante una cena; un’altra quando la rivista Forbes pubblica in un articolo che il presidente degli Stati Uniti tenta deliberatamente di distruggere l’America in nome di un programma “anticolonialista” venuto dal Kenia, e che “ gli Stati Uniti sono guidati secondo i sogni di un membro della tribù Luo degli anni ’50.” Quando si tratta di difendere gli interessi dei ricchi, sembra che le normali regole del civile e razionale dialogo non siano più applicabili.
Come ha puntualizzato in suo recente intervento Paul Krugman, “i ricchi hanno più influenza”. “Ciò - scrive l’autore sul New York Times - è in parte dovuto alle loro contribuzioni alle campagne elettorali, ma dipende anche dalla pressione sociale che possono esercitare sui politici. Questi ultimi passano molto tempo con i ricchi. E quando i ricchi sono minacciati di pagare un supplemento d’imposta del 3 o 4 per cento sul reddito, i politici ne hanno compassione in maniera assai più acuta rispetto a quando si confrontano con la sofferenza delle famiglie che perdono il lavoro, le case e le loro speranze”.
La verità è che una guerra di classe effettivamente c’è ed è la guerra che i grandi proprietari - quella superclasse descritta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in un suo famoso saggio - muove quotidianamente, con mezzi crescenti e tecniche sempre più sofisticate, non contro i poveri, ma contro quella classe media oramai in via di estinzione, ovunque nel democratico Occidente. Tocca darsi una svegliata o, presto, non ci sarà un futuro per tutti.