di Mario Braconi

Dopo un processo durato tre settimane, Jérôme Kerviel, il trader di Société Générale capace di far perdere alla banca francese quasi 5 miliardi di Euro grazie alle sue folli speculazioni sui derivati azionari, è stato condannato a scontare in galera un periodo cinque anni (anche se due gli sono stati condonati). Il dispositivo prevede altresì l’obbligo del condannato a rifondere le perdite subite della parte offesa in seguito alla sua condotta.

Una sentenza francamente ridicola, a cominciare dal vistoso artificio retorico mediante il quale si finge di considerare realistico lo scenario di un comune mortale (cui peraltro è stato ovviamente proibito per sempre di prestare servizio presso qualsiasi entità in qualche modo legata al mondo della finanza) che, dopo un lustro in gattabuia, trovi un’occupazione talmente redditizia da consentirgli di trovare i 4,9 miliardi di Euro necessari a rifondere il suo ex datore di lavoro. Considerando la retribuzione media delle famiglie francesi - stima del 2007 - ci vorrebbero “solamente” 136.000 anni, ovvero un intero albero genealogico di oltre 2.700 discendenti di Kerviel, il cui unico scopo nella vita dovrebbe essere quello di indennizzare la banca dove lavorò a suo tempo un lontanissimo predecessore.

Davvero esilarante, a questo proposito, la dichiarazione di Caroline Guillaumin, portavoce di SocGen, la quale, dopo aver affermato l’ovvio (“si tratta di una richiesta simbolica, che la banca non si attende verrà mai soddisfatta”), si spinge oltre, dicendosi soddisfatta della sentenza. Essa, infatti, stabilisce che “la totalità dei danni subiti dalla banca sono riferibili alle azioni di Jérôme Kerviel”. Se si volesse dar credito a una simile scempiaggine, si dovrebbe essere disposti a credere che un impiegato di livello medio, in totale solitudine, sia riuscito a costruire una posizione pari a 50 miliardi di Euro (un valore superiore a quello di mercato dell’intera istituzione finanziaria) sul mercato dei derivati su indici azionari senza che i suoi capi si rendessero conto di nulla. E’ un po’ come ammettere l’esistenza di benefattori che acquistano case intestandole a Ministri della Repubblica Italiana ad insaputa di questi ultimi: si può sempre sostenerlo, ma non c’è garanzia che l’effetto non sia una salva di pernacchie...

Comprensibile, ovviamente, l’entusiasmo della signora Guillamin, perché la sentenza è una specie di pietra tombale sulle inequivocabili responsabilità (certamente negligenza, ma non è da escludersi la connivenza) del management. Poiché il diavolo è nei dettagli, è bene infatti ricordare che i capi di accusa contro Kerviel sono stati abuso di fiducia, truffa e, in mancanza di meglio, “uso non autorizzato dei computer aziendali”.

Cose leggere per una persona che il Presidente della Banca, Monsieur Bouton, all’acme della caos, si era spinto a definire addirittura “terrorista”: un’accusa ancora più ridicola, che farebbe somigliare Kerviel al protagonista dell’ottimo film australiano The Bank (2001), nel quale un neolaureato in matematica, impiegato modello, conquista la sala cambi di una banca al fine di distruggerla (nella fiction, si trattava di una forma di vendetta per il comportamento immorale della banca nei confronti della sua famiglia, distrutta dall’atteggiamento predatorio della banca sua creditrice). Come? Con un modello di trading disegnato per fallire.

Ma la realtà è ben diversa: certo, Kerviel è uomo scaltro quanto superficiale, ma bisogna ammettere che per cominciare a giocare sporco gli è bastato essere un esperto del sistema di back-office di SocGen. Nè si può tacere del modo quanto meno disinvolto con cui la banca “controllava” il rischio che il trader caricava a bilancio: ad esempio, ricorda il Financial Times, veniva monitorata esclusivamente la posizione netta aperta e non il valore assoluto delle operazioni di segno opposto aperte da Kerviel (senza contare che questi era in grado di generarne di fasulle per compensare quelle troppo rilevanti, salvo poi sostituirle alla scadenza con altre finte transazioni dello stesso tipo).

In realtà, sarebbe stato facilissimo smascherare il truffatore, semplicemente facendo quella che per un qualsiasi contabile è un’operazione di routine: riconciliare la posizione sui libri con quella di cassa. Poiché i contratti incriminati erano future e questi, per loro stessa natura, richiedono un margine (ovvero l’obbligo del contraente a versare o ricevere un valore integrativo in caso di variazione rilevante nel valore nominale dell’operazione), sarebbe bastato mettere a confronto la posizione di cassa con quella risultante dalle posizioni in derivati per capire che alle operazioni inventate da Kerviel, come è ovvio, non corrispondeva alcuna marginazione (secondo il Financial Times, spesso le discrepanze erano di svariati miliardi - miliardi di Euro!).

La verità, ricorda sempre il quotidiano finanziario londinese, è che, nell’arco di soli 7 anni (dal 1999 al 2006) il valore apportato dall’unità investment banking di SocGen al bilancio consolidato si è triplicato, fino a pesare circa la metà del giro d’affari della banca francese: una gallina dalla uova d’oro, insomma, nel cui lussuoso pollaio di vetro e cristallo alla Défénce non era opportuno ficcare troppo il naso, a meno che non si desiderasse vedere il prezioso metallo trasformarsi in piombo.

Eppure i segnali di un certo lassismo nei controlli c’erano eccome: non solo un ex ispettore interno della banca ha fatto sapere a Agence France Presse che in SocGen “i controlli erano deboli, i trader non erano puniti se si comportavano male e le ispezioni venivano guardate con sufficienza”; ma nel 2007, solo pochi mesi prima dell’esplosione del caso Kerviel, la Commissione di controllo bancaria francese aveva scritto per ben due volte a Bouton a seguito di una serie di controlli, raccomandando particolare attenzione proprio al settore dei derivati azionari, il settore dove operava Kerviel. Risulta poi agli atti anche l’e-mail di un funzionario della vigilanza di Eurex, che chiedeva al trader ragioni di due grossi ordini.

L’impressione è che il comportamento di Kerviel sia stato tollerato per un lungo periodo; più precisamente fino a che ha prodotto utili (1,4 miliardi di Euro). Poi, non appena il mercato ha cominciato a girare contro e sono cominciate perdite sempre più irreparabili, è stato impossibile ignorare il caso del piccolo Re Mida trasformatosi di colpo in un flagello. A quel punto, la banca ha deciso di intervenire chiudendo tutte le posizioni in vendita montate da Kerviel.

Un vero harakiri: scaraventando sul mercato miliardi di contratti di vendita, oltre a provocare a tutti gli altri operatori danni irreparabili, i vertici di SocGen hanno prodotto un avvitamento verso il basso dei corsi azionari, cosa che ha moltiplicato le perdite anche per SocGen. Un vero e proprio “panic selling”: non a caso, per citare un altro celebre film sul mondo della finanza, “un venditore frettoloso è un venditore morto”.

Il conto da pagare, alla fine, è stato di 6,9 miliardi, ma a quel punto sono stati estratti dal cilindro gli 1,4 miliardi di euro di utili che Kerviel aveva prodotto in tempi di vacche grasse ma che erano rimasti nascosti (!) per lungo tempo in qualche piega di bilancio. E’ evidente che Kerviel è stato solo un ingranaggio (sia pure essenziale) in un meccanismo molto più grande; è altrettanto chiaro che sarà l’unico a pagare. La Banca continuerà a prosperare.

 

di Ilvio Pannullo

Sono tornate a cantare le sirene dell’ottimismo: la crisi che non c’era è già finita. Siamo già in ripresa: si ritorna a vedere il segno positivo davanti agli indicatori che misurano la dignità e il benessere dei popoli, quindi tutto é finalmente tornano a splendere come prima ed il futuro sarà migliore del presente. Ma siamo davvero sicuri che tutto vada bene? Chi l’ha detto che la crisi è finita? Sulla base di quali dati economici poggia quest’importante affermazione?  Ovviamente si guarda allo stato di salute dell’economia americana per capire cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro. Se infatti Wall Street starnutisce, a Londra generalmente il termometro punta ai 40 gradi, ma se l’economia americana ha un raffreddore, in Europa si rischia di morire per un’influenza virale.

Ecco allora il resoconto in breve di quanto è accaduto recentemente nel cuore pulsante dell’impero: la settimana si è chiusa decisamente in bellezza per la piazza azionaria americana che, a distanza di poche ore dalla flessione di giovedì, non solo è riuscita a recuperare le perdite, ma è stata capace di spingersi anche oltre. Gli acquirenti hanno assunto da subito il comando sfruttando alcune positive indicazioni arrivate dal fronte macroeconomico. Prima dell’apertura a Wall Street è stato diffuso l’aggiornamento relativo agli ordini di beni durevoli che sono scesi dell‘1,3% ad agosto, oltre le previsioni degli analisti che puntavano ad un ribasso dell’1%.

A compensare questa delusione ci ha pensato, però, il dato al netto della componente trasporti, che ha evidenziato una variazione positiva del 2%, rispetto allo 0,8% atteso. Sul versante immobiliare - vero indicatore del reale stato dell’economia americana - si segnala invece che le vendite di case nuove si sono attestate a 288mila unità, in linea con la rilevazione precedente che è stata rivista al rialzo da 276mila a 288mila unità. Il dato si è rivelato inferiore alle previsioni degli analisti che avevano messo in conto una salita a 295mila unità.

Un’indicazione questa che tuttavia non ha scalfito l’ottimismo del mercato che ha continuato a guardare con fiducia alle prospettive della ripresa economica negli Stati Uniti. Il risultato è stato quello di una vera e propria corsa all’acquisto che ha permesso ai tre listini principali di terminare gli scambi sui massimi intraday (l’indicatore finanziario creato da David Bostian che mette in relazione il movimento di prezzo con i volumi scambiati di un titolo).

ll Dow Jones e l’S&P500 sono saliti rispettivamente dell‘1,86% e del 2,12%, mentre il Nasdaq Composite si è fermato a 2.381,22 punti, in salita del 2,33%. Tutto fantastico verrebbe da pensare. Peccato però - ha ammonito il Fondo Monetario Internazionale - che America ed Europa si trovino oggi di fronte alla peggiore crisi dell’occupazione dagli anni ’30. Il rischio - dice sempre il FMI - è “un’esplosione di agitazioni sociali” a meno che non si proceda con attenzione.

Una persona mentalmente sana a questo punto potrebbe interrogarsi sul perché di una situazione tanto paradossale. Com’è possibile che le borse di mezzo mondo addirittura recuperino terreno mentre i dati sul lavoro descrivono una realtà simile a quella che poi sfociò nella Seconda Guerra Mondiale? E’ possibile un tale evidente ossimoro? Può il sole essere freddo? La risposta è una e una soltanto: sì, il sole può essere freddo e i mercati in rally possono descrivere una realtà socioeconomica che definire drammatica sarebbe un eufemismo. Questo è il quadro che ci viene descritto dalle massime autorità di vigilanza dell’economia mondiale : “Il mercato del lavoro è in gravi difficoltà. La Grande Recessione si è lasciata alle spalle una terra desolata di disoccupazione”. A dirlo è stato Dominique Strauss-Kahn a capo dell’FMI, a Oslo nel corso di un summit dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).

Strauss-Khan ha detto che una doppia recessione rimane improbabile, ma ha sottolineato che il mondo non è ancora sfuggito ad una crisi sociale ben più grave. Ha sostenuto che sia un grave errore pensare che l’Occidente sia di nuovo in salvo dopo aver barcollato così vicino all’abisso lo scorso anno. “Non siamo al sicuro”, ha detto testualmente. Nel rapporto congiunto FMI-ILO si afferma che dall’inizio della crisi sono andati perduti 30 milioni di posti di lavoro, di cui tre quarti nelle economie più ricche. La disoccupazione globale ha raggiunto il livello di 210 milioni d’individui senza lavoro.

Per non lasciare niente al caso, ha aggiunto che “la Grande Recessione ha lasciato ferite aperte. Un’alta e duratura disoccupazione rappresenta un rischio per la stabilità delle democrazie esistenti”. Si guardi a titolo di esempio alla Grecia, letteralmente strozzata dai debiti e costretta a sopportare la perdita di diritti acquisiti in secoli di lotte tra capitale e lavoro. Misure draconiane che verranno sopportate da chi ha già sopportato di tutto e che ora, non avendo più nulla da perdere, è disposto a perdere tutto pur di conservare quella dignità che spetta ad ogni essere umano. Con tutto quello che questo può significare in termini di violenza e repressione della stessa in nome di un presunto “ordine pubblico”.

Lo studio citato evidenzia poi che le vittime più giovani della recessione, sui vent’anni o poco più, riportano danni permanenti perdendo la fiducia nelle pubbliche istituzioni. Una nuova spirale è costituita da un apparente declino della “intensità dell’occupazione per lo sviluppo” perché il contraccolpo sulla produzione provoca un minore incremento del numero di lavoratori. Per questo motivo è difficile riassorbire tutti quelli lasciati fuori dal mondo del lavoro, anche se la ripresa riprende il ritmo.

Il mondo dovrebbe creare 45 milioni di posti di lavori all’anno nella prossima decade solo per stare a galla. Insomma nella migliore delle ipotesi si tratta di favole, nella peggiore di un depistaggio voluto e lasciato serpeggiare nel mainstream televisivo per distrarre le masse dal nocciolo del problema, che rimane la creazione di un mercato mondiale dei capitali e delle merci senza però che a globalizzarsi siano anche i diritti civili, politici e sociali.

Olivier Blanchard, il capo economista del FMI, ha detto che in passato la percentuale di lavoratori disoccupati è cresciuta ad ogni fase negativa, ma questa volta la cifre hanno visto un’impennata. “La disoccupazione a lungo termine è fortemente allarmante: negli USA la metà dei disoccupati è stata lontano dal lavoro per oltre sei mesi, qualcosa che non avevamo visto dai tempi della Grande Depresione”, ha detto. La Spagna ha subito il colpo più duro, con la disoccupazione vicina al 20%. Il tasso della Gran Bretagna è salito dal 5,3% al 7,8% negli ultimi due anni. Attualmente i disoccupati britannici raggiungono i 2,48 milioni.

Mr. Blanchard ha richiesto uno stimolo monetario addizionale quale prima linea di difesa se “i rischi peggiori dovessero materializzarsi”, ma ha aggiunto che le autorità non dovrebbero escludere un'altra spinta fiscale, nonostante le preoccupazioni sul debito. “Se lo stimolo fiscale aiuta a evitare la disoccupazione strutturale, effettivamente si paga da sé”, ha affermato. I Paesi più avanzati non dovrebbero, stando a quanto detto dal capo economista del FMI, dare una stretta alle politiche fiscali prima del 2011: restrizioni precoci indebolirebbero la ripresa ha dichiarato il rapporto, sgridando la Coalizione in Gran Bretagna, i falchi dell’opposizione in Germania, e i Repubblicani USA. Sotto il socialista francese Strauss-Kahn, pare, infatti, che il FMI abbia assunto un aspetto finalmente keynesiano.

Dunque non “meno Stato” come sempre veniva insegnato prima che il mondo della finanza crollasse sopra l’economia reale con le sue bolle e i suoi debiti, ma “più Stato”. Dunque non tagli alle tasse, ma una loro rimodulazione, affinché chi ha accumulato ingenti fortune in questi anni di espansionismo monetario paghi quanto dovuto, proporzionalmente al proprio reddito. Ma in America, patria della libertà, questo suona come socialismo. E l’impero - si sa - con i comunisti non discute, semplicemente li passa per le armi.

Nonostante infatti la povertà (in particolare quella estrema) abbia fatto uno straordinario balzo in avanti durante la recessione, milioni di persone abbiano perso la casa e i giovani non riescano a trovare un lavoro; malgrado ciò, le manifestazioni di collera - quella forma di rabbia che porta a paragonare il presidente Obama a Hitler, o ad accusarlo di tradimento - non la si trova tra gli americani cui toccano queste sofferenze. Ma la si trova tra quelli più privilegiati, che non hanno l’ansia di perdere il proprio lavoro, le loro case o la loro assicurazione medica, ma che sono scandalizzati ed indignati all’idea di dover pagare tasse leggermente più alte.

Questa rabbia dei ricchi monta da quando Obama è entrato in carica. All’inizio è rimasta confinata a Wall Street, ma adesso pare stia contagiando l’intero paese. Quando il miliardario Stephen Schwarzman ha paragonato una proposta di Obama all’invasione della Polonia da parte dei nazisti, la misura in questione prevedeva di sopprimere una nicchia fiscale di cui beneficiavano in particolare gestori di fondi come lui. Oggi, che si tratta di decidere della sorte delle riduzioni d’imposte stabilite da Bush - le tasse imposte ai più ricchi forse torneranno ai livelli dell’era Clinton - la collera dei ricchi si è amplificata. E da alcuni punti di vista ha cambiato natura.

Da una parte, questa collera ha guadagnato il dibattito pubblico. Una cosa è quando un miliardario si sfoga durante una cena; un’altra quando la rivista Forbes pubblica in un articolo che il presidente degli Stati Uniti tenta deliberatamente di distruggere l’America in nome di un programma “anticolonialista” venuto dal Kenia, e che “ gli Stati Uniti sono guidati secondo i sogni di un membro della tribù Luo degli anni ’50.” Quando si tratta di difendere gli interessi dei ricchi, sembra che le normali regole del civile e razionale dialogo non siano più applicabili.

Come ha puntualizzato in suo recente intervento Paul Krugman, “i ricchi hanno più influenza”. “Ciò - scrive l’autore sul New York Times - è in parte dovuto alle loro contribuzioni alle campagne elettorali, ma dipende anche dalla pressione sociale che possono esercitare sui politici. Questi ultimi passano molto tempo con i ricchi. E quando i ricchi sono minacciati di pagare un supplemento d’imposta del 3 o 4 per cento sul reddito, i politici ne hanno compassione in maniera assai più acuta rispetto a quando si confrontano con la sofferenza delle famiglie che perdono il lavoro, le case e le loro speranze”.

La verità è che una guerra di classe effettivamente c’è ed è la guerra che i grandi proprietari - quella superclasse descritta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in un suo famoso saggio - muove quotidianamente, con mezzi crescenti e tecniche sempre più sofisticate, non contro i poveri, ma contro quella classe media oramai in via di estinzione, ovunque nel democratico Occidente. Tocca darsi una svegliata o, presto, non ci sarà un futuro per tutti.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO.  I contribuenti di tutto il mondo la stanno pagando cara, ma il mondo della finanza non sembra intenzionato a cambiare davvero le regole del suo gioco. Questo nonostante la recente crisi finanziaria, alla quale i governi hanno dovuto far fronte sostenendo le banche con i soldi dei cittadini per evitare il collasso del sistema. E ora il  Comitato per la supervisione bancaria di Basilea ha approvato il cosiddetto pacchetto di riforme Basilea III, con cui si promettono sicurezza e tutela per il futuro. Parole, parole e ancora parole: se il regolamento avrà degli effetti concreti non è ancora chiaro.

Per salvare le proprie banche dalla crisi finanziaria, i governi dei Paesi più industrializzati hanno impegnato finora 718 miliardi di Euro: gli istituti bancari hanno investito in titoli tossici senza valore effettivo e da questi investimenti sbagliati si sono generate enormi perdite - le famose "bolle" - cui gli istituti non hanno potuto far fronte con mezzi propri. E così numerose banche si sono ritrovate sull'orlo della bancarotta: ma il tracollo degli istituti bancari significa l'abisso anche per gli innumerevoli clienti che fanno loro capo, tra cui banche minori, piccoli risparmiatori, società, enti pubblici. Una reazione a catena dal decorso diabolico, insomma, che i governi non potevano certo permettere e che hanno dovuto impedire con ogni mezzo.

In questo modo, però, gli Stati sono stati costretti a intraprendere passi più lunghi della loro gamba. La cifra astronomica adibita alla salvaguardardia delle istituzioni bancarie è andata ad appesantire valori di debito pubblico già di per sé malati: ora ogni singolo governo si trova a fare i conti con enormi buchi da colmare il prima possibile per evitare gli effetti collaterali della “fu” catastrofe finanziaria. E l'unica misura concreta contro le spese eccessive, tanto antica quanto efficace, sembra essere il risparmio: per i governi, però, risparmio è sinonimo di tagli al sociale, quindi a sanità, istruzione e ricerca. Chi ne fa le spese, in poche parole, sono i soliti "meno abbienti". Non si hanno notizie, del resto, di strette regolamentatorie sulle attività speculative delle banche, né di misure giudiziarie a fronte di responsabilità acclarate.

Si finge solo di voler cambiare qualcosa e, come d'uso ai piani alti, lo si fa in grande stile. È questo il proposito di Basilea III, un pacchetto che dovrebbe riformare il sistema finanziario in modo da rendere più sicure le istituzioni bancarie. Basilea III punta tutto sull'aumento dei requisiti minimi di capitale per le banche. Per prevenire un'altra crisi finanziaria che coinvolga risparmiatori e governi, in sostanza, gli istituti di credito devono aumentare le dotazioni di capitale proprio rispetto alle quote di denaro investite in titoli e prestiti. Se prima il rapporto era del 4%, Basilea III propone ora di aumentare la quota di capitale proprio fino al 9%.

Teoricamente, le nuove disposizioni cambiano anche la natura del capitale proprio, che d'ora in poi prenderà in considerazione solo capitale azionario e riserve di bilancio provenienti da utili non distribuiti, e non i conferimenti di “soci taciti”, i soci che partecipano all’attività di un'impresa attraverso un conferimento che confluisce nel patrimonio del socio attivo, nonché alla distribuzione degli utili. L'obiettivo è quello di rendere il capitale netto immediatamente e effettivamente usufruibile in caso di crisi: le banche, in un certo senso, dovrebbero rendersi più autonome.

Tuttavia, nonostante l'apparente integrità dei propositi e le grosse lamentele che le maggiori banche si sono affrettate a borbottare, guardati da vicino i provvedimenti di Basilea III non sembrano essere altro che l'ennesimo bluff dei maghi della finanza. Tanto per cominciare, i tempi previsti per l'aumento di capitale degli istituti sono molto lunghi: il calendario adottato fa sì che il processo di adeguamento venga completato solo nel 2018, e questa progressione ha fatto contenti grossi azionari e le lobby dei bancari. Tempi ben diversi sono quelli che gli istituti assegnano ai piani di rientro per le esposizioni di artigiani, piccole imprese o singoli cittadini.

E anche l'aumento percentuale di capitale imposto non sembra spaventare gli istituti: basti pensare che UBS e Crédit Suisse, le maggiori banche svizzere, arriveranno probabilmente a superare di tre punti percentuali il tetto minimo previsto da Basilea III in un lasso di tempo relativamente breve. Nonostante i piagnucolii degli azionisti, quindi, le grosse banche non soffriranno particolarmente dei nuovi obblighi.

La conferma arriva da Josef Ackermann, il Chief Executive Officer della Deutsche Bank. "Basilea III è un ottimo pacchetto di riforme che sosteniamo volentieri", ha commentato Ackermann, che nel contempo è anche presidente dell'Institut of International Finance (IIF). Le sue parole vanno a riassumere il punto di vista dei veri vincitori di Basilea III, grosse banche e azionisti: il pacchetto di riforme mira prevalentemente a proteggere il buon nome delle banche centrali, ma non va a toccare i veri punti deboli della Finanza, quali i processi di gestione del rischio e della disciplina del mercato. A farne le spese sono le casse di risparmio, poiché il loro capitale è costituito per la maggior parte da conferimenti di soci taciti, quei titoli che non verranno più considerati, secondo Basilea III, come capitale proprio.

Alcuni economisti hanno definito Basiela III una decisione "bancocentrica" che non tiene conto degli errori che hanno condotto alla recente crisi. Le riforme tendono a sostenere il sistema della finanza anglosassone (che dà poca importanza al sistema bancario) basato sulla vigilanza degli istituti di emissione, e che punta tutto sulle operazioni “over the counter” e sugli operatori finanziari non bancari. Quelli che, dopo le decisioni di Basilea, continuano a essere indenni da qualsiasi regolamentazione, mentre le banche vengono messe sotto tutela. E ai quali non sembrano tremare le gambe, visto l'ottimismo che ha regnato nelle Borse in questi ultimi giorni.

 

 

 

di Ilvio Pannullo

Con le manifestazioni di massa di domenica scorsa, indette contro le "barbare misure antioperaie" approvate dal governo per far fronte alla crisi, per i greci è cominciato un autunno che si annuncia molto caldo. Anche se le cose vanno meglio e il paese proprio ieri l'altro è riuscito a ottenere la seconda tranche del prestito del Fondo monetario internazionale e dell'Unione europea, pari a 8,5 miliardi di euro (2,57 dal Fmi). "Le autorità greche hanno dato una buona partenza al loro programma economico" ha detto il direttore generale aggiunto del Fondo, Murilo Portugal - l'incubo della bancarotta rimane come una spada di Damocle sulla testa dei governanti ellenici.

I dati economici segnalano un rallentamento nella riduzione del deficit pubblico a causa di un'accumulazione dei pagamenti degli interessi sul debito e una riduzione delle entrate fiscali nel mese di agosto. I consumi sono ai minimi, i licenziamenti e i fallimenti alle stelle e la recessione morde sfibrando una classe media che nei fatti non c’è più. Ieri il premier Papandreu ha assicurato che sarà rispettato l'obiettivo di riportare entro quest'anno il deficit dal 13,6% all'8,1% del Pil, ma non  sembra aver convinto i greci che non saranno soltanto i poveri a pagare questa crisi.

Se l’autunno si preannuncia caldo, non ha mai smesso di essere rovente invece il clima ad Exarchia, luogo simbolo dell’anarchismo greco. Exarchia, il quartiere anarchico, è il cuore ribelle e furibondo di quanti non ci stanno ad arrendersi senza combattere, di un'Atene che brucia a colpi di molotov tra lacrime, sangue e lutti. In questa area intorno al Politecnico, dove nel '73 cominciò la rivolta contro i Colonnelli ci sono le sedi, i locali, le librerie, di una galassia di gruppi anarchici e radicali, forse una sessantina, che nel dicembre del 2008 accesero la rivolta esplosa con l'uccisione da parte della polizia del sedicenne Aleksis Grigoropoulos.

Exarchia è il quartiere che molti media si sforzano di definire il più caldo d’Europa, nugolo di anarchici e no-global. L’Exarchia la puoi riconoscere anche dalla polizia appostata nei crocicchi alberati che ne delimitano il perimetro; è il quartiere dove i reparti d’elite delle forze dell’ordine si limitano ad osservare i residenti a gruppi di tre, con la loro divisa verde, il fucile per i lacrimogeni e lo scudo antisommossa. Il tutto per dare un segnale della loro presenza o forse per provocare, ma rimane il fatto che se volessero fare anche solo una multa dovrebbero intervenire in dieci.

Già dopo il 24 giugno, giorno dell’uccisione di un funzionario del ministero degli interni per un pacco bomba, i controlli intorno al quartiere di Atene sono aumentati. Si noti bene: intorno, non dentro. Già perché nel quartiere Exarchia la polizia per intervenire deve essere scortata dai Mat, dei gruppi speciali antisommossa inclini a metodi poco ortodossi, che in verità si addentrano solo quando il governo sollecita dei raid, degli arresti mirati, di solito i giorni successivi alle grandi manifestazioni che ormai in Grecia si ripetono settimanalmente.

È necessario quindi continuare ad osservare la situazione greca e seguirne l’evoluzione perché a questo quartiere - e con esso all’intera questione ellenica - vorrebbero staccare la spina, spegnere la voce. Ci provarono con la perizia balistica sul proiettile che colpì Alexis - di rimbalzo, per difesa venne detto - e senza pensarci due volte la gente scese in strada ed appiccò il fuoco ad automobili e negozi. In pochi mesi dall’annuncio del piano di austerità imposto dall’Europa e attuato dal governo, ha scioperato ogni tipo di lavoratore: pescatori, contadini, piccoli imprenditori, impiegati, professori, ospedali, banche, uffici pubblici e si potrebbe continuare a lungo.

Gli scontri, non solo ad Atene, negli ultimi mesi si sono moltiplicati; per molti sono stati il trampolino per una nuova strategia di lotta, un passo in più verso uno scenario che nessuno si azzarda a chiamare guerra civile ma che non è poi troppo dissimile. L’ora della rivolta, il momento in cui l’amarezza cede il posto a una disperata richiesta di giustizia sembra dunque stia arrivando: finita l’estate è tempo di tornare al lavoro e se il lavoro non c’è più si scende in piazza a manifestare.

Settembre - ottobre sembra essere il termine ultimo di questa mezza tregua con il potere, settembre - ottobre come termine primo di quella rivolta che ha però la sensibilità di non compromettere l’unica azienda funzionante del paese, quella del turismo. Il tutto perché si spera che questo atteggiamento di comprensione possa garantire ai dimostranti un appoggio maggiore da parte degli isolani.

Quella che si prepara allo scontro è definita ad Atene la “generazione 700 euro” e cioè non meno del 70% dei giovani greci tra i 18 e i 25 anni che guadagna salari precari, con contratti a termine e poco gratificanti: un laureato, se non riesce a entrare nella pubblica amministrazione - che in Grecia fornisce oltre il 60% dei posti di lavoro a tempo indeterminato - può aspettare una media di sei anni per trovare un impiego stabile. Certo si tratta di un fenomeno europeo, ben conosciuto in Italia, Francia, Spagna, ma in Grecia la macchina statale affonda e il settore privato annaspa. Risultato? Le famiglie sono in difficoltà: un greco su cinque vive, secondo le statistiche, sotto la soglia di povertà.

Accade così che il quadro dei rapporti tra le forze politiche, sindacali e più strettamente sociali appare, da fuori, decisamente complicato. Ai rapporti esistenti fra i sindacati del settore privato - Gsee - e quelli del settore pubblico - Adedy -  si sommano le diverse analisi della crisi e le diverse risposte fornite dall’EEK, il partito Operaio rivoluzionario greco e il KKE, il partito Comunista greco, oltre all’intera galassia dei gruppi anarchici e di chi dei gruppi anarchici è solo simpatizzante.

L’unico denominatore comune, l’unico collante nonché centro di gravità per tutte le forze sociali che cercano di accreditarsi come una possibile risposta alle richieste di giustizia sociale che vanno aumentando nel paese, rimane il disprezzo per le famiglie Papandreu e Karamanlis, i due clan che si sono alternati al potere nelle ultime decadi. L’aria brucia ad Atene e la fornace da cui si diffonde lo straziante calore si trova proprio ad Exarchia.

La scena rievoca alcune foto degli anni ’70, alcune immagini della Grecia schiacciata dal regime militare dei colonnelli. Frammenti di una storia che si ripete, di vite stroncate che si possono scorgere fra le migliaia di manifesti con cui sono tappezzati i muri del quartiere e tra i quali si può trovare anche il nostro Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso negli scontri del G8 di Genova. Tutti quei volti - basta cliccare su google per avere un’idea dei muri del quartiere - sembrano avvisare una deriva che se molti temono, altri addirittura auspicano. Da un lato e dall’altro. Già perché arrivati a questo punto c’è da aggrapparsi a qualcosa e la sommossa, anche se può uccidere, è fede e gioia. Il benessere presunto non conduce alla pace come si è scoperto, l’unica vera pace è interiore e questo tipo di benessere che si espande a orologeria non la annovera fra i suoi valori fondanti. Ma d'altronde, in cosa si dovrebbe sperare, nell’America, nella Russia, nell’ecologia?

Insomma quella che si respira è la tranquillità nervosa e malinconica dello studente prima dell’esame, perché prima o poi, a settembre-ottobre, se ne vedranno delle belle. Gli eruditi, le piattole che gridano al buon senso, gli intellettuali che dispensano consigli, i liberali che amano descrivere il mondo con parole troppo belle per essere vere, sono tutti rintanati sotto l’Acropoli e nel quartiere Kolonaki. Forse per questo la questione greca è stata cancellata dai grandi palinsesti del mainstream ufficiale: rimane per loro poco da raccontare.

Può accadere però che pensando ad Atene, culla dell’Europa democratica, patria di quella cultura che conquistò Roma e che l’impero dei Cesari contribuì a diffondere in ogni terra conquistata dalle sue legioni, di ritrovarsi ad immaginare le sale del museo archeologico nazionale: spade, maschere d’oro, collane, e poi statue di bronzo e di marmo, Agamennone e Poseidone, con l’ottimo Schliemann - che regalò alla moglie gli ori di Micene - a fare da cornice con la sua straordinaria impresa. E così si riflette davanti al peso della storia che fa apparire lampante il contrasto fra il lucente passato ed il putrido presente.

Già perché accanto a chi lotta si può trovare chi ha già perso, chi già si è arreso perché privo della volontà e della forza di reagire. Tra le strade del centro di Atene ci si può imbattere nell’inferno. Nella via Tositsa che fiancheggia le mura del museo, c’è un florido mercato di eroina e ketamina e lo stesso vale per via 3rd Septremvriou: fiumi di droghe sintetiche a basso costo per finire esistenze già piegate dal peso della vita.

Uomini e donne, ragazzini e adolescenti terrorizzati dalla realtà al punto da volersi nascondere per sempre in una mefitica solitudine. Tossici che, nonostante siano stati cacciati dagli abitanti dell’Exarchia, non fanno che aumentare con l’incancrenirsi della crisi. Così capita di vedere stracci di ragazzi, donne sfatte, spettri di cittadini bucarsi in pieno giorno, come se anche la dignità e il senso di vergogna avessero abbandonato la terra che fu di Pericle e Leonida.

Per un greco che cede c’è però un greco che resiste; per un greco che ha paura c’è anche un greco che ha fede nel proprio senso di giustizia e non è disposto a scendere a patti con un potere percepito come dispotico, iniquo ed autoreferenziale. Accanto a questi uomini e a queste donne si dovrebbero schierare tutti i cittadini della classe media europea, senza distinzione tra maiali (i famosi P.I.I.G.S.) e primi della classe (su tutti francesi e tedeschi), per difendere quelle conquiste sociali ed economiche che hanno reso grande il nostro continente e arginare sul nascere quelle politiche che vorrebbero uniformare l’Europa agli standard politici, economici e sociali del gigante cinese.

di Emanuela Pessina

BERLINO. O si mangia questa minestra o si salta dalla finestra. Sembra essere questo il refrain del padronato italiano nei confronti delle organizzazioni sindacali. La disdetta unilaterale del contratto nazionale metalmeccanici da parte di Federmeccanica, ha avuto sullo sfondo gli applausi sperticati del governo, della Cisl e della Uil e dei soliti columnist a un tanto al rigo.

La FIOM, unica sigla sindacale ad opporsi, è sotto il tiro incrociato di tutti gli specializzati nel profferire verbo che, in vita loro, mai nemmeno un minuto sono stati costretti a vivere come operai, ma ai quali però si sentono d’indicare la retta via. La crisi del settore, dicono in coro da Via Solferino a Viale dell’Astronomia, è europea e la contrazione del mercato dell’auto impone una rivisitazione dei contenuti del contratto nazionale. Ma è proprio così?

Sembrerebbe di no, visto che in Germania le diverse scelte aziendali e un diverso modello di relazioni industriali, oltre che un ruolo diverso del governo, hanno dato risultati completamente diversi. Nel 2009, infatti, il gruppo Volkswagen ha venduto oltre 6 milioni di auto in tutto il mondo, registrando un aumento dell'1.1% rispetto all'anno precedente: cifre di poco conto all'apparenza, ma un traguardo importante considerata la situazione di rosso profondo in cui versa il settore automobilistico mondiale da un paio di anni.

E mentre in Italia si chiede il ciclo continuo h24 della produzione (salvo poi non sapere dove vendere le auto), in Germania un importante fattore anticrisi è stato il consolidamento della cosiddetta "settimana corta", il meccanismo che ha permesso all'azienda Volkswagen di ridurre la produzione evitando licenziamenti di massa. Nel pieno della crisi del mercato mondiale, due terzi dei 92 mila operai Volkswagen si sono visti ridurre le ore di lavoro: il 23 febbraio 2009, Volkswagen ha chiuso alcuni settori delle sue officine sospendendo del tutto le attività, che sono riprese con il ritmo ordinario di produzione solo a inizio marzo.

La settimana corta ha evitato a Volkswagen un eccesso di capacità produttiva in tempo di crisi profonda: nel 2008 la domanda di automobili è crollata drasticamente e le sovvenzioni statali hanno favorito solo la produzione delle utilitarie più piccole, che non vengono montate in Germania. La drammaticità della situazione non ha portato comunque l'impresa a intraprendere provvedimenti estremi nei confronti dei lavoratori: con la settimana corta si sono salvati produzione e occupazione.

Subito approvata dal consiglio di fabbrica, l'iniziativa non ha creato grandi shock agli operai di Volkswagen, che hanno continuato a percepire lo stipendio di sempre. L'azienda ha retribuito loro le ore effettivamente lavorate, mentre l'Agenzia federale del lavoro ha provveduto a pagare il resto. I costi sociali della misura anticrisi, quindi, sono stati sostenuti dallo Stato, che ha dimostrato tutto l'interesse a investire i soldi dei cittadini per evitare licenziamenti di massa. In Germania, tra l'altro, non esiste la cassa integrazione.

Ma non è tutto: il terremoto economico della recente crisi si è sentito fino ai vertici Volkswagen, dove sono stati nettamente ridotti gli stipendi. I membri del consiglio di amministrazione del gruppo di Wolfsburg hanno incassato nel 2009 poco meno di 19 milioni di Euro, rispetto ai più di 45 milioni nel 2008. Secondo la relazione del bilancio annuale della casa automobilistica, il presidente del consiglio di sorveglianza e proprietario del marchio Ferdinand Piech, ha percepito 390 mila Euro rispetto ai 467mila del 2008. Il presidente del consiglio di gestione del gruppo, Martin Winterkorn, si è visto dimezzare lo stipendio, mentre il direttore finanziario, Hans Dieter Poetsch, ne ha preso solo un terzo rispetto a quello del 2008.

Volkswagen sembra essere tornata a guardare al futuro con ottimismo e ambizione. La maggiore casa automobilistica europea ha registrato nel primo semestre 2010 un aumento di immatricolazioni del 16% rispetto al 2009 e una flessione del volume d'affari del 22%, superando di gran lunga le stime degli economisti. I tempi di magra sembrano ormai dimenticati: entro il 2018 Volkswagen vuole arrivare a vendere una media di 10 milioni di auto all’anno, affermandosi come prima casa automobilistica a livello mondiale e scalzando Toyota.

Nel frattempo, invece, Fiat continua a piangere crisi e chi ne paga le conseguenze non sembra essere motivato da nessun tipo di rosee previsioni per il domani. Approfittando della situazione catastrofica dell'economia, qualche mese fa Fiat ha cercato di imporre un contratto di lavoro “capestro” ai suoi operai di Pomigliano d'Arco, in sostituzione a quello nazionale dei metalmeccanici 2008: una stipula in netta contraddizione con la direttiva europea e che nega i principi dello Statuto dei Lavoratori. In caso di mancato compromesso, Fiat minacciava di spostarsi all'estero, in quei Paesi dove la manodopera costa meno.

Per applicare il nuovo contratto senza ripercussioni legali, Fiat era pronta ad abbandonare Federmeccanica, fautrice e garante del contratto di lavoro dei metalmeccanici: un passo che si è reso ora superfluo, dato che Federmeccanica ha annunciato proprio in questi giorni l'annullamento del contratto nazionale del 2008. Nonostante la sua matrice "apolitica e senza fini di lucro", a quanto pare, l'associazione non si poteva permettere di perdere uno dei suoi membri più autorevoli e, ancor più, una ghiotta occasione per attaccare la FIOM. L’associazione riconosce dunque l’ultimo contratto siglato, nel 2009, con i sindacati che hanno accettato le loro pretese: Cisl, Uil. Peccato che in calce al contratto manchi la firma della FIOM e che i lavoratori non siano stati chiamati ad approvarlo o respingerlo attraverso il referendum, tutte condizioni invece presenti nel contratto appena disdetto unilateralmente.

Fiat parla di un contratto improntato alla modernità e alla flessibilità, ma le realtà appare ben diversa. Nel nuovo patto di lavoro, il gruppo si arroga la  facoltà di non pagare ai dipendenti la parte di malattia a suo carico per evitare assenteismo e quella di comandare lo straordinario nella mezz’ora di pausa mensa per i turnisti, oltre a prevedere sanzioni per i sindacati che proclamino iniziative di sciopero e licenziamento per chi mostrasse assenze per malattia superiori alla media.

Più che modernizzazione, sembra essere di fronte all’estensione su scala industriale del caporalato, se non addirittura alla versione moderna delle piantagioni di cotone in Mississipi e Alabama pre-guerra d’indipendenza americana.

Più che modernità, le proposte Fiat sembrano andare a riaffermare il primato dell'impresa sui diritti di chi lavora; più che disegni di rinnovamento, le condizioni di Fiat sembrano un ricatto. Fiat vuole tornare a competere sul mercato internazionale con una politica di bassi prezzi di vendita riducendo i diritti fondamentali agli operai. Non punta cioè sull’innovazione di prodotto ma sulla contrazione dei costi e sceglie l’estero non come opportunità di allargamento del mercato, ma come occasione per allungare le mani sui finanziamenti europei e gli incentivi locali e come ricerca del costo del lavoro a livello più basso. Toglieteci le tasse, i vincoli e anche il costo del lavoro, queste sono le giaculatorie che echeggiano da Corso Marconi verso il sistema solare.

Davvero non si capisce, poi, quale strano, perverso gioco, animi le fantasie del PD, che corre ad allinearsi al coro antisindacale. Pare davvero che sia la FIOM e non l'incapacità gestionale della casa torinese il motivo della crisi della Fiat. Tra l'altro, il gruppo ha fatto registrare in agosto un calo delle immatricolazioni del 26.39% a 21 mila unità. Una flessione in linea con le attese, si affretta a spiegare qualcuno, poiché sono stati eliminati gli incentivi statali nel settore. Inoltre, i due terzi delle auto acquistate in Italia sono prodotte all'estero, lamentano gli analisti, quasi a giustificare l'abisso con la mancanza di patriottismo degli italiani. Che però dovrebbero acquistare auto di minor valore ed a maggior costo. La vanità di Marchionne non vale simili sacrifici.

 


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