di Michele Paris

Il summit dei membri del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale in corso nel fine settimana a Washington è giunto nel bel mezzo del conflitto tra le maggiori potenze economiche del pianeta e quelle emergenti sul valore delle rispettive monete. Con il persistere della crisi economica e delle turbolenze sui mercati finanziari, sono infatti sempre più numerosi i paesi che ricorrono alla manipolazione della propria valuta e all’imposizione di misure daziarie sulle merci estere per stimolare la crescita interna, con il rischio concreto di far sfociare le tensioni diffuse in scontri che potrebbero andare al di là dell’ambito commerciale.

I provvedimenti, adottati un po’ ovunque all’indomani del tracollo finanziario inaugurato da Lehman Brothers nell’autunno del 2008, se pure hanno alleviato gli effetti della crisi, non hanno sostanzialmente corretto le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale. Al contrario, gli sforzi messi in atto dai governi per salvare gli istituti bancari sull’orlo del baratro stanno imponendo politiche di rigore che peggiorano la situazione economica e aggravano il disagio sociale per milioni di cittadini.

Di conseguenza, per continuare ad assicurare un mercato alle proprie grandi aziende, i governi e le banche centrali di molti paesi cercano di sfruttare a loro favore gli strumenti monetari di cui dispongono per tenere artificialmente basso il livello della valuta e favorire le esportazioni. Iniziative di questo genere da parte di un determinato paese causano necessariamente la rivalutazione della moneta di un’economia concorrente, provocando gli scontri e le tensioni attualmente in atto.

Tra i paesi che cercano di utilizzare la crisi economica per favorire i propri interessi e quelli delle proprie corporation spiccano naturalmente gli Stati Uniti. Primi finanziatori del FMI, sul quale detengono anche un vero e proprio potere di veto, gli USA hanno da tempo orchestrato una campagna per cercare di limitare gli spazi di manovra in ambito monetario dei rivali, in primo luogo la Cina. A questo scopo, l’appuntamento di Washington è servito a raccogliere il consenso degli alleati europei e asiatici per puntare il dito contro Pechino, da dove si vorrebbe arrivassero provvedimenti più incisivi per far lievitare il valore del renminbi (o yuan).

Oltre alla Cina, le minacce statunitensi sono rivolte a tutti quei paesi che possono vantare un segno positivo nella loro bilancia commerciale, come gli alleati Giappone e Germania, contro i quali però i toni risultano decisamente più attenuati. Così, il più recente rapporto sull’economia mondiale e sulla stabilità finanziaria globale, condotto dal Fondo Monetario e reso pubblico la settimana scorsa, segue il dettato di Washington chiedendo un maggiore bilanciamento dell’economia mondiale. In poche parole, l’aumento delle esportazioni per quei paesi in deficit - come appunto gli USA - ed una riduzione per quelli che hanno un’economia fondata precisamente sull’export.

Nonostante gli avvertimenti, in ogni caso, a prevalere continua ad essere il disaccordo e ogni paese cerca di dare uno stimolo alla propria economia stagnante sostenendo le proprie esportazioni. Così facendo, invece di diminuire, aumentano sia gli squilibri sia il rischio di una deriva protezionistica, come accadde durante la Grande Depressione degli anni Trenta. Solo nelle ultime settimane, ad esempio, paesi come il Brasile, che hanno visto rinforzarsi la propria moneta in seguito ad un afflusso di capitali speculativi, si sono mossi per prendere contromisure adeguate.

Se il governo di Brasilia ha raddoppiato il carico fiscale per gli investitori stranieri che acquistano i bond brasiliani, il Giappone ha a sua volta da poco annunciato la vendita di due mila miliardi di yen per svalutare la moneta nazionale e promuovere l’export. Anche Washington, d’altra parte, non disdegna manovre manipolative allo stesso scopo, tanto che nonostante le proteste nei confronti degli altri paesi, il dollaro prosegue la sua picchiata nei confronti di quasi tutte le principali altre monete. Lo scorso mese di settembre, inoltre, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato una legge esplicitamente rivolta verso Pechino, grazie alla quale il Ministero del Commercio avrebbe facoltà di imporre nuovi dazi sui prodotti di importazione provenienti da paesi definiti manipolatori di valuta.

Alla polemica nei confronti della Cina promossa in primo luogo dal Segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, si è unita anche l’Unione Europea, i cui vertici durante un recente meeting con i paesi asiatici a Bruxelles hanno chiesto ufficialmente al primo ministro cinese Wen Jiabao un netto apprezzamento del renminbi nel confronto con l’euro.

L’obiettivo propagandato dal FMI, dietro richiesta degli Stati Uniti, per un riequilibrio dei rapporti tra le valute delle principali potenze mondiali appare peraltro difficilmente raggiungibile in un contesto di persistente precarietà economica. Le stesse stime di crescita del Fondo Monetario per i paesi sviluppati sono infatti tutt’altro che confortanti, con un tasso che nel 2011 sarà praticamente per tutti inferiore rispetto a quello dell’anno in corso.

Se il consiglio per le economie cosiddette avanzate è sempre quello del “consolidamento fiscale” e il conseguente abbattimento della spesa pubblica per sostenere la competitività, per i paesi emergenti la ricetta prevede dunque il rafforzamento delle rispettive valute e l’inevitabile riduzione delle esportazioni. Una prescrizione che favorirebbe unicamente i grandi interessi economici e finanziari dei paesi più ricchi, producendo al contrario, in un paese come la Cina, licenziamenti di massa e l’impoverimento di ampi strati della popolazione.

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