di Ilvio Pannullo

I nodi stanno arrivando al pettine. Le conseguenze della crisi finanziaria scoppiata negli USA nel 2008 stanno per abbattersi sui bilanci degli Stati che, per evitare il tracollo dell’intera economia, si fecero carico, nel momento di peggiore difficoltà dei mercati, delle follie contabili artificiali create da banchieri e tecnocrati spregiudicati.  Dopo aver deciso di evitare il fallimento di quelle banche “troppo grandi per fallire” ed essersi accollati, attraverso il varo di piani di risanamento straordinari, i debiti tossici dei maggiori istituti finanziari del continente, agli Stati membri dell’Unione Europea viene adesso chiesto di pagare il conto.

Un conto amaro, troppo amaro per essere pagato. Misure draconiane che costeranno lacrime e sangue e che saranno sopportate - che novità! - da chi è sempre stato abituato a pagare tutto, specialmente i danni provocati da altri. Ecco dunque il senso della nuova austerità europea proposta a fine settembre a Bruxelles: nonostante l’intervento pubblico sia stato necessario per evitare un tracollo altrimenti inevitabile, i numeri parlano di debiti privati ora diventati debiti pubblici e prima o poi i debiti - si sa - vanno pagati.

Il momento è purtroppo arrivato. Quello cui si è assistito il 29 settembre potrebbe essere indicativo - se non paradigmatico - del clima che ci attende nei prossimi anni. Da un lato la Commissione Europea che presenta le sue proposte per ridurre il debito degli Stati troppo indebitati; dall'altro i sindacati di tutta Europa che si sono dati appuntamento nelle strade della capitale belga per una protesta all'insegna dello slogan "non vogliamo pagare il conto della crisi". Mentre l'Italia, un po' in sordina, rivede di nuovo al ribasso le stime di crescita per il prossimo anno.

Va precisato che la Commissione Europea non ha la competenza necessaria ad imporre le misure presentate, non ha cioè il potere di dire l'ultima parola sulle nuove punizioni previste per chi sfora i parametri del rapporto debito/PIL, previsti dal trattato di Maastricht. Chi decide davvero è il Consiglio Europeo (che raccoglie i Capi di Stato e di Governo) e c’è da giurare che in quella sede sarà assai complicato trovare una sintesi, visto che ancora non si è riuscito a trovare un accordo generale sulla linea di intervento da adottare in caso di crisi sistemica. Ma la linea della Commissione è comunque indicativa del clima e di quello di cui si discute.

In sintesi, la ricetta dell’Esecutivo europeo per riportare sotto controllo i conti pubblici e metterli al riparo dagli attacchi speculativi dei mercati, è netta:  dato che l'obiettivo è arrivare al pareggio di bilancio nel medio termine, per poterlo raggiungere gli Stati in deficit (quelli cioè che ogni anno spendono più di quanto incassano) devono ridurre il rapporto deficit/PIL dello 0,5% ogni anno. Se questo non succede, se si continua cioè a scialare, la Commissione alzerà un cartellino giallo, dando un avvertimento. Poi passerà alle vie di fatto, pretendendo un deposito infruttifero (cioè una cauzione) pari allo 0,2% del Pil che, se le cose non cambieranno, diventerà una multa.

Per l'Italia lo 0,2% del Pil vale circa 320 milioni di Euro in un anno. Insomma non proprio bruscolini, ma le notizie peggiori purtroppo sono altre. La Commissione, infatti, propone anche che i paesi con un debito pubblico elevato, superiore cioè al 60% del Pil (il nostro è arrivato al 118%), lo riducano dello 0,05% ogni anno della quota che eccede il 60%. Tradotto in soldoni, per l'Italia significherebbe la stratosferica cifra di 52 miliardi di Euro all’anno. Un risanamento assolutamente insostenibile.

"Un debito pubblico enorme è un qualcosa di deleterio e di antisociale, perché vuol dire che non si possono fare spese nei settori in cui c'è bisogno; d'ora in poi deficit e debiti pubblici eccessivi dovranno essere trattati alla stessa stregua", ha spiegato il presidente Barroso nel commentare la proposta della Commissione da lui presieduta. I cittadini di tutta Europa, tuttavia, attendono ancora con impazienza che venga loro spiegato il meccanismo attraverso il quale questo debito si è andato creando nel tempo, per capire meglio cos’è veramente deleterio e antisociale e cosa invece ne è una semplice conseguenza.

Ma questo è un altro discorso. Rimane il fatto che la proposta è sul tavolo e, se fosse approvata così com’è, per l’Italia sarebbe la fine. Purtroppo, nonostante l’intervento alla Camera di Silvio Berlusconi, la richiesta italiana di considerare nel calcolo anche l'indebitamento privato (cosa che ci farebbe sembrare un po' più virtuosi in quanto la vera forza del nostro paese sta proprio nella saggezza e nell’attitudine al risparmio delle famiglie) non sembra essere stata accolta. Il Commissario agli Affari Economici, Olli Rehn, ha però voluto dare un contentino al Governo italiano dichiarando: "Terremo conto del debito privato nel caso in cui abbia un impatto significativo nel servire il debito pubblico". Tradotto: per i paesi che hanno un basso indebitamento privato come l'Italia ci sono margini di trattativa.

C'è dunque da preoccuparsi? Va detto che le sanzioni del patto di stabilità, com’erano state originariamente immaginate, non hanno mai davvero funzionato. Il motivo è che anche i paesi virtuosi come la Germania erano in deficit. E quindi nessuno aveva davvero interesse ad applicare il rigore. I tempi, però, sono cambiati. Ora i tedeschi hanno addirittura approvato una riforma costituzionale che prevede l'obbligo di avere il bilancio in pareggio, congiuntamente alla presenza di un tetto alla pressione fiscale. Si aggiunga che l'attenzione dei mercati finanziari sull'andamento del debito è tale che Portogallo e Irlanda - due dei “maiali europei” insieme a Grecia, Spagna e Italia - stanno già da ora pagando a caro prezzo l’instabilità dei loro conti come interessi supplementari sul debito pubblico di nuova emissione.

E noi? Il Governo in carica ha approvato a luglio una manovra da 25 miliardi che non riduce lo stock del debito, ma si limita a contenere l'aumento della spesa congelando gli stipendi dei dipendenti pubblici e riducendo i trasferimenti dallo Stato agli enti locali. Né più né meno che uno scarica barile in perfetto stile tricolore. Con il risultato che, almeno per ora, l’Italia sembra mantenersi fuori dal cuore dell’occhio del ciclone.

A fine settembre il Governo ha poi diffuso la decisione di finanza pubblica (la nuova versione delle DPEF) per gli anni 2011-2013, che aggiorna le previsioni sull'andamento dell'economia. Stando al documento, la manovra dovrebbe garantire la messa in sicurezza dei conti almeno per un po', con il deficit che dovrebbe scendere al 5% del Pil nel 2010 al 3,9 nel 2011 e, nel 2012, assestarsi sotto la soglia - psicologicamente fondamentale per evitare le attenzioni degli speculatori - del 3%, ossia al 2,7%. La crescita del 2010 si prevede un po' più bassa del previsto (1,2% invece di 1,7%) e sempre un po' più bassa nel 2011, cioè 1,3% che invece di 1,5%. Per capire se il risanamento reggerà, però, bisogna aspettare di verificare se i tagli agli enti locali saranno efficaci.

Cioè se Regioni, Province e Comuni si piegheranno muti davanti alla mannaia imposta dallo Stato centrale, riducendo di conseguenza la spesa nonostante rimangano invariate le competenze loro attribuite, o se, invece, le entrate degli enti territoriali minori aumenteranno (ad esempio con il massiccio aumento delle multe e delle addizionali regionali e comunali su IRPEF e IRAP) per coprire i mancati trasferimenti dallo Stato centrale.

È qui che si gioca la vera partita. Se, infatti, gli enti locali non ci stanno a pagare, anche vista la credibilità politica e l’incapacità del governo centrale nell’immaginare una risposta concreta e credibile per uscire dalla crisi, anche il mondo del lavoro è pronto a dare battaglia. Contestualmente alla presentazione del piano di austerità presentato dalla Commissione Barroso, per le strade di Bruxelles si è assistito a quella che si preannuncia come la rivolta dei sindacati.

"I lavoratori sono in piazza per mandare un messaggio ai leader europei", spiegava dalle strade della capitale belga John Monks, segretario generale della confederazione sindacale europea, promotrice della protesta. Il messaggio è questo: non bisogna rassegnarsi all'austerità perché questo significa far pagare ai cittadini il conto di una crisi maturata in gran parte nel settore della finanza. "Non c'è urgenza, non c'è panico" recitavano alcuni cartelli. I mercati finanziari, però, la pensano diversamente. E purtroppo, almeno in questa fase, sanno essere più persuasivi dei sindacati. Il conflitto sociale e la lotta di classe sembrano finalmente rianimare le strade d’Europa.

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