di Ilvio Pannullo

Finalmente qualcosa torna a muoversi sotto i cieli d’Europa. E i francesi ne sanno qualcosa: il loro presidente Nicolas Sarkozy ha infatti ribadito che la riforma delle pensioni "andrà avanti", nonostante le forti contestazioni. "La porterò a termine perché il mio dovere in quanto capo dello Stato è di garantire ai francesi che loro stessi e i loro figli potranno contare sulle pensioni", ha dichiarato il capo dello Stato in un comunicato diramato dall'Eliseo.

Peccato che lo stesso risultato possa essere ottenuto utilizzando diverso strategie e quella scelta dal numero uno francese non va proprio giù a gran parte dei suoi concittadini. Proprio ieri si è svolta l'ultima giornata di manifestazioni prima del voto definitivo della legge sulla riforma in Senato, a cui secondo i sindacati hanno partecipato tre milioni e mezzo di persone.

Numeri enormi, specie se si considera che con quella di ieri è la sesta volta in poco più di un mese  che i sindacati riescono a riempire le piazze di tutta Francia. Sarkozy ha anche deplorato i "disordini" generati dal blocco dei depositi di carburante, sostenendo che costituivano "una ingiustizia" verso "la maggioranza dei francesi che vuole continuare a circolare liberamente". A quale maggioranza faccia però riferimento ancora nessuno l’ha capito.

E che qualcosa si muove non lo certifica solo la rivolta francese. Accade di rivedere in ogni dove di Europa agitazioni sociali, scioperi generali e lavoratori finalmente in strada a rivendicare con forza quei diritti dati per acquisiti e adesso unilateralmente rimessi in discussione. Quella organizzata dalla Fiom a Roma lo scorso sabato, é stata una manifestazione imponente con al centro il tema della difesa della democrazia e dei princìpi costituzionali nell'organizzazione del lavoro. Ma non é stata la prima e non sarà l'ultima, in una Europa che propone un modello di profitti per le imprese da primo mondo a fronte di un'organizzazione del lavoro e salari da terzo mondo.

I paesi P.I.I.G.S. (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sentendo aria di macelleria sociale, sembrano infatti aver ritrovato una dimenticata dignità, registrando al loro interno movimenti sociali di ampie dimensioni, tutti indistintamente uniti nel chiedere che i danni della crisi siano sostenuti da chi quei danni li ha oggettivamente creati.

Stessa faccia, stessa razza verrebbe da dire. Ad essere uguali sono invece i problemi e le possibili soluzioni da mettere in campo per evitare una desertificazione non solo e non tanto economica, quanto soprattutto produttiva. Ma andiamo con ordine. Il Portogallo ha recentemente provato a convincere i mercati finanziari che i suoi titoli di Stato sono ancora degni di fiducia. Negli ultimi giorni di settembre le ultime operazioni di risanamento hanno previsto un taglio agli stipendi degli statali del 5% per contenere la spesa pubblica a partire dal 2011. Il governo di Lisbona è poi intervenuto sul lato delle entrate, con un aumento dell'Iva dal 21 al 23%. Ma gli spread - cioè i rendimenti pretesi dai mercati per sottoscrivere il debito di nuova emissione - dei titoli di Stato restano ancora su livelli record.

Così come quelli dell'Irlanda, la cui situazione appare sempre più compromessa. A peggiorare le cose per l’Eire ci si è messa la crisi della Anglo Irish Bank. Il piano di salvataggio potrebbe costare al governo di Dublino fino a 30 miliardi di Euro, una cifra che non può permettersi in questo momento. In questo periodo si potrà capire meglio anche quanto gli investitori si fidano dell'Italia. La crisi politica, che fino a ieri mattina ha animato la vita del Belpaese, pare essere già rientrata (sarà vero?); aveva fatto recentemente aumentare in modo significativo il differenziale di rendimento tra Bot e Bund tedeschi, segno che i mercati temevano l'apertura di una lunga fase di instabilità.

Anche la Grecia - di cui ci siamo interessati più volte su Altrenotizie - è di nuovo semiparalizzata per via delle proteste contro l'austerity e le riforme del governo di Giorgio Papandreu. Ai camionisti, che hanno deciso il proseguimento per la terza settimana consecutiva della protesta, si sono recentemente aggiunti i lavoratori dei trasporti ferroviari e stradali urbani ed extraurbani, dei portuali e dei medici, mentre manifestazioni sono state convocate da tutti i sindacati nel quadro di una scesa in campo a livello europeo. Non pare vero che finalmente i lavoratori di tutto il continente si stiano unendo nella lotta contro politiche di bilancio imposte da un’Europa guidata più dalle banche che dai popoli.

Ma è forse la Spagna il paese che meglio sintetizza il momento storico contingente. E? proprio nella terra della corrida che i trasporti pubblici sono stati semplicemente bloccati, intere città sono andate in tilt per il primo sciopero generale negli otto anni dell'era Zapatero, il settimo da quando c'è la democrazia. La domanda di elettricità nella capitale si è ridotta di un quinto rispetto al livello abituale di un giorno feriale. Ferme le industrie, in particolare il settore metallurgico e quello delle costruzioni.

Io "vado a lavorare", pare abbia detto Josè Luis Zapatero, con una battuta poco felice, mentre varcava il portone d'ingresso delle Cortes - il Parlamento spagnolo - nella giornata del primo sciopero generale in sei anni e mezzo di governo socialista. Apparentemente sicuro di sé, come sempre, non è da escludere che con il passare delle ore il premier spagnolo abbia perso in parte la sua tradizionale pacatezza. Non solo perché il livello straordinariamente alto di adesione alla protesta ha permesso ai sindacati di parlare di un "successo indiscutibile". Ma soprattutto perché è probabile che sia stato proprio lo sciopero a convincere gli analisti di Moody's a tagliare - la notizia è stata ufficializzata il 30 settembre quindi il giorno successivo alla mobilitazione - il rating sul debito della Spagna da AAA a AA1, con outlook stabile, spiegando di prevedere deboli prospettive di crescita economica per il paese iberico.

Moody's si aspetta che l'economia cresca in media dell'1% l'anno per diversi anni. Ha inoltre aggiunto che la Spagna raggiungerà gli obiettivi di bilancio che si é proposta per l'anno in corso e per il prossimo, ma saranno necessarie altre misure per ridurre il deficit dopo il 2011. Il riequilibrio dell'economia spagnola, aldilà del settore costruzioni, richiederà dunque diversi anni secondo Moody's, ma l'impegno del governo nella riduzione del debito - vista anche la forte risposta delle classi sociali colpite dai piani di riforma - è tra le ragioni principali che hanno portato a rivedere il rating al ribasso. Va rilevato, poi, che anche Ficht aveva tagliato il rating della Spagna con un outlook negativo ad aprile.

L’alta adesione allo sciopero ha preoccupato non poco il leader spagnolo e lo dimostra in modo chiaro soprattutto il suo tentativo realizzato in extremis - proprio alla vigilia della manifestazione - di tendere una mano ai sindacati con la proposta di aprire un tavolo negoziale sui regolamenti applicativi della riforma del mercato del lavoro, varata pochi giorni prima dal Parlamento. Un'apertura così timida che i leader delle due principali organizzazioni dei lavoratori - la Ugt e la Comissiones Obreras  - l’hanno subito rispedita al mittente.

Qualcuno in Italia potrebbe prendere appunti e  imparare. Per i sindacati spagnoli è l'intera legge a dover essere rimessa in discussione: oltre che inadeguata, la ritengono lesiva dei diritti dei lavoratori. In fondo, per una volta, concordano con la destra parlamentare del partito popolare, secondo cui si tratta di una riforma che "non serve né a generare fiducia, né ad aumentare i consumi, né a favorire la produzione e la creazione di posti di lavoro".

Solo su un punto la legge è chiara: d'ora in poi, per le aziende, sarà più facile licenziare, oltretutto con costi nettamente più bassi (appena 20 giorni di indennizzo per anno lavorato) con la semplice giustificazione di "perdite attuali o previste" o per la "diminuzione persistente del livello di entrate". Inoltre, si autorizza l'interruzione del rapporto di lavoro per assenteismo. Un attacco ai lavoratori e ai diritti sociali in pieno stile Marchionne; segno che se da una parte gli operai faticano a fare fronte comune contro le politiche dei governi europei, dall’altra i padroni non hanno certo perso tempo nel pressare i rispettivi esecutivi con la minaccia della delocalizzazione.

Ma veniamo alla protesta. Con la scelta di portare al centro dell'attenzione, in questa giornata di sciopero generale, il tema della reforma laboral i sindacati hanno cercato di allontanare il sospetto di una protesta "inutile e tardiva", com'è stata definita da alcuni settori della destra politica e mediatica, che sono arrivati a ipotizzare una sorta di gioco delle parti concordato con il governo per non perdere la faccia dopo anni di assoluta pace sociale. E in effetti, lo sciopero arriva solo quattro mesi dopo l'annuncio del durissimo pacchetto di misure di austerità varato dall'esecutivo, in seguito alle pressioni determinanti esercitate dall'Unione Europea nei giorni più drammatici della crisi finanziaria.

Fu quello il momento in cui la società spagnola si rese conto all'improvviso - con il taglio degli stipendi dei funzionari pubblici, il blocco delle pensioni e la drastica riduzione degli investimenti in infrastrutture - che Zapatero si stava rimangiano d'un colpo sei anni di politica tutta basata sul mantenimento dello stato sociale e sul rispetto delle garanzie fondamentali per i lavoratori. I sindacati hanno tuttavia consentito al premier di superare indenne un'estate in cui, solo grazie al tradizionale andamento favorevole dell'occupazione stagionale, per un paio di mesi si è diffusa l'impressione che le cose potessero cominciare a migliorare. Una situazione in tutto e per tutto uguale a quella dei fratelli greci impegnati nella resistenza ad oltranza contro le politiche varate dal governo Papandreu.

Riforme varate e difese dai governi ma decise e immaginate nei consigli di amministrazione delle banche creditrici dello Stato. Alla ripresa autunnale, in Grecia come in Spagna é tutto come prima: l'ultimo dato statistico parla di un nuovo incremento dei senza lavoro nel paese iberico, con 60.000 disoccupati in più ad agosto. In totale sono sempre circa 4 milioni, quasi il 20%, ovvero il doppio della media europea.

Nel frattempo, come se non bastasse, Zapatero ha anche insistito sulla necessità di portare a 67 anni l'età pensionabile (un’altra riforma sulla quale i sindacati si dicono intenzionati a dare battaglia) e, appena pochi giorni fa, ha presentato in Consiglio dei Ministri il progetto di bilancio per il 2011, per il quale si è assicurato il decisivo appoggio parlamentare del partito nazionalista basco, in cambio di nuove concessioni a favore della già vasta autonomia regionale.

Manco a dirlo, una nuova legge "lacrime e sangue", dove neppure l'annuncio di una stangata fiscale per i più ricchi (è previsto un aumento dell'Irpef dal 43 al 44% per i redditi superiori ai € 120.000 e al 45% per chi raggiunge il € 175.000 l’anno) gli è servito a raccogliere consensi tra i  gruppi di sinistra.

Anche perché l'esigenza di riportare il deficit entro i limiti del 3% nel 2013 ha costretto il governo a confermare uno ad uno tutti i tagli di spesa previsti. È per questo che, mentre i sondaggi continuano a sancire - ormai da mesi - un vantaggio netto dei popolari sui socialisti, un protagonista storico della politica spagnola, il vecchio leader comunista Santiago Carrillo, paragona la solitudine di Zapatero a quella che soffrì il primo presidente della democrazia, Adolfo Suarez, nei mesi tragici che precedettero il golpe del 23 febbraio 1981.

Un punto è quindi importante da sottolineare: indipendentemente dal colore politico del governo in carica, il costo della crisi finanziaria, in tutta Europa, viene scaricato sui lavoratori e sull’economia reale. Di fronte a ciò, in controtendenza rispetto chi vede solamente depressione e senso d’impotenza, questa crisi potrebbe rappresentare paradossalmente una fonte d’ispirazione: generare speranza al posto del senso di colpa in chi si vede negati i propri diritti, ottimismo in un futuro diverso invece della rassegnazione davanti un presente tropo brutto per essere vero. Costruire una resistenza comunitaria, europea, finalmente post-ideologica, all’interno delle nostre comunità alla fine dell’era della finanza e delle banche, potrebbe rappresentare la via per la transizione verso un futuro più localistico, naturale, umano, condivisibile e partecipato.  

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