di Giuliano Luongo

A pochi giorni dalla tanto sospirata intesa tra membri dell’Ecofin sulle modifiche al Patto di Stabilità e Crescita, arriva fresco di giornata il primo stop da parte del numero uno della BCE, Jean Claude Trichet, il quale ha dichiarato di non voler appoggiare il nuovo pacchetto di norme deciso dai Ministri. Il filo conduttore degli ultimi eventi che hanno ruotato attorno al discusso Patto che dovrebbe tenere in regola i conti europei, può essere quello dell’incoerenza, caratteristica che ha sempre descritto impeccabilmente promotori e aderenti al Patto stesso. Pertanto, è opportuna una brevissima retrospettiva sulla vicenda per comprendere bene - nei limiti del possibile - gli attuali sviluppi della vicenda.

Il Patto di Stabilità e Crescita ha visto la luce nel 1997 come strumento per il mantenimento della disciplina fiscale. Esso imponeva due criteri fondamentali: deficit pubblico non superiore al 3% del PIL e debito pubblico inferiore al 60% del PIL. In caso di violazione, erano previste sanzioni nella maniera orribilmente macchinosa alla quale l’Unione ci ha saputo abituare nel corso degli anni.

Il paese il cui deficit si avvicinava al tetto del 3% riceveva un primo avvertimento (“early warning”) proposto dalla Commissione ed approvato dal Consiglio in sede Ecofin: questo provvedimento si tramutava in una raccomandazione quando la soglia veniva superata. In caso di mancata adozione di misure per migliorare la situazione economica a seguito della detta raccomandazione, lo Stato riceveva una sanzione, sotto forma di deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di permanenza del deficit. Cristallino, no? Inoltre, prendere misure correttive per tempo interrompe l’innesco della sanzione, che però si riattiva in caso d’inadeguatezza delle misure correttive stesse. In parole povere, una vera e propria mostruosità burocratica.

Prima della critica economica, una nota a margine: il Patto è stato promosso dalla Germania, seguita a ruota dalla Francia. In sede di applicazione delle sanzioni, i due “grandi” dell’Unione hanno saputo agevolmente evitarle, vista la natura non obbligatoria delle stesse (dettaglio di non poco conto ribadito anche dalla Corte Europea nel 2004). Al contrario, l’Irlanda nel 2001 e l’Italia nel 2005 hanno subito eccome i provvedimenti comunitari.

Tali basi hanno saputo dare più vigore al nutrito coro di critiche che già dal 2002 accompagna questo accordo. Esso risulta fragile sia dal punto di vista della flessibilità delle disposizioni che da quello della rigidità delle sanzioni. Ne deriva, in primo luogo, l’impossibilità di considerare un’espansione momentanea dei deficit per favorire una ripresa a lungo termine: uno degli effetti più visibili del Patto è quello di reprimere i trend di investimento. In secondo luogo, il problema dell’applicazione delle suddette sanzioni: la lettura giurisprudenziale della Corte confermava la vuotezza della procedura d’infrazione, atta solamente a rafforzare la posizione di due soggetti già imponenti all’interno dell’Unione.

Arrivarono già quasi dieci anni or sono - e sono state anche riprese di recente - critiche dall’ala più liberale del pensiero economico, per le quali il Patto pecca di una sorta di “eccesso di flessibilità”. Voci dal circuito Atlas notavano, infatti, che il Patto non poneva misure adeguate per contrastare manovre di cosiddetta “finanza creativa” per mantenere i paesi all’interno dei limiti di deficit previsti. Questo insieme di amenità ha fatto sì che il nome del Patto venisse mutato da alcuni noti politici italiani in “Patto di Stupidità”, in un’epoca serena in cui le barzellette con nazisti e bestemmie erano ancora lontane.

Il primo tentativo di riforma di questo accordo è arrivato nel 2005: sono stati mantenuti i tetti massimi del 3 e 60%, ma in compenso sono state aggiunte delle condizioni in presenza delle quali la procedura di infrazione può non venir avviata immediatamente, in quanto il paese non si considera in situazione di “deficit/debito eccessivo”. Viene pesato il livello totale del debito, la possibilità di un indebitamento dovuto a procedure per potenziare la produzione, a riaggiustamenti ciclici del budget.

Il ruolo di Germania e Francia è stato determinante nel fare pressione sull’Ecofin, al tempo, per queste modifiche: la loro pressione si è fatta di nuovo sentire nel 2008 di fronte alla crisi finanziaria. Durante il crac greco del corrente anno, la Germania ha mostrato nuovamente il suo lato “regolatore”, chiedendo ulteriori modifiche per l’introduzione di pene severe per chi non rispettasse i parametri del Patto.

Individuiamo questa linea: decidono francesi e tedeschi. Qualsiasi cosa. Quando serve flessibilità - perché loro hanno sforato più o meno brutalmente dai parametri - appoggiano la flessibilità. Quando bisogna agire con una mentalità restrittiva - e in particolare quando ad essere deboli sono gli altri - si ricordano casualmente del bisogno di una migliore applicazione delle regole, o meglio di regole che abbiano un senso. Su queste basi ci siamo avviati all’ultima serie di lavori Ecofin per la seconda riforma del Patto, iniziata a maggio di quest’anno: ogni forma di ottimismo sui risultati sembrava oggettivamente superflua.

Dall’ultimo meeting dei Signori Ministri, chiusosi il 18 ottobre dopo tredici ore di trattative (numero variabile di 2/3 ore a seconda della testata che leggiamo) è venuto fuori un accordo politico quadro, frutto della mediazione tra il blocco tedesco del rigore (con Rep. Ceca e Slovacchia) e quello franco-italiano. I rappresentanti di Francia e Germania hanno sottolineato come solo grazie alla loro azione si sia raggiunto un risultato. Cerchiamo ora di delinearne i contenuti.

Le sanzioni scatteranno dopo 6 mesi dal superamento dei parametri solo se nel frattempo non siano state prese misure correttive. Alla Commissione il compito di sanzionare, al Consiglio UE quello di respingerle a maggioranza qualificata. Tra i cosiddetti fattori rilevanti nel calcolo ponderato del debito, figurerà il debito privato, dettaglio tanto caro al nostro Tremonti.

Non appaiono riferimenti precisi al taglio annuale di 1/20 del debito dei paesi irrispettosi dei parametri. Si gettano le basi per un lungo percorso di riforma dei Trattati che culminerà nel 2013, volto ad introdurre un meccanismo anti-crisi permanente. I ritmi comunitari permettono un aggiornamento sul tema al vertice UE di marzo 2011. Ricordiamo che tali intenti sono finora teoria, visto che dovranno essere aggiornati al prossimo vertice UE del 28-29 ottobre, fra una sola settimana.

La tensione tra la posizione apparentemente ultrarigida dei tedeschi e quella francese è stata dunque risolta, non fosse che un personaggio leggermente in vista come Trichet abbia leggermente sconsacrato queste intese: intese che, ripetiamo, sono soltanto di principio e, come sempre, sono vacue di qualsivoglia dettagli tecnici che le rendono meritevoli di essere commentate più approfonditamente. Sulle sanzioni, il Presidente Jean-Claude Juncker ha ricordato come “non siamo in possesso di tutti gli elementi per dire dove il Patto verrà migliorato”. E se verrà migliorato, pare doveroso aggiungere.

Adesso non rimane che attendere il prossimo vertice e vedere quanto di ciò che è stato detto prenderà più o meno una connotazione pratica. Per ora ci limitiamo ad aver conferma del ruolo dominante di francesi e tedeschi e ad aspettare. Una settimana non è poi tanto, l’Europa ci ha abituato a ben altro.

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