di Ilvio Pannullo

Mentre dall’altra parte dell’Atlantico già si parla di primi, timidi segnali di ripresa, nella vecchia Europa si continua a navigare a vista, nel mare delle conseguenze portate in dote dalla crisi. Negli Stati Uniti l’aumento dell’8% della compravendita di abitazioni - il migliore risultato da tre anni - e l’incremento di fatturato che le società di servizi stanno registrando, in percentuali che non ricordavano dal lontano 2001, fanno ben sperare. Anche l’occupazione cresce: ultimamente si sono registrati qualcosa più di 100 mila nuovi posti di lavoro.

Ovviamente non è molto rispetto al totale di quanti il lavoro l’hanno perso o continuano ad arrancare facendo lavori occasionali e sottopagati, ma è certamente un segnale di inversione di tendenza. Il presidente Obama, infatti, ha usato quest’ultimo dato per indicare la classica luce in fondo al tunnel, la metafora di una situazione ancora drammatica ma prossima alla fine. Anche se, volendo essere realisti, confrontando queste speranze con i dati macroeconomici da sempre legati all’analisi dell’economia americana, si potrebbe interpretarli più coerentemente come una boccata di ossigeno che salva dall’ipossia, piuttosto che il segno di una nuova fase di espansione economica. Più grave è la situazione dell’Europa.

Purtroppo per noi, infatti, le cose al di qua dell’oceano non lasciano neanche la speranza di poter, un giorno, tornare a sperare. In questi ultimi giorni stampa e televisioni “scoprono” improvvisamente ciò che si poteva agevolmente pronosticare oltre un anno fa. L’economia italiana, seconda solo a quella greca, è la peggiore dei paesi dell'Eurozona. L'inceppato meccanismo produttivo non riesce a sbloccarsi, “si è arenato soprattutto il Made in Italy”, ed arretra anche l’industria del turismo.

Rispetto ai numeri degli anni passati, solo fra i nostri connazionali oltre sei milioni hanno saltato la villeggiatura. Alla crisi dell’apparato produttivo si accoda pesantemente dunque anche quella del settore turistico con contrazioni ancora più marcate nei flussi esteri. La dubbia e timidissima ripresa economica che si cerca ora di accreditare ad ogni costo e strombazzata a ogni stormir di fronda, per ammissione delle stesse fonti ufficiali risulta in ogni caso molto al di sotto di quella avviata nei Paesi europei nostri concorrenti e questo contribuisce ancor più a divaricare la forbice delle rispettive velocità economiche.

In questi ultimi anni i blasonati economisti sia di area governativa che d'opposizione hanno fatto dunque cilecca. La progressiva rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro, la sistematica e prolungata riduzione del TUS americano - che ha preceduto di molto quella dell'Euro - la sistematica riduzione della circolazione monetaria nel mercato nazionale interno e nel pur vasto mercato europeo, la forsennata liberalizzazione dei mercati internazionali, doveva far comprendere immediatamente ai nostri fini politici e ai loro brillanti consiglieri economici, che il nostro paese sarebbe stato esposto ad una pressione costante e crescente, che non sarà in grado di sopportare ancora per molto.

Gli effetti di questa terapia, si sono infatti puntualmente verificati: improvvisa perdita di competitività sui mercati internazionali, Made in Italy in particolare, crollo dei flussi turistici internazionali, fuga delle aziende produttive dal nostro territorio. La manovra è stata assecondata con il fattivo apporto della BCE, l'unica ad avere competenza e capacità decisionali in materia monetaria a causa dell'insipienza/connivenza delle forze politiche europee e nostrane, colposamente responsabili della sottoscrizione del trattato di Maastricht. In questo scenario le aziende vanno, si de-localizzano, si trasferiscono all’estero e le nostre maestranze restano a guardare, a casa.

Il tutto in silenzio assordante da parte di associazioni di categoria, sindacati, partiti di governo e d'opposizione: nessuno deve parlare o affrontare simili spiacevoli argomenti. Le schiene incurvate dei media sono ovviamente allineate su queste posizioni. Il motivo ufficiale e ricorrente è, come al solito, solo quello economico: abbattere i costi con ogni mezzo per essere competitivi. Tutto risulta lecito: sacrificare per continuare a far incassare ai banchieri il pizzo sugli artificiosi indebitamenti, sia pubblici che privati, e le loro tangenti imposte al mercato su ogni movimento e su tutte le operazioni bancarie, divenute tra le più care al mondo. Disperazione per perdita di posti di lavoro, fallimenti a catena, suicidi per insolvenza, sono solo considerazioni fastidiose e conseguenze fisiologiche necessarie per fare avanzare globalizzazione e omologazione a tutti i costi. Dobbiamo essere tutti uguali, come in nuova visione, più eccentrica e sottile, dell’egualitarismo sovietico, ma del tutto priva di poesia e di speranza.

Pensare al futuro dell’Italia, potendo peraltro osservare quanto accade alla vicina Grecia, aggiunge nubi ad uno scenario già di per sé già tetro. Come già scritto precedentemente, osservare la Grecia di oggi aiuterà a capire l’Italia di domani, vista l’identità dei problemi e la triste somiglianza delle stesse soluzioni utilizzate. Pare, infatti, che alla fine l'Europa troverà un accordo su come salvare la Grecia dalla bancarotta. Anche se le istituzioni comunitarie continuano a muoversi in ordine sparso, con la sola Germania fare da guida.

Il consiglio europeo del 25 marzo, dove si sono riuniti i capi di Stato e di governo dei paesi membri (tra cui anche Silvio Berlusconi), ha raggiunto l'intesa su una bozza di piano di salvataggio. Si parla di un pacchetto di aiuti da 23 miliardi di Euro che dovrebbero prendere la forma di "prestiti bilaterali coordinati involontari" e a tasso agevolato (cioè da uno stato all'altro, senza mediazione comunitaria e senza alcun obbligo). Un piano di emergenza pronta scattare nel caso le aste del debito pubblico greco previste per maggio andassero deserte. Meno chiaro è cosa succederà se il governo di Atene fallisse nel tentativo di imporre un dimagrimento del deficit dal 12 all'8% in un anno che sta già causando tensioni sociali difficili da gestire.

Tutto a posto, quindi? Per nulla. Perché l'ipotesi che nel salvataggio sia coinvolto il Fondo Monetario Internazionale - istituzione considerata di matrice americana, anche se diretta da un francese - ha fatto perdere a Jean-Claude Trichet il suo abituale aplomb da presidente della Banca centrale europea. Il ricorso alla FMI, dice Trichet, è "molto, molto negativo". Sottinteso: la Banca Centrale Europea ha già dimostrato di saper gestire le crisi interne all'eurozona e può essere più efficace degli americani, per esempio annunciando (come ha recentemente affermato pubblicamente) che continuerà ad accettare come garanzia i declassati titoli del debito greco.

Ma questa non è la sola cosa che ha fatto infuriare Trichet. Non è una sorpresa che la cancelleria tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy abbiano ipotizzato di trasformare il consiglio europeo in un "governo economico" dell'Unione, che eserciti un ruolo maggiore nella "sorveglianza economica". Adesso però l’idea viene ripresa anche da altri - non ultimo il nostro Giuliano Amato - e la cosa certo non fa piacere al comandante in capo del Sistema Europeo di Banche Centrali. Una simile iniziativa significa, infatti, quasi soltanto maggiori pressioni sulla BCE, che vedrà ridursi il proprio spazio di autonomia, visto che per ora non c'è alcuna intenzione di elevare a livello europeo la politica fiscale o emettere quegli euroBond, titoli di debito europeo, che da anni invoca il ministro Giulio Tremonti.

Rimane quindi la speranza che da questa crisi esca un Europa più politica e più coordinata nella gestione del governo dell’economia, più forte dunque nell’affermare la propria voce sui desiderata dei banchieri. Forse è vero che non tutti i mali vengono per nuocere.


 

di Luca Mazzucato

New York. Le aziende hanno gli stessi diritti dei cittadini. Ma cosa succederebbe se le persone avessero gli stessi diritti delle aziende? Se queste ultime hanno recentemente ottenuto la libertà di parola sotto forma di contributi elettorali, allora è giusto che tutti noi possiamo disporre del nostro denaro come se fossimo delle banche. Il comico americano Jon Stewart ha raccontato la storia del tracollo di Lehman Brothers facendo un piccolo esperimento. In questo nuovo mondo, in cui le persone possono diventare aziende, l'attore cambia nome: non più Jon, ma il più accattivamente United Jonco International. Jonco sente il bisogno urgente di ottenere un prestito da un milione di dollari in contanti. Se Jon Stewart si presentasse allo sportello, gli verrebbe chiesta subito una solida garanzia: i banchieri sono dei veri professionisti.

La garanzia dell'azienda Jonco Int. è una Skoda dell'Ottanta, valore commerciale cento euro. Il finestrino è chiuso con il nastro adesivo, ma lo sguardo d'insieme è passabile, a parte qualche bozzo nella carrozzeria. Chiunque presentasse questa bagnarola come garanzia, verrebbe accompagnato velocemente alla porta. Ma Jonco è una corporation: le sue proprietà sono valutate da un'agenzia di rating.  Invece di Moody's, Jonco preferisce rivolgersi all'agenzia amica Jimmyco, suo cugino. Che gli valuta la Skoda ben tre milioni di dollari: l'ambito triplo AAA che tutte le banche vorrebbe avere.

La banca si fida dell'agenzia di rating ed eroga il prestito da un milione di dollari a Jonco. Un cittadino qualunque dovrebbe pagare fino al 30% di interessi su questo prestito, ma non Jonco: lui si può rivolgere allo sportello dedicato della Federal Reserve, che elargisce prestiti confidenziali al tasso di interesse pari a zero. Ma solo alle aziende. A questo punto Jonco si merita un bel bonus da un milione di dollari, come riconoscimento della fantastica operazione finanziaria. Altrimenti, senza bonus un genio come lui andrebbe subito a lavorare per la concorrenza.

Nessuno avrebbe mai potuto smascherare una truffa così sofisticata. Ma ora si è sparsa la voce che la Skoda è un po' ammaccate e i creditori picchiano alla porta. Per il semplice cittadino Jon si aprirebbero subito le porte del carcere: ma Jonco ha in serbo qualche altro trucco. Fonda una nuova compagnia, la Jon&Jon, che prontamente acquista la Skoda per due milioni e mezzo di dollari. Creare scatole cinesi per occultare i propri titoli tossici? Jonco è andato a scuola da Citigroup, una delle banche “troppo grandi per fallire.”

Ora Jonco vorrebbe incassare i soldi della sua Skoda, che gli è stata valutata due milioni e mezzo di dollari e che ha ceduto alla Jon&Jon. Niente di più facile: basta dare fuoco alla casa del vicino e riscuotere i soldi dell'assicurazione. Proprio così: Jonco ha assicurato una proprietà non sua, seguendo l'esempio di Goldman Sachs, che in questo modo ha provocato la bancarotta del gigante assicurativo AIG e sprofondato gli Stati Uniti nel caos.

Una giornata di duro lavoro per Jonco, che però rischia di perdere i propri soldi, se qualcuno si mettesse a fare domande sulla sua Skoda. Ma niente paura, c'è un ultimo regalo prima di tornare a casa: altri dieci milioni di dollari in contanti, grazie al piano di salvataggio finanziario del governo americano! Non sia mai che Jonco possa trovarsi a corto di denaro, l'economia nazionale ne risentirebbe. Così Jonco se ne va a festeggiare al bar con gli amici, a bordo della sua fantastica Skoda da dieci milioni di dollari.

Fuor di metafora, abbiamo riportato la vera storia del tracollo della banca d'affari Lehman Brothers, nel racconto di Jon Stewart. Solo adesso stanno venendo a galla le colossali frodi fiscali che gli spensierati manager della banca d'affari praticavano. Quindici miliardi di dollari in assetti finanziari basati sui mutui subprime, il cui valore sprofondò al punto da renderli invendibili: ecco l'ammontare del buco iniziale. Ogni trimestre, la banca faceva rapporto ai propri azionisti, ma la fantasia regnava sovrana. Subito prima della chiusura del trimeste, la Lehman prestava la montagna di titoli spazzatura in cambio di quindici miliardi di dollari in contanti, scritti a bilancio, per poi farsi restituire i rifiuti subito la fine del trimestre. Tutti i bilanci risultavano sempre in attivo, fino al fallimento improvviso. E nessuno aveva sospettato nulla.

di Ilvio Pannullo

L’aiuto che il primo ministro ellenico George Papandreu aveva invocato non è arrivato: la cancelliera Angela Merkel ribadisce la linea dura nei confronti di Atene, linea che ha impedito nell'ultima riunione dell'Eurogruppo e dell'Ecofin, il 15 e 16 marzo, la possibilità che si concretizzasse un piano di aiuti economici per il risanamento della Grecia. Il rigore teutonico si abbatte sull’esecutivo greco, cui tocca ingoiare un boccone che potrebbe, in un futuro non troppo lontano, rivelarsi fatale. Il dado è tratto: nessun aiuto economico alla Grecia unitamente alla minaccia di una possibile esclusione dall'area Euro di tutti quei Paesi che non rispettano ripetutamente i vincoli di bilancio imposti dai trattati.

Per quella che fu la culla della civiltà europea non poteva andare peggio. Il rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale appare ora l’unica alternativa possibile, sempre che all'ultimo momento non si trovi una soluzione europea, magari attraverso la Bce. La situazione greca dovrebbe allarmare non poco quegli stati che si trovano in una situazione economica analoga - i famosi “maiali” europei - il quartetto noto con l’acronimo P.I.I.G.S. e cioè Portogallo, Italia, Irlanda e Spagna. Capire quanto sta accadendo alla Grecia e come tutto questo si sia potuto verificare, è dunque di fondamentale importanza per evitare che si ripetano le stesse dinamiche, ma su paesi - come l’Italia e la Spagna - economicamente molto più pesanti sulla bilancia dell’economia europea.

Già si era detto dei rumori che imputavano alle grandi banche d’affari americane la colpa di aver truccato i conti pubblici all’ombra del Partenone. Adesso che anche la Banca Centrale americana, la Federal Reserve, denuncia le responsabilità di Goldaman Sachs nel taroccare il debito pubblico della Grecia, i rumori sono diventati fatti concretamente dimostrati. In una testimonianza davanti al Parlamento, il 25 febbraio 2010, il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha infatti detto: "Stiamo esaminando una serie di questioni relative alle operazioni di Goldaman Sachs e di altre aziende nel negoziare strumenti derivati con la Grecia". E dire che tra amici raramente ci si dà fastidio.

I fatti risalgono al 2001: la Grecia deve entrare nell'Euro e negozia con la banca d'affari più famosa del mondo, la Goldman Sachs, un contratto derivato, ossia uno strumento finanziario che ridistribuisce nel tempo gli oneri del debito pubblico, il tutto per rendere presentabili i suoi conti pubblici. La Grecia riesce così a rientrare nei parametri europei nascondendo a Bruxelles la reale fragilità delle sue finanze e Goldman intasca una commissione da trecento milioni di Euro. La banca d'affari non smentisce l'operazione, ma il 21 febbraio ha precisato che l'accordo con il governo greco rispettava "i principi fissati dall'Eurostat", il servizio statistico della Commissione europea.

Come sempre tutto viene fatto nel rispetto delle regole. Le stranezze, tuttavia, non finiscono qui: alquanto singolare infatti è la puntualizzazione fatta sul caso dalla Banca d’Italia, che sulla vicenda  de quo ha sentito la necessità di chiarire che il suo attuale presidente, Mario Draghi, vicepresidente di Goldman dal 2002 a 2005, non ha avuto alcun ruolo nell'operazione. Dicevano i latini excusatio non petita accusatio manifesta. Se è vero che in campo economico  la regola generale impone di non credere mai a nulla, fino a quando il nulla non viene ufficialmente smentito, questa precisazione aiuta a rafforzare la preoccupazione di quanti sono convinti che, nel mondo della finanza, la facile intercambiabilità tra ruoli pubblici e privati sia il segno evidente dell'esistenza di una cabina di regia occulta, la cui opera appare del tutto insindacabile e svincolata da qualsivoglia controllo di natura politica.

Ma questi sono problemi di ieri, anche l'interesse della Federal Reserve per la tenuta dei conti greci nasconde una preoccupazione più importante e drammaticamente attuale: il default dello Stato. Soltanto nei prossimi tre mesi Atene dovrà infatti rifinanziare qualcosa come 25 miliardi di Euro e non è affatto detto che troverà investitori interessati a scommettere sulla credibilità delle sue istituzioni. Dopo qualche giorno di tregua, infatti, da ieri i mercati finanziari hanno ricominciato a mettere sotto pressione i titoli di Stato greci. La task force di Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale, che ha da poco concluso la sua missione ad Atene, è arrivata alla conclusione che le misure di austerità previste dal governo greco non sono sufficienti: la richiesta perentoria delle istituzioni economiche internazionali è stata quella di trovare altri 4,8 miliardi di Euro.

Non sarà tuttavia facile visto che la Grecia ha già preso impegni giudicati dai mercati quasi impossibili da rispettare: secondo il piano proposto dal primo ministro socialista, George Papandreu, il feroce risanamento imposto al paese dovrebbe portare il rapporto tra deficit e Pil dal 13% attuale al 3% in soli tre anni. Un’impresa degna di Mago Merlino. Delle due l'una: o il piano si rivelerà credibile e sarà attuato con brutale rigore, oppure si rivelerà la mera descrizione di un sogno irrealizzabile ma comunque da realizzare. Autore del miracolo - a voler essere ottimisti - dovrebbe essere un paese caratterizzato da una corruzione endemica e da un'immane evasione fiscale, oramai funzionale alla stessa fisiologia del sistema economico greco.

In entrambi i casi le conseguenze per il popolo ellenico saranno disastrose, con tagli ai servizi pubblici che andranno a colpire la larghissima maggioranza dei quei cittadini appartenenti alla classe media, colpevoli soltanto di non aver potuto evadere la fiscalità generale accumulando indebitamente ricchezze che avrebbero potuto, in questo momento di difficoltà, garantirgli una possibilità di sopravvivenza.

La macelleria sociale di prossima attuazione è già nell'aria. Si susseguono ininterrottamente scioperi generali che hanno come unica conseguenza quella di aggravare la capacità produttiva di un paese oramai già in ginocchio. Tutti i segnali che provengono dalla società civile palesano ciò che agli analisti economici è evidente già da tempo: l'eventuale risanamento causerà inevitabilmente fortissime tensioni sociali e una recessione economica che potrebbero destabilizzare il governo. Anche per questa ragione alcune agenzie di rating cominciano a pensare di tagliare il giudizio di affidabilità del debito greco: qualora questo dovesse accadere, potrebbe diventare l'innesco della fase finale della crisi finanziaria.

Pierre Cailleteau, responsabile per i rating sovrani di Moody’s, in merito a questa possibilità ha detto: "Se in pochi mesi si dovesse vedere uno scostamento significativo rispetto al piano, allora è abbastanza probabile che dovremo aggiustare il rating  di conseguenza" e già oggi il giudizio sui titoli greci non è dei migliori, soltanto A2. Il tutto mentre Standard&Poor’s e Fitch, le altre due più importanti agenzie di rating, sono già più pessimiste e lo classificano come BBB+.

Intanto la borsa di Atene continua a perdere e dalla fine di febbraio registra chiaramente una tendenza ribassista. In questo scenario l'Euro vale quanto l'anello più debole della sua catena, appunto la Grecia, e diventa sempre più debole sia verso il dollaro che verso lo yen giapponese. Ad avvantaggiarsi di una maggiore competitività della divisa europea è quella stessa Germania cui la Grecia chiede una mano per risollevarsi dalle sue difficoltà economiche. La locomotiva tedesca guidata da Angela Merkel vede, infatti, le merci prodotte sul suo territorio diventare sempre più competitive sui mercati internazionali proporzionalmente all'indebolimento dell’Euro. Insomma per la Grecia e per i “maiali” europei tira aria di macello.

di Ilvio Pannullo

Un pericoloso assalto si é abbattuto sulla Grecia. Come riferito da Wall Street Italia ci sarebbe la banca americana Goldman Sachs dietro al rialzo dei CDS (Credit Default Swaps) ellenici, secondo un rumor che circola nel pre-borsa delle sale trading di Manhattan. Il gioco al massacro dei broker ha l'obiettivo, a soli fini di profitto, di colpire il paese al momento più debole dei P.I.I.G.S. (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) ed eventualmente scardinare l'euro.

E' il gioco letale dei CDS - quello per intenderci che ha scarnificato il colosso delle assicurazioni AIG, poi salvato dal fallimento da un fiume di dollari pagati dal contribuente americano - ed è quello che hanno ripreso a fare le banche d'affari dopo i mega salvataggi del 2009. L’unica differenza, purtroppo drammaticamente rilevante, è che ora il rischio si è trasferito dalle ciclopiche entità finanziarie private agli stati sovrani. Il che complica di molto le cose, perché se per evitare il fallimento dei colossi “troppo grandi per fallire” gli stati e le autorità centrali hanno dovuto compiere manovre a dir poco straordinarie, adesso a ballare sono gli stati stessi e con loro, ovviamente, i loro cittadini.

Che ci fosse la necessità di un "annuncio" per non far saltare Grecia ed euro era evidente da vari giorni - nonostante le smentite ufficiali - ma il mercato certamente si aspetta al più presto tutti i dettagli sulle modalità del salvataggio: garanzie, prestiti, utilizzo o meno del Fondo Monetario Internazionale, insomma chiarezza e cifre sul tavolo. I dettagli saranno rivelati all'Econfin di lunedì, dicono a Bruxelles. In attesa delle necessarie decisioni politiche il piano di intervento per salvare la Grecia appare nell’immediato fiacco e confuso. Cosa pericolosissima vista l’entità della speculazione e lo scenario che questa potrebbe aprire per l’intera eurozona.

La Grecia é sotto attacco perché ha un deficit pari al 13% del Pil, ben aldilà del 3% fissato come parametro di riferimento dal Trattato di Maastricht. Il debito pubblico è invece pari al 125% del Pil (il rapporto italiano debito/Pil si ferma poco prima, al 118%), mentre le griglie europee parlano di un limite massimo del 60%. Se ci si ferma agli indicatori economici, appare evidente la contraddizione. Delle due una: o si rivedono tutti gli schemi e le regole comunitarie riguardanti l’Unione Economica Monetaria, aggiornandoli ai recenti mutamenti avvenuti in seguito alla crisi americana, oppure l’Unione Europea - in prima fila i paesi continentali, su tutti Francia e Germania - si dovrà far carico del salvataggio di quei paesi "deboli" del Club Med, oggi viziati e "drogati" dal loro finto benessere.

Dal fronte opposto il premier greco, il socialista Giorgio Papandreou, già grida al complotto. Parla di una "vasto attacco speculativo contro l'Euro" che sarebbe partito dall’ "anello debole". Cioè la Grecia.  Rimane comunque consapevole del pericolo perché quello che sta succedendo è la conseguenza della sfiducia dei mercati, ormai consolidata, e quindi si è già impegnato, fin dal 2010, a tagliare il deficit pubblico del 4%.

Dal canto loro Germania e Francia, maggiormente coinvolte per l'esposizione delle proprie banche ad Atene, hanno mantenuto la leadership assoluta durante i frenetici negoziati. E' evidente l'intento della Cancelliera Merkel e del Presidente Sarkozy di voler dare l'impressione ai propri cittadini che non sarà utilizzato denaro dei contribuenti per risolvere questa "tragedia greca". La piazza - il pubblico - sono caldi ovunque non per irrazionalità o anarchismo ma per i morsi della crisi economica. I cittadini sono assolutamente insofferenti ormai per le tattiche globali di banche e banchieri, supportate da salvataggi strumentali al mantenimento del potere (lo status quo e' messo a repentaglio da nuovi equilibri) grazie a enormi quantità di denaro pubblico sperperate ad uso e consumo di elite politiche, mentre l'economia personale di ciascuno, di ogni famiglia europea, soffre ancora in modo vistoso per crisi e recessione.

Il quadro generale non offre infatti spunti per essere seriamente ottimisti: molti stati si sono indebitati per combattere la disoccupazione e la crisi economica; quelli che avevano le finanze pubbliche più fragili ora si trovano nella condizione di dover gestire un debito pubblico sempre più pesante e che diventa sempre più costoso, visto che gli investitori reclamano rendimenti crescenti per continuare a finanziarlo. La regola è sempre la stessa: maggiore è il rischio dell’insolvenza, maggiore deve essere l’interesse che lo Stato garantisce a chi si assume il rischio comprando i titoli del suo debito. Diciamo l'ovvio: sarà impossibile ottenere dalla Grecia e dagli altri stati P.I.I.G.S. il rientro nei parametri di Maastricht entro tempi rispettabili. Per questo l'euro vale oggi tanto quanto valgono i fondamentali del più tenue anello della catena, in questo momento la Grecia.

Ogni catena infatti si spezza sul suo anello debole anche se gli altri anelli sono fatti di titanio indistruttibile. In altre parole, da sola la Grecia non ce la può fare senza l’aiuto dei due colossi europei. L’alternativa prevede un’uscita pilotata della Grecia dall’Euro e un ritorno alla Dracma, cosa che trasformerebbe Atene in una Buenos Aires europea. Quello che accadrà però nessuno può ancora dirlo con certezza, perché dalle istituzioni europee ancora non si è sentita una parola chiara e questo é francamente inaccettabile.

Il risultato di tutto questo è l’indebolimento dell'euro nei confronti del dollaro, scambiato ormai a 1,37. E questo non dispiace ai paesi che affidano la propria ripresa alle esportazioni (come la Germania) perché un euro più debole rende le merci apprezzate in quella valuta più competitive. Per questo molti operatori finanziari scommettono che, se le cose dovessero mettersi davvero male, l'Europa e la BCE non si muoveranno per salvare i paesi in crisi di credibilità. Tradotto significa che non compreranno i titoli del loro debito pubblico.

Semplificando, il ragionamento è questo: più diventa costoso il debito per gli Stati, maggiori dovranno essere i tagli di spesa o gli aumenti delle tasse necessari per far fronte ai costi crescenti. E se lo Stato deve trovare risorse per pagare gli interessi o rimborsare il debito, pesca dalle tasche dei cittadini, o con nuove imposte o riducendo i trasferimenti. L'inevitabile effetto collaterale che si ottiene è quello di osservare la riduzione della domanda, il crollo dei consumi. La ripresina appena arrivata si esaurirebbe in un attimo e si ritornerebbe in una fase di recessione. Con un'aggravante rispetto a quella da cui siamo appena usciti: le banche centrali non possono più tagliare i tassi d’interesse perché lo hanno già fatto (quelli americani sono a zero, quelli europei all'1%) e gli Stati non possono più varare piani straordinari di spesa, visto che è proprio agli eccessi di spesa che stanno cercando di porre rimedio. Le borse, che anticipano gli eventi o comunque cercano di farlo, scontano quindi già la prospettiva della recessione e gli operatori vendono invece di comprare.

Il problema è che se la Grecia è già sotto il fuoco degli speculatori - insieme al Portogallo e alla Spagna che sono state le prime vittime, con tassi sul debito che crescono a vista d'occhio - l'Italia sta entrando nel mirino. La politica del sole in tasca ostentata dal governo non convince i mercati che il nostro paese sia meglio di Spagna e Portogallo. Gli investitori internazionali stanno passando al setaccio i conti dell'Italia e non ci metteranno molto a scoprire che nelle proiezioni dei prossimi tre anni il governo ha peccato di ottimismo e c'è un buco di almeno 15 miliardi all'anno.

Già da ora si possono immaginare i comizi e le invettive che la Lega, il PDL, Tremonti e tutta l’allegra compagnia lanceranno contro la speculazione internazionale, contro quei cattivoni che non compreranno più i titoli di Stato italiani a bassi tassi di rendimento. Solo allora questo governo dovrà affrontare la sfida più difficile: quella di guidare l'Italia con un debito pubblico mostruoso, in una nuova Unione Europea, dove ognuno è giudicato per quello che è e non per quale moneta usa. L'esecutivo dovrà mantenere la coesione sociale nonostante i tagli alla spesa, dovrà recuperare l'evasione fiscale con durezza, dovrà dimenticarsi le grandi opere, oltre alle consulenze e prebende varie ai grandi gruppi di’interesse. Che però sono al governo…

di Ilvio Pannullo

Che l'incidenza delle tasse sull'economia italiana fosse tra le più alte all'interno della comunità europea è cosa nota a tutti. Di pubblico dominio è anche la notizia che la pressione fiscale sia sostenuta, nella sua quasi totalità, dai dipendenti pubblici e dai pensionati. Si capisce dunque il perché la riduzione delle tasse sia un argomento tanto caro a tutti gli italiani, siano essi evasori conclamati ovvero onesti contribuenti. È questo, infatti, il dato da cui si deve partire per comprendere quanto l’idea di una riforma fiscale possa solleticare la fantasia dell’intero elettorato italiano. Urge, dunque, un bagno di realismo per comprendere quante balle sono state dette e quante ancora ne verranno spacciate in campagna elettorale.

Attualmente la situazione dell'economia internazionale, aggravata dalla crisi, non fa che peggiorare una situazione di per sé già insostenibile: l'incidenza fiscale, risultato del rapporto tra quello che il contribuente paga allo Stato ed il reddito totale prodotto dal sistema paese, facendo la crisi precipitare il reddito totale, non potrà che aumentare. In un paese come il nostro, dove il debito pubblico oramai tocca i 1800 miliardi di Euro, un ipotetico taglio delle tasse avrebbe dunque necessariamente margini ristrettissimi. La ripresa economica appare quindi come una condizione necessaria per qualsiasi piano che volesse seriamente affrontare il problema.

Ora, però, è necessario essere realisti nell'analizzare l'economia italiana e l'incidenza che la crisi internazionale ha avuto su di essa: nel 2008 la capacità produttiva del paese è diminuita del 5.2%, dato che indica il netto peggioramento di una realtà che, già in passato, aveva ampiamente dimostrato la propria scarsa capacità di crescita. È dunque quantomeno fuori luogo l’euforia del Ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, quando si sbraccia per ricordare che, per il 2009, è prevista una crescita del Pil pari all'1%. Il principe dei condoni dimentica volutamente, infatti, che per tornare alla situazione di cui sopra, e cioè ad una situazione già scarsamente competitiva, saranno necessari ben cinque anni. Un'età geologica in termini economici.

Ecco dunque spiegato il perché di tante promesse, poi rimaste puntualmente disattese: se da una parte l’argomento paga a livello elettorale, dall’altra sono le casse dello Stato a non poter pagare il prezzo di simili riforme. Ma andiamo con ordine. Si comincia dalla campagna elettorale del 2008, quando, il 12 aprile, nell'ultima sfida televisiva con Walter Veltroni, il Cavaliere annuncia: "Abolirò il bollo per le auto e per le moto". Con quali soldi? Usando il famoso tesoretto del governo Prodi oppure "i risparmi" di spesa. Ovviamente non accadde nulla.

Promessa mantenuta, invece, quella di abolire, almeno per la prima casa, l’ICI, l'imposta comunale sugli immobili. Detto fatto. A guardare bene, però, si scopre che nella finanziaria 2010, appena varata dal Parlamento, vengono stanziati 900 milioni di Euro in due anni per risarcire gli enti locali per la perdita subita. L'unica tassa davvero federale passa quindi sotto il controllo di Roma, ma la pressione fiscale non cambia. La lega in tutto questo rimane in silenzio aspettando il suo federalismo.

C'è poi il capitolo dell'Irap. Il 21 ottobre, B. annuncia un taglio immediato all'assemblea di Confartigianato,  salvo poi cambiare idea: non è facile trovare i 38 miliardi di Euro che l'imposta sulle imprese porta nelle casse dello Stato e che servono a finanziare la spesa sanitaria. Il ministro Claudio Scajola, probabilmente non una cima quando si tratta di numeri, voleva utilizzare i soldi provenienti dallo scudo fiscale, che però ammontano ad appena 4-5 miliardi di Euro e che serviranno verosimilmente a coprire metà della finanziaria 2010.

Nell’immobilismo dovuto alla ritrosia a tagliare le spese, il solo intervento fiscale che ha prodotto qualche risultato è stata la celeberrima Robin Tax. L'introduzione di una nuova tassa non era certo quanto si aspettava l'elettorato del PdL, anche se a pagare il conto sono stati  soprattutto petrolieri e produttori di energia. Il gettito, appena superiore al miliardo di Euro, doveva servire a pagare quella social card con cui il governo sperava di salvare la faccia davanti alla parte più povera del paese. Il legame tra le due misure, tuttavia, non venne stabilito come promesso. Fu così che la Robin finì a finanziare un po' tutto.

C'è poi chi sperava che almeno una finanziaria da tempo di crisi fosse l'occasione per razionalizzare la spesa. Anche questi purtroppo hanno dovuto capitolare. Si credeva, infatti, che un governo della destra potesse almeno snellire la burocrazia elefantiaca del nostro paese. Purtroppo anche i liberisti hanno dovuto rassegnarsi a veder ricomparire la "legge mancia", con i suoi 165 milioni di Euro di micro spese in tre anni, oltre all'ennesimo rinvio della riforma nei finanziamenti pubblici ai giornali, ben 200 milioni di euro utilizzati per spuntare l’obbiettività del già strisciante quarto potere italiano. Nascosto tra le pieghe della legge di bilancio, poi, c'è il taglio degli interessi legali: chi è in credito con il fisco non riceverà più il 3% di interessi, ma soltanto l'uno. Una norma che fa imbufalire molte imprese che aspettano i pagamenti dalla pubblica amministrazione. Imprese generalmente medio piccole, ossia l'elettorato forte del centro destra in versione tricolore.

Stando così le cose il governo Berlusconi, probabilmente per non perdere completamente la faccia, proverà a confondere le aliquote, le modalità di pagamento e i rimborsi in modo da poter nascondere meglio un inevitabile aumento della pressione fiscale. Conoscendo i precedenti del personaggio, il suo governo non toccherà le rendite finanziarie, non farà una lotta senza quartiere all'evasione fiscale e probabilmente trasformerà l'entrata in vigore della riforma nell'occasione per l’ennesimo condono generale. Qualsiasi cosa pur di far cassa, sempre a spese di coloro che le tasse le pagano veramente. Nella speranza che l'opposizione almeno questa volta abbia il coraggio di fare veramente gli interessi del Paese, rifiutando la logica del compromesso e dell'imbroglio fiscale.


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