di Ilvio Pannullo

Che l'incidenza delle tasse sull'economia italiana fosse tra le più alte all'interno della comunità europea è cosa nota a tutti. Di pubblico dominio è anche la notizia che la pressione fiscale sia sostenuta, nella sua quasi totalità, dai dipendenti pubblici e dai pensionati. Si capisce dunque il perché la riduzione delle tasse sia un argomento tanto caro a tutti gli italiani, siano essi evasori conclamati ovvero onesti contribuenti. È questo, infatti, il dato da cui si deve partire per comprendere quanto l’idea di una riforma fiscale possa solleticare la fantasia dell’intero elettorato italiano. Urge, dunque, un bagno di realismo per comprendere quante balle sono state dette e quante ancora ne verranno spacciate in campagna elettorale.

Attualmente la situazione dell'economia internazionale, aggravata dalla crisi, non fa che peggiorare una situazione di per sé già insostenibile: l'incidenza fiscale, risultato del rapporto tra quello che il contribuente paga allo Stato ed il reddito totale prodotto dal sistema paese, facendo la crisi precipitare il reddito totale, non potrà che aumentare. In un paese come il nostro, dove il debito pubblico oramai tocca i 1800 miliardi di Euro, un ipotetico taglio delle tasse avrebbe dunque necessariamente margini ristrettissimi. La ripresa economica appare quindi come una condizione necessaria per qualsiasi piano che volesse seriamente affrontare il problema.

Ora, però, è necessario essere realisti nell'analizzare l'economia italiana e l'incidenza che la crisi internazionale ha avuto su di essa: nel 2008 la capacità produttiva del paese è diminuita del 5.2%, dato che indica il netto peggioramento di una realtà che, già in passato, aveva ampiamente dimostrato la propria scarsa capacità di crescita. È dunque quantomeno fuori luogo l’euforia del Ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, quando si sbraccia per ricordare che, per il 2009, è prevista una crescita del Pil pari all'1%. Il principe dei condoni dimentica volutamente, infatti, che per tornare alla situazione di cui sopra, e cioè ad una situazione già scarsamente competitiva, saranno necessari ben cinque anni. Un'età geologica in termini economici.

Ecco dunque spiegato il perché di tante promesse, poi rimaste puntualmente disattese: se da una parte l’argomento paga a livello elettorale, dall’altra sono le casse dello Stato a non poter pagare il prezzo di simili riforme. Ma andiamo con ordine. Si comincia dalla campagna elettorale del 2008, quando, il 12 aprile, nell'ultima sfida televisiva con Walter Veltroni, il Cavaliere annuncia: "Abolirò il bollo per le auto e per le moto". Con quali soldi? Usando il famoso tesoretto del governo Prodi oppure "i risparmi" di spesa. Ovviamente non accadde nulla.

Promessa mantenuta, invece, quella di abolire, almeno per la prima casa, l’ICI, l'imposta comunale sugli immobili. Detto fatto. A guardare bene, però, si scopre che nella finanziaria 2010, appena varata dal Parlamento, vengono stanziati 900 milioni di Euro in due anni per risarcire gli enti locali per la perdita subita. L'unica tassa davvero federale passa quindi sotto il controllo di Roma, ma la pressione fiscale non cambia. La lega in tutto questo rimane in silenzio aspettando il suo federalismo.

C'è poi il capitolo dell'Irap. Il 21 ottobre, B. annuncia un taglio immediato all'assemblea di Confartigianato,  salvo poi cambiare idea: non è facile trovare i 38 miliardi di Euro che l'imposta sulle imprese porta nelle casse dello Stato e che servono a finanziare la spesa sanitaria. Il ministro Claudio Scajola, probabilmente non una cima quando si tratta di numeri, voleva utilizzare i soldi provenienti dallo scudo fiscale, che però ammontano ad appena 4-5 miliardi di Euro e che serviranno verosimilmente a coprire metà della finanziaria 2010.

Nell’immobilismo dovuto alla ritrosia a tagliare le spese, il solo intervento fiscale che ha prodotto qualche risultato è stata la celeberrima Robin Tax. L'introduzione di una nuova tassa non era certo quanto si aspettava l'elettorato del PdL, anche se a pagare il conto sono stati  soprattutto petrolieri e produttori di energia. Il gettito, appena superiore al miliardo di Euro, doveva servire a pagare quella social card con cui il governo sperava di salvare la faccia davanti alla parte più povera del paese. Il legame tra le due misure, tuttavia, non venne stabilito come promesso. Fu così che la Robin finì a finanziare un po' tutto.

C'è poi chi sperava che almeno una finanziaria da tempo di crisi fosse l'occasione per razionalizzare la spesa. Anche questi purtroppo hanno dovuto capitolare. Si credeva, infatti, che un governo della destra potesse almeno snellire la burocrazia elefantiaca del nostro paese. Purtroppo anche i liberisti hanno dovuto rassegnarsi a veder ricomparire la "legge mancia", con i suoi 165 milioni di Euro di micro spese in tre anni, oltre all'ennesimo rinvio della riforma nei finanziamenti pubblici ai giornali, ben 200 milioni di euro utilizzati per spuntare l’obbiettività del già strisciante quarto potere italiano. Nascosto tra le pieghe della legge di bilancio, poi, c'è il taglio degli interessi legali: chi è in credito con il fisco non riceverà più il 3% di interessi, ma soltanto l'uno. Una norma che fa imbufalire molte imprese che aspettano i pagamenti dalla pubblica amministrazione. Imprese generalmente medio piccole, ossia l'elettorato forte del centro destra in versione tricolore.

Stando così le cose il governo Berlusconi, probabilmente per non perdere completamente la faccia, proverà a confondere le aliquote, le modalità di pagamento e i rimborsi in modo da poter nascondere meglio un inevitabile aumento della pressione fiscale. Conoscendo i precedenti del personaggio, il suo governo non toccherà le rendite finanziarie, non farà una lotta senza quartiere all'evasione fiscale e probabilmente trasformerà l'entrata in vigore della riforma nell'occasione per l’ennesimo condono generale. Qualsiasi cosa pur di far cassa, sempre a spese di coloro che le tasse le pagano veramente. Nella speranza che l'opposizione almeno questa volta abbia il coraggio di fare veramente gli interessi del Paese, rifiutando la logica del compromesso e dell'imbroglio fiscale.

di Giuseppe Zaccagni

In lista d’attesa, nel mondo, ci sono 70 milioni di persone che potrebbero cadere in condizioni di estrema povertà entro quest’anno. La denuncia viene dalla Banca Mondiale che, nella riunione svoltasi a Berlino, ha lanciato l’allarme, rilevando che continueremo per anni a convivere con gli effetti della crisi economica. “Stiamo vivendo - ha detto in proposito il presidente dell’istituzione bancaria, Robert Zoellick - la più grave recessione dal dopoguerra, quella che però ha suscitato anche la più forte risposta a livello internazionale mai orchestrata da governi. Una recessione che segnerà la situazione sociale e politica mondiale ancora a lungo”.

I mesi che verranno, quindi, saranno certamente i più difficili degli ultimi due anni: l'occupazione continuerà a scendere, in quanto il livello produttivo non potrà tornare nel breve periodo al vecchio livello e molte famiglie ne subiranno le conseguenze. Aumenterà pertanto la già traumatica spaccatura tra Nord e Sud. "Continueremo a vedere gli effetti negativi della crisi economica - aggiunge Zoellick - e per molti Paesi, anche sviluppati, si avranno problemi di crescita, mentre in altri paesi, già poveri, milioni di persone soffriranno la fame, cadranno in malattia e ci saranno impatti negativi su tante generazioni per molti anni".

In questo contesto - sempre al forum berlinese - si è rilevato che la politica monetaria e di bilancio si è dispiegata nel fornire abbondante liquidità per evitare la diffusione della crisi finanziaria all'interno dei Paesi e il contagio internazionale della stessa. Si è poi sostenuto che i bilanci pubblici si sono svenati per salvare il salvabile, senza aver però impostato una seria politica di ripresa che non fosse quella di innalzare barriere protezionistiche di tipo assistenziale al di quà delle frontiere.

Si è così creata una situazione paradossale, per cui si parla di strategia di uscita dagli eccessi di creazione monetaria e di debito pubblico nati per affrontare la crisi, senza che la crisi sia stata superata; quella vera, fatta d’insolvenze che metteranno in difficoltà le banche e di disoccupazione che peserà sulle famiglie, è gi? in atto da due anni e non si vede la luce alla fine del tunnel. E sempre l’esponente della Banca Mondiale ha ricordato che il settore privato dovrà giocare un ruolo più importante, quando le misure straordinarie introdotte dai governi saranno ritirate.

"Nel momento in cui questo avverrà, avremo bisogno di una mano in più da parte dell'economia privata", ha aggiunto, sottolineando che è negli interessi delle nazioni sviluppate aiutare le economie emergenti a uscire dalla crisi, perché queste potrebbero essere una fonte di crescita. Per questo la Banca mondiale "spera che i Paesi in via di sviluppo diventino un importante fattore di crescita nell'economia globale, un fattore molto importante soprattutto per la Germania come nazione esportatrice". Come sostengono numerosi analisti, la crisi è quindi ancora una realtà con la quale bisogna fare i conti. Conti durissimi, in molte parti del mondo. Questa crisi ha preso avvio dal settore finanziario per poi contagiare progressivamente l'economia reale. Il mondo della finanza è corso ai ripari, e il crack si è attenuato. Ma per l'economia reale i problemi sono ancora molti e molto seri e si preparano tempi difficili.

Lo dimostra anche la situazione statunitense. Obama ha appena presentato un nuova tassa alle grandi banche, per far entrare nuova liquidità dello Stato e dei cittadini. Il guadagno previsto dovrebbe aggirarsi sui novanta miliardi di dollari spalmati in dieci anni. Ma le critiche non sono poche. C’è l'economista capo dell'American Bankers Association, James Chessen, il quale spiega che l'industria bancaria si sta muovendo per restituire con gli interessi al Tesoro i soldi del Tarp, il piano anticrisi da 700 miliardi di dollari varato dall'Amministrazione Bush. E  ricorda poi che alle banche, sul totale della somma, sono stati assegnati circa 225 miliardi di cui due terzi già ripagati con interessi e con dividendi superiori ai 15 miliardi di dollari. "Appena un mese fa, il Tesoro dichiarò che si aspettava un utile da ciascun singolo programma d’intervento destinato alle banche", spiega Chessen.

Nel forum berlinese è stato rilevato che su scala mondiale c’è un altro gravissimo problema. Quello che riguarda la povertà, emergenza prettamente rurale. Le nazioni povere sono nazioni la cui economia è un’emergenza essenzialmente agricola e i poveri sono prevalentemente persone che vivono dei frutti della terra. L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO), ha recentemente evidenziato come, nelle nazioni più povere, oltre il 75% della popolazione viva nelle aree rurali e come, di conseguenza, queste persone debbano fare affidamento sull'agricoltura per avere lavoro e reddito. Oltre a ciò, l'agricoltura pesa per circa il 40% sul Prodotto Nazionale Lordo (PNL) di queste nazioni e per più del 50% sul totale delle loro esportazioni.

Va ricordato che quasi un miliardo dei poveri di tutto il mondo vive nelle zone rurali e che il loro numero cresce costantemente e con regolarità, specialmente dopo i regressi che si sono verificati nel corso del cosiddetto "decennio perduto", gli anni '80. C’è, in proposito, un preciso rapporto che gli economisti della Russia hanno presentato alle varie organizzazioni dellOnu. Attualmente, è stato rilevato, i poveri costituiscono pressappoco un quinto dell'intera popolazione mondiale.

Le statistiche del passato ci ricordano che la percentuale di quanti, fra la popolazione rurale, vivono al di sotto della soglia di povertà à del 61% nell'America Latina e nei Caraibi; del 60% nell'Africa sub-Sahariana; del 31% in Asia e del 26% nel Nord Africa e nel Levante. Si è verificata una rapida crescita nell'incidenza delle famiglie rurali aventi una donna come capofamiglia: queste famiglie raggiungono attualmente il numero di 75 milioni. Ed oggi la maggioranza di coloro i quali vivono al di sotto della soglia di povertà nelle aree rurali è rappresentata dalle donne; e a partire dal 1975, il loro numero è cresciuto del 50%, contro un aumento del 30% fra gli uomini.

Anche quello dell'insicurezza alimentare, paradossalmente, è un problema tipicamente rurale. Degli 800 milioni di persone che in tutto il mondo soffrono di malnutrizione cronica, la stragrande maggioranza vive, infatti, nelle zone rurali dei paesi in via di sviluppo. Con popolazioni sempre più numerose, le proprietà terriere in molte regioni dei paesi in via di sviluppo stanno diventando sempre più piccole e frammentate; la completa, o quasi completa mancanza di beni immobili nelle aree rurali è in aumento, e nell'Asia Meridionale affligge almeno il 40% delle famiglie. La lotta per sopravvivere sovente insidia le vitali risorse naturali fondamento della popolazione rurale. Per esempio, soltanto durante gli ultimi trent'anni, pressappoco il 20% dei suoli coltivati sono andati persi, in gran parte causa mancanza di capitali e tecnologie necessarie ad intraprendere appropriate misure per la conservazione dei suoli.

La deforestazione delle foreste tropicali e dei terreni boscosi si è verificata ad un tasso di 11 milioni di ettari all'anno, a causa dei disperati tentativi fatti dai poveri per aumentare l'estensione delle aree coltivabili od ottenere legna da ardere. Milioni di ettari di terre sono divenuti sterili a causa di sistemi di irrigazione mal costruiti e peggio mantenuti. Ad una cattiva gestione delle risorse, peraltro, può venire addebitata oltre 1'80% della recente desertificazione in tutto il mondo.

Se l'attuale perdita di 27 milioni di ettari all'anno (pari a 66,7 milioni di acri) continuerà, il mondo rischia di assistere alla progressiva desertificazione di tutte le terre coltivabili in meno di 200 anni. C’è infine da ricordare che nel 1992, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) ha sviluppato quattro importanti indicatori - sicurezza alimentare, povertà integrale, bisogni fondamentali e benessere relativo - per quantificare la posizione relativa di ciascuna delle 113 nazioni prese in esame. Secondo le medie, le popolazioni rurali peggio classificate erano quelle del Bhutan, del Burkina Faso, della Somalia, della Mauritania e del Sudan, mentre le cinque migliori popolazioni rurali erano quelle di Cipro, di Malta, della Repubblica Coreana, di Barbados e di Mauritius.

In apparente controtendenza, in India, Indonesia, Malesia, Pakistan e Lesotho, negli ultimi 20 anni si erano registrati significativi progressi nella riduzione della povertà rurale. Il rapporto dell'IFAD concludeva che, tutto considerato, si era dimostrato falsa la presunzione che la crescita ed il benessere si diffondessero agli strati più poveri.

Ora, nonostante i progressi registrati come risultato di 40 anni di sforzi per lo sviluppo, le sofferenze rimangono, dal momento che ogni giorno mezzo miliardo di persone non ha di che mangiare a sufficienza e che, attualmente, 15 o 20 milioni tra essi muore ogni anno per inedia o a causa di malattie che vengono aggravate dalla malnutrizione.

Attirata dalla speranza di cibo, lavoro, servizi ed altre opportunità, una fetta sempre crescente della popolazione mondiale gravita intorno a paesi e città. Ne consegue che la povertà rurale alimenta la povertà urbana. E la gran parte di questi emigranti è costituita da uomini che, partendo, lasciano dietro di sé le proprie donne a badare alla terra ed alla famiglia. E la realpolitik di questo secolo ci porta sempre più a constatare che i governatori del mondo sono sempre più incapaci di darsi una comune strategia che tenda ad un reale progresso globale.

di Ilvio Pannullo

Il 2009 sarà ricordato come l'anno dell'inflazione più bassa degli ultimi cinquant'anni. Stando a quanto calcola l'Istat, nell'anno appena concluso i prezzi al consumo sono aumentati solo dello 0,8%: un record imbattuto dal 1959, quando l'inflazione fu pari a -0.4%. Allora il dato segnava l’inizio di una fase di espansione economica che sarebbe stata successivamente ricordata come uno dei periodi più felici nel dopoguerra italiano.

Dalla fine degli anni ’50, infatti, s’innescò in Italia una fase di rapida trasformazione delle strutture economiche e sociali. Fu un processo che in dieci anni trasformò la penisola da paese prevalentemente agricolo - sostanzialmente sottosviluppato - in un moderno paese industrializzato. Oggi la situazione appare decisamente diversa, nonostante il partito dell’amore, saldamente al governo, dispensi ottimismo per il presente e speranza per il futuro.

Stando ai dati rilasciati dall’Istituto nazionale di statistica nel mese di dicembre 2009, l'inflazione è aumentata di pochissimo: appena un + 0,2% su base congiunturale (rispetto a novembre 2009) mentre su base annua, l'aumento registrato è stato dell'1%. Sempre secondo l'Istat, nel 2008 l'inflazione era salita al 3,3%. Anche l'indice Ipca - quello utilizzato in sede europea ed ora utilizzato anche come base di riferimento per i rinnovi contrattuali (depurato però dei prezzi dei carburanti) - ha registrato un aumento dello 0,8% rispetto al 3,5% del 2008. Pare insomma che i dati descrivano una situazione più che positiva, con i prezzi al consumo stabili e le famiglie italiane pronte a cogliere l’opportunità fornita dall’aumento del loro potere di acquisto.

Peccato che nessuno sembra averlo notato. La statistica è, infatti, una materia molto delicata, una scienza non esatta i cui dati rappresentano più una tendenza che una precisa fotografia della realtà. Basti pensare che, in un'ipotetica società formata da due sole persone, di cui una è proprietaria di due telefoni mentre l'altra è nullatenente, secondo la statistica entrambe avrebbero un telefono a testa. Nell’ipotetica società, dunque, non si registrerebbe - questo almeno secondo i numeri - alcuna anomalia.

Quanto appena detto è necessario per comprendere come sia possibile che, dietro a un costo della vita basso come quello accertato dall'Istat per il 2009, si celi una riduzione del potere d’acquisto e del reddito per milioni di famiglie. Se nel dopoguerra l’inflazione zero segnava infatti l’inizio del boom economico, oggi lo stesso dato statistico descrive tuttavia una realtà completamente diversa. Allora il maggior impulso all’espansione economica venne proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tali da consentir loro di reggere l’ingresso dell'Italia nel Mercato Comune Europeo, in quegli anni ancora in costruzione. Il settore industriale, nel solo triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del 31,4%. Assai rilevante fu anche l’aumento produttivo nei settori in cui erano presenti le grandi realtà industriali: le autovetture segnarono un più 89%; la meccanica di precisione un più 83%; le fibre tessili artificiali un più 66,8%. Oggi la realtà dell'economia italiana è purtroppo assai diversa.

La recessione che ha investito l'intera economia internazionale ha colpito gli italiani in modo eterogeneo: chi ha perso il lavoro ha avuto un tracollo del reddito e ha dovuto adattare il proprio stile di vita di conseguenza; i redditi fissi, invece, hanno beneficiato dei prezzi bassi guadagnando addirittura potere d'acquisto, un'occasione preziosa per recuperare gli effetti mai smaltiti dell'introduzione dell'euro. Dal 2001 a oggi, centinaia di prodotti - secondo quanto riportato su Milano finanza del 12 gennaio - hanno subito enormi rincari: si va dal 5% per 250 g di burro, il rincaro più basso, al 290% per un cono gelato, il rincaro più alto. Almeno questa è la teoria.

Nella pratica si osserva infatti che nonostante l'inflazione sia prossima allo zero il potere di acquisto delle famiglie italiane ha continuato a ridursi, come peraltro certificato dallo stesso Istituto nazionale per la statistica: nel periodo ottobre 2008-settembre 2009, il reddito disponibile in termini reali è diminuito dell'1,6% rispetto a un anno prima. La domanda dunque si pone spontanea: come si spiega questo mistero? Come’é possibile che a prezzi bassi corrisponda un potere d'acquisto in calo?

La risposta si trova guardando quelli che sono gli unici prezzi a salire in tempo di recessione. Per esempio tariffe e pedaggi, come nel caso delle Ferrovie dello Stato che a dicembre hanno rivisto al rialzo i prezzi dei biglietti, con punte del 20%. Similmente nel 2010 Autostrade per l'Italia, il gruppo acquistato a debito dalla famiglia Benetton, ha deciso un aumento dei pedaggi del 2,4%. E questi sono aumenti che colpiscono tutti e contribuiscono ad innescarne altri: "In un paese dove l'80% dei trasporti avviene su gomma - afferma la Coldiretti - l'aumento dei pedaggi pesa sui costi della logistica che incidono per quasi un terzo sui prezzi di frutta e verdura". E, per restare in tema di logistica, da marzo anche gli scali aeroportuali potranno applicare rincari compresi fra 1 e 3 euro, in base al volume degli investimenti e al numero di passeggeri di ogni scalo.

Ma non finisce qui: dopo un anno di ribassi sono salite le tariffe del gas (€ 26 in più all'anno); si è adeguato il canone Rai aumentato di € 1,5 in più rispetto al 2009; l'assicurazione auto obbligatoria costerà in media ad ogni famiglia € 130 in più all'anno; il ricorso al giudice di pace € 55; la bolletta dell'acqua € 18; la Tarsu (la tassa sui rifiuti solidi urbani) € 35; i servizi bancari € 30 e le rate dei mutui per l'aumento dello spread applicato dalle banche € 80, annullando o quasi il beneficio derivante dai bassi tassi di interesse a livello europeo. Insomma, un'apocalisse di rincari che secondo l’Adusbef e Federconsumatori ammonterà a € 660 annui. Aumenti - è bene ricordarlo - che non dipendono dall'andamento della domanda ma da decisioni quasi sempre di tipo amministrativo, come le tasse, o da rigide condizioni di mercato (come la Rca) o da quello del credito.

La conseguenza di tutto ciò sarà che chi ha un reddito fisso non riuscirà sostenere l'economia approfittando dei prezzi bassi, perché il suo "bonus da inflazione zero" finirà divorato dai vari aumenti delle tariffe, mentre chi avrebbe bisogno di un po' di respiro riceverà il colpo finale. Secondo Federconsumatori "ogni famiglia sarà colpita nel suo potere d'acquisto per mancati introiti dovuti a cassa integrazione, minori guadagni e disoccupazione, per un ammontare complessivo pari a € 565". Mancate entrate che, se sommate ai 660 euro di rincari significano, più o meno, 1000 Euro in meno all'anno. E, se riparte l'inflazione, sarà ancora peggio.

di Ilvio Pannullo

Recentemente Silvio Berlusconi è tornato a parlare di un suo antico pallino: la riforma fiscale. Le ipotesi sul tavolo sono essenzialmente due: una riforma di ampio respiro, come vorrebbe il ministro dell'economia e delle finanze Giulio Tremonti, oppure un progetto più semplice di riduzione delle aliquote Irpef, come il reuccio di Arcore promette dal lontano 1994. Appena tuttavia si cercano informazioni più concrete sul come questa straordinaria manovra dovrebbe concretizzarsi, iniziano i problemi: l'unico documento ufficiale disponibile, infatti, è il "libro bianco" scritto proprio da Tremonti nel 1994.

Tre linee guida ne ispiravano le proposte di riforma tributaria: dalle persone alle cose, dal complesso al semplice, dal centro alla periferia. Era un’impostazione suggestiva, in un mondo in cui era diventato più difficile il controllo, più alto il costo indiretto, più pressante la prospettiva del decentramento. Purtroppo non ne fece nulla e la cosa, ovviamente, non fa ben sperare per il futuro. L'idea rilanciata dal cameleontico Giulio è questo: da una parte tagliare il peso delle imposte sulle persone fisiche; dall'altra, alzare la tassazione sulle cose aumentando l'imposta sul valore aggiunto. A questo si aggiunge l'ipotesi di una parziale tassa patrimoniale, concepita in funzione antievasiva, per tassare non soltanto il reddito ma anche il patrimonio.

Per comprendere però quanta fiducia si possa riporre in quest'ennesima promessa, fatta dal Cavaliere e spalleggiata dal suo commercialista di fiducia piazzato a Via XX Settembre, è bene fare un passo indietro ed osservare la situazione dell'economia italiana nel suo complesso, con particolare attenzione ai conti pubblici. Sottolinea da Gilberto Muraro su Lavoce.info: “Nell'Italia di oggi riforma tributaria non significa riduzione del prelievo fiscale. Significa, a parità di pressione, cambiare la distribuzione dell'onere tra tipologie di cespiti e contribuenti, nonché le modalità tecniche del rapporto tributario”. Bisogna infatti considerare che una vera riduzione del carico fiscale passa inevitabilmente per il taglio della spesa pubblica, a meno che non si voglia aggravare l'incidenza del debito pubblico sulla già precaria capacità produttiva del nostro paese. Anche considerando l'innalzamento dell'Iva e le altre coperture, per assicurare l'approvazione della riforma servirebbero, infatti, altri 20-30 miliardi di Euro, che non ci sono né ci saranno.

L'idea cara al premier, prevede infatti la riduzione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche attraverso il passaggio dalle cinque attuali a due sole aliquote: al 23% e al 33%. Appare, tuttavia, poco verosimile che una riforma di queste proporzioni possa essere varata in un momento dove l'incidenza delle politiche economiche anticicliche risulta determinante per uscire da una crisi non ancora conclusa. Per assumere provvedimenti incisivi, è infatti necessario poter fare affidamento su di una grande quantità di risorse, per evitare l'aggravarsi di una situazione di per sé già pessima.

A dimostrazione che la crisi non è finita ci sono i dati sulla disoccupazione: l'8 gennaio di questo mese sono arrivati quelli relativi all'area Euro, dove a novembre, per la prima volta da 10 anni, si è superata la soglia psicologica del tasso del 10%, ancora in aumento rispetto al 9,9% di ottobre. In valori assoluti significa che nell’Eurozona ci sono quasi 16 milioni di disoccupati, che salgono a 22 milioni se il calcolo viene esteso all’intera Unione Europea. L'Italia se la passa appena meglio, con una disoccupazione certificata dall'Istat all'8,3% (i disoccupati sono oramai più di 2 milioni) ma i dati italiani vanno sempre presi con beneficio d'inventario, visto che non considerano le dinamiche dell'economia sommersa.

Il partito dell'amore, fortemente interessato a condurre la campagna per le regionali cavalcando i temi cari al suo elettorato, per sostenere la ragionevole possibilità di riuscire nell'impresa di tagliare le tasse - come peraltro promesso nella campagna per le politiche - si sbraccia nell'annunciare l'imminente ripresa e nel sottolineare qualsiasi indicatore economico preceduto dal segno positivo. Una ripresa tuttavia atipica, in quanto pare non assicurare alcuna diminuzione del tasso di disoccupazione. Una spiegazione per questa anomalia la suggerisce la copertina dell'ultimo numero dell'Economist, che titola "Bubble Warning”, ossia pericolo bolla finanziaria. Gran parte dell'ottimismo che circola in questo periodo, infatti, dipende dall'andamento dei mercati finanziari, e soltanto da quello. L'indice globale MSCI, calcolato dall'agenzia Bloomberg, riassume l'andamento globale dei mercati azionari: da marzo, quando ha toccato il punto più basso, è salito di 500 punti: un rialzo del 70% che indica come le borse di tutto il mondo abbiano superato il panico e siano tornate a crescere.

Purtroppo per noi, pare che la recente crisi non abbia infatti insegnato nulla ai grandi maghi della finanza. Come si legge, sempre sull'Economist ,“ il problema per gli investitori non è solo che le valutazioni di borsa sono alte rispetto ai valori storici, ma soprattutto che l'attuale combinazione di elevati prezzi dei titoli, bassi tassi di interesse e colossali deficit fiscali non è sostenibile”. Tradotto: prima o poi qualcuno dei tre elementi verrà meno e l'equilibrio si romperà con una nuova crisi. Una crisi che sarà ancor più devastante di quella ancora in atto perché causata dagli stessi problemi, che sembra di capire non possono essere risolti neanche in presenza di una chiara volontà politica. Un segnale forte diretto a tutti coloro che si ostinano nel credere ingenuamente che sia la politica a governare l’economia.

In questo scenario altamente instabile, l'Italia si trova particolarmente esposta a causa del suo ciclopico debito pubblico. Peggiorano i conti dello Stato. Appena pochi giorni fa l'Istat ha comunicato che, nei primi nove mesi del 2009, il rapporto deficit-Pil è salito al 5,2% contro il 2,8% dello stesso periodo del 2008. La pubblica amministrazione continua insomma a creare deficit. Sempre l'Istat spiega che, nel terzo trimestre 2009, le uscite sono aumentate del 4,1% rispetto al terzo trimestre dell'anno precedente. Sono cresciute anche le spese correnti (+2,2%) mentre sono diminuite le entrate a causa della contrazione dell’economia. Anche l'indebitamento al netto degli interessi passivi, cioè il saldo primario, quei pochi soldi che lo Stato può decidere di investire, è risultato negativo mentre era positivo nello stesso periodo del 2008. Va male anche il saldo corrente, cioè il risparmio al netto delle spese, passato in negativo di 940 milioni di euro nel terzo trimestre 2009 contro un valore positivo di quasi 6,5 miliardi di euro nello stesso periodo dell'anno precedente. Un bilancio disastroso per un governo a dir poco disastroso.

I dati arrivano dopo che, nei giorni scorsi, il ministro dell'economia aveva fornito le cifre, non certo brillanti, del fabbisogno annuo dello Stato. Nel 2009 si è arrivati a 85,9 miliardi di euro (dato questo provvisorio) contro i 54,3 miliardi del 2008. Dunque 31,6 miliardi in più, che sono un'enormità se si pensa che il gettito tributario, cioè le entrate del fisco, è stabile nel 2009 rispetto al 2008 e lo scudo fiscale non porterà in cassa più di 5 miliardi. Il vero nodo, come sostiene anche la Corte dei Conti, è e rimarrà ancora l'evasione fiscale. Immaginarsi, tuttavia, che questo governo decida di affrontare seriamente la questione appare immediatamente ridicolo.

Le soluzioni concretamente praticabili rimangono poche: la prima, la più verosimile, è la possibilità che il gettito proveniente dalla proroga dello scudo fiscale, ancora ignoto ma nel probabile ordine di 4-5 miliardi, venga utilizzato per un intervento una tantum a beneficio delle famiglie, da annunciare a ridosso delle elezioni regionali di primavera; la seconda prevede invece un drastico taglio alla spesa sociale che, in un momento di difficoltà tanto marcato, equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra da recapitare ai sindacati e a tutte le classi sociali più deboli. Con le regionali alle porte c’è da sperare che B. non faccia pazzie. A tanto ci siamo ridotti.

di Michele Paris

Messo alle spalle un anno nerissimo per i lavoratori americani, i principali responsabili della crisi economica globale - banchieri e dirigenti dei colossi di Wall Street - si apprestano questa settimana a dividersi un bottino di gratifiche che ammonta a svariati miliardi di dollari. Di fronte all’indignazione dei contribuenti e ai tiepidi rimbrotti di qualche politico, le grandi banche d’investimento stanno cercando disperatamente qualche patetica operazione di facciata per dissimulare la realtà: una gigantesca spartizione di ricchezza generata da pratiche finanziarie ad alto rischio grazie ad enormi infusioni di denaro pubblico.

I bonus miliardari che stanno per essere distribuiti ai dipendenti più zelanti sono in linea, e a volte addirittura superiori, a quelli erogati negli anni del boom finanziario. In media, Goldman Sachs per il 2009 pagherà ogni suo impiegato 595 mila dollari, anche se ovviamente ai piani più alti ci saranno picchi di decine di milioni di dollari. Leggermente inferiore, invece, il valore medio dei premi concessi da JPMorgan Chase: 463 mila dollari.

Molte banche negli ultimi tempi hanno cercato di ridurre le gratifiche in contanti, puntando piuttosto su pacchetti azionari, così da spingere i loro dirigenti a perseguire strategie di successo a lungo termine. Allo stesso modo, qualche compagnia ha scelto di diminuire la quota delle proprie entrate annuali da destinare ai bonus per i dipendenti. Interventi, in realtà, puramente di facciata, dal momento che le cifre in ballo - sia in contanti o sottoforma di “stock options” - raggiungeranno in ogni caso anche quest’anno livelli da record.

Secondo i dati ufficiali, nel corso dei primi nove mesi dello scorso anno cinque delle banche più importanti salvate dal governo federale nel pieno del crollo finanziario - Bank of America, Citigroup, Goldman Sachs, JPMorgan e Morgan Stanley - hanno accantonato qualcosa come 90 miliardi di dollari per i dipendenti più operosi. La sola Goldman Sachs, capace di versare la somma record di 68 milioni di dollari per l’anno 2007 al suo presidente e amministratore delegato, Lloyd C. Blankfein, per lo stesso periodo ha accantonato 16,7 miliardi.

Rispetto ai profitti complessivi, la porzione di denaro destinato ai bonus è però progressivamente scesa nel corso del 2009, dal 50% del primo quadrimestre al 48% e al 43% per quelli successivi. Per JPMorgan si è passati invece dal 40% di inizio anno al 37% degli ultimi quattro mesi. A Bank of America, che ha fatto segnare ricavi immensi durante l’anno appena trascorso, le gratifiche saranno invece accompagnate da una clausola che permetterà ai vertici della compagnia di recuperarne una parte in caso gli affari dovessero andare per il verso sbagliato nei prossimi mesi.

Molto preoccupato delle reazioni negative del popolo americano è anche il consiglio di amministrazione di Morgan Stanley, la cui fetta di profitti derivanti dal mercato finanziario è decisamente inferiore rispetto ai giganti Goldman e JPMorgan. I 25 dirigenti più pagati della banca d’affari fondata nel 1935, saranno ricompensati in prevalenza con azioni e contanti ad incasso deferito nei prossimi anni e vincolati alla performance della compagnia sul mercato. Il presidente uscente, John J. Mack, da parte sua ha inoltre generosamente deciso di rinunciare alla propria fetta per l’anno 2009.

Identico sacrificio sosterrà quest’anno anche il numero uno di Citigroup, Vikram Pandit, il quale accetterà un salario simbolico di un dollaro. Gli oltre 38 milioni incassati dodici mesi fa dovrebbero comunque essere “sufficienti” per ora a garantirgli il tenore di vita raggiunto e provvedere alle spese del suo appartamento da 18 milioni di dollari nell’Upper West Side. La stessa Citigroup, nonostante le difficoltà che tuttora attraversa, pagherà circa 5,3 miliardi di dollari in bonus, di cui 9 milioni in azioni al responsabile della sezione investimenti, John Havens.

Tra le iniziative messe in atto per attenuare le critiche provenienti da più parti, spicca poi quella resa nota recentemente da Goldman Sachs. Proprio alla vigilia della distribuzione dei premi legati alle prestazioni del 2009, la potentissima banca d’investimenti ha annunciato l’espansione di un proprio programma che già prevede il versamento in beneficenza di una percentuale dei bonus dei top manager. La cifra in questione risulta ancora incerta, anche se l’iniziativa appare simile a quella che aveva già messo in atto la fallita Bear Stearns, la quale richiedeva ai suoi dipendenti più pagati di corrispondere almeno il 4% del loro stipendio in beneficenza.

Poco più di un’elemosina, dunque, quella di Goldman Sachs, in grado nel solo 2009 di mettere assieme utili per quasi 12 miliardi di dollari dopo aver accettato soldi pubblici per circa 10 miliardi, e che assomiglia molto ad un’altra recente azione caritatevole, adottata in risposta alle pressioni della Casa Bianca: lo stanziamento di un fondo di 500 milioni di dollari da destinare come prestiti alle piccole imprese americane in affanno.

I compensi milionari di Wall Street continuano ad essere inevitabilmente uno dei punti fermi delle grandi banche che controllano la finanza americana. Oltre a costituire l’incentivo principale per broker che devono massimizzare, in tutti i modi, i profitti delle loro compagnie, essi rappresentano anche l‘unico modo che queste ultime hanno a disposizione per continuare ad assicurarsi i servizi dei più capaci e prevenire così qualsiasi tentazione di un loro trasferimento alla concorrenza.

Per quanti proclami e rimproveri i politici d’oltreoceano abbiano pronunciato, a partire dall’esplosione della crisi più di un anno fa - ultima, in ordine di tempo, la critica in diretta televisiva sulla CNN di una dei principali consiglieri economici del presidente, Christina Romer - poco o nulla si è fatto per limitare questa pratica. Quel potere sulle banche di Wall Street che il governo teoricamente deteneva, sta inoltre svanendo dopo che gli ingenti prestiti pubblici che hanno permesso loro di tornare a raccogliere profitti miliardari stanno per essere ripagati in fretta e furia.

Se l’agguerrito deputato democratico dell’Ohio, Dennis Kucinich, ha depositato al Congresso un progetto di legge, almeno per sottoporre i bonus milionari ad una nuova tassa, le speranze per un cambiamento di rotta in questo ambito appaiono molto fievoli. L’influenza di Wall Street sulla politica americana rimane infatti enorme, come enormemente pericolosa appare l’ipoteca messa dai colossi della finanza sul futuro dell’economia mondiale.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy