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di Mario Braconi
"Non è accettabile che nel settore finanziario i benefici del successo vengano attribuiti ad una minoranza mentre i costi del fallimento siano messi in conto a tutti noi. I mercati finanziari globali vanno guidati verso una maggiore aderenza ai valori condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini: duro lavoro, senso di responsabilità, integrità e correttezza. Dobbiamo ideare un contratto sociale ed economico più efficiente tra istituzioni finanziarie e il pubblico, che si basi sulla fiducia reciproca e sulla equa distribuzione di rischio e rendimento." Non è la citazione di un militante no-global: è un estratto del discorso con cui il premier britannico, Gordon Brown, si è rivolto ai colleghi del G20 dello scorso fine settimana, tenutosi a St. Andrews (Scozia).
Brown fa sapere al mondo che desidera mettere in riga le banche, cioè quelle efficienti istituzioni che, secondo una stima di Bloomberg, sono costate ai cittadini dei paesi occidentali qualcosa come 500 miliardi di dollari tra iniezioni di capitale a copertura delle perdite, garanzie ed altre forme di salvataggio dal fallimento. Brown non ha una ricetta ben definita: potrebbe infatti trattarsi di costringere le banche a pagare il premio di una specie di "polizza assicurativa" a fronte del diritto ad usufruire del sostegno pubblico in caso di necessità (ipotesi sponsorizzata dagli Americani); ovvero della costituzione di un fondo speciale; o dell'emanazione di regole transitorie in materia di capitale da allocare a fronte degli impegni assunti; oppure ancora - teniamoci forti - di una tassa globale sulle movimentazioni di tipo finanziario (operazioni in cambi e derivati).
Brown ha tirato fuori la Tobin Tax dal cassetto in cui stava ammuffendo dagli Anni Novanta, e oggi sembra che le sue opinioni in tema di tassazione dei capitali non differiscano molto da quelle di Attac, la ONG che ha fatto della "tassa Tobin" uno dei suoi cavalli di battaglia. Una mossa che ha spiazzato politici e commentatori, anche perché tassare le transazioni finanziarie è considerata un'idea un po' estremista ai limiti del socialismo reale. Senza contare che ogni volta che è uscita dalle accademie per finire dentro qualche programma politico, ha avuto vita breve (e difficile).
L'ultimo caso si è verificato la scorsa estate in Gran Bretagna, quando Lord Adair Turner, capo della Financial Services Authority (la CONSOB del Regno Unito) in una intervista al mensile Prospect, ha sostenuto che per rimettere in sesto il settore finanziario britannico si rendono necessari interventi talmente drastici da far sembrare la polemica sui bonus dei banchieri "una digressione populista"; Turner ha poi sparato a zero sulla City, la quale, lungi dall'essere il fiore all'occhiello dell'economia d'Oltre Manica, ne costituisce invece l'elemento destabilizzante per eccellenza. Impagabile il passaggio dell'intervista in cui Lord Turner si duole del fatto che la finanza in questi anni ha risucchiando alcuni dei migliori talenti del Paese per aggiogarli a lavori "socialmente inutili". Turner conclude il suo intervento incendiario dichiarando che una eventuale tassa globale sulle transazioni finanziarie è un modo accettabile per contenere gli attività e profitti del settore finanziario, ormai fuori controllo.
Il numero di Prospect con la sua intervista è appena uscito dalle rotative e Turner è costretto a difendersi da una lapidazione mediatica: le questioni relative alla tassazione non sono materia del Ministro delle Finanze, non del capo di un'Authority, che invece dovrebbe occuparsi di regolamentare il mercato, gli si fa notare freddamente; l'idea di una tassa sui movimenti finanziari è roba per malati di mente - quasi impossibile da applicare e gravemente dannosa della principale attività del Paese, la finanza (60% del PIL della Gran Bretagna). Dettaglio interessante: in quell'occasione, il governo non si affretta (anzi) a difenderlo mentre sul suo capo solenne piovono incudini dai piani alti di Canary Wharf.
Guardandola dal punto di vista della politica interna, la boutade di Brown va inserita nel contesto dei risultati disastrosi del suo mandato e costituisce l'estremo tentativo del premier di guadagnare qualche consenso progressista dicendo qualcosa talmente "di sinistra" da essere inapplicabile. Questa è anche l'interpretazione (forse un tantino ingenerosa) che dell'uscita di Brown fa Vincent Cable, portavoce del Liberaldemocratici: "Una Tobin Tax è una buona idea, lo è stata da decenni, ma i governi ancora non hanno mai trovato modo di applicarla. Brown farebbe meglio a sfruttare il breve periodo che lo separa dal termine del mandato per introdurre misure più pratiche, quali l'incremento delle imposte sulle banche che sono troppo grandi per poter fallire." Eppure, l'idea sviluppata dall'economista premio Nobel nei primi anni Settanta (mettere "un po' di sabbia tra gli ingranaggi della finanza" per limitare i movimenti speculativi) è tuttora valida, e probabilmente non merita di essere cestinata senza qualche approfondimento.
A prescindere dalle questioni di cucina laburista, come sottolinea William Hunt sul Guardian, la provocazione di Brown è "perfetta". In effetti essa non è che un modo per rispondere alla domanda che molti cittadini si stanno ponendo in questi mesi: la relazione tra la Grande Finanza e i cittadini tassati è simmetrica e corretta? Non sembra proprio. Inoltre, non è vero che un'eventuale tassa Tobin sarebbe complicata da applicare e ridurrebbe la liquidità del sistema: al contrario, se dovesse passare la proposta americana, che prevede scambi centralizzati per una gran quantità di transazioni finanziarie, la tassa potrebbe essere applicata in modo assai agevole. Ma soprattutto è assurdo sostenere che la possibile riduzione del volume transato sui mercati in conseguenza della tassazione sarebbe un danno in senso assoluto, come argomentano molti nemici della Tobin tax.
Hunt ricorda che il volume delle transazioni che circolano sui mercati finanziari vale 10 volte il PIL mondiale: "Le dimensioni dei mercati finanziari sono esplose; essi sono dominati da banche-portaerei in grado di prendere in prestito migliaia di miliardi di dollari che, in caso di crisi di fiducia, possono buttar giù intere economie. Un modello efficiente solo per i singoli banchieri, i quali sono messi in condizioni di guadagnare fortune, ma inefficiente per tutti gli altri."
Secondo uno modello sviluppato di recente dall'Istituto Austriaco di Ricerca Economica, una tassa Tobin dello 0.05% su tutte le transazioni in divisa, in azioni e in derivati, produrrebbe un gettito di 360 miliardi di dollari l'anno; ma anche un gettito di 36 miliardi l'anno, corrispondente ad un'aliquota pari ad un decimo dello 0.05% (cioè dello 0.005%) produrrebbe un gettito interessante (36 miliardi). Max Lawson, consigliere anziano della ONG Oxfarm, non nasconde il suo entusiasmo: "Sarebbe un passo significativo nel processo di risanamento dopo il disastro provocato dall'avidità sfrenata dei banchieri. Ogni minuto, cento persone nel mondo vengono gettate nella povertà estrema a causa della crisi economica. Il denaro ricavato dalle transazioni finanziarie potrebbe cambiare radicalmente le loro vite."
Purtroppo a freddare gli entusiasmi di Brown e dei fan della Tobin Tax arrivano i rappresentanti di USA e Canada. In particolare, Geithner, in un'intevista a Sky News, ha dichiarato: "Questa tassa non è tra le misure che siamo pronti a sostenere, ma ritengo che tutti condividiamo il basilare interesse a governare un sistema in cui i cittadini che pagano le tasse non siano esposti ai rischi ed in cui le istituzioni finanziarie subiscono le conseguenze dei loro errori." Secondo Alastair Darling, che è subito corso in aiuto di Brown, la relativa freddezza di Geithner sul progetto di una tassa sulle transazioni finanziarie non esclude che anche gli USA stiano pensando a qualche strumento diverso che abbia comunque per oggetto il settore finanziario.
Non è escluso che quella di Darling sia la difesa d'ufficio di un autorevole compagno di partito e di governo di Brown; ma è difficile dare torto al collaboratore di Brown intervistato dal Guardian quando sostiene che anche i salvataggi statali delle banche e il condono del debito dei paesi in via di sviluppo fino a pochi anni fa erano considerati idee astratte ed invece hanno finito per guadagnare consenso in patria e all'estero. Ora la palla è nel campo americano.
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di Mario Braconi
Riferisce il quotidiano Times che in una recente circolare interna, stilata in un inglese esilarante quanto incomprensibile, uno dei grandi capi della banca d’affari giapponese ha ribadito una volta per tutte le regole di etichetta che la Casa impone ai suoi dipendenti (in particolar modo a quelli di sesso femminile). Smalto per unghie di colori accesi, pantaloni al di sopra della caviglia, camicie di tessuto lucido, o con le maniche più corte della metà del bicipite, colpi di sole sui capelli: tutte queste cose sono sintomo di scarsa serietà e pertanto non sono coerenti con i rigidi canoni del dress code imposto dal vertice aziendale.
Sembra che i principali bersagli polemici dell'ignoto censore siano i dipendenti di Lehman Giappone, acquistata da Nomura a setttembre del 2008, dopo il fallimento della casa madre: è possibile che alla Lehman, negli USA come nel Paese del Sol Levante, le donne tendessero a godere (almeno in apparenza) di pari diritti rispetto ai loro colleghi maschi, un fatto che ai vertici di Nomura proprio non pare vada giù. La circolare-monstre citata dal Times è solo il caso più eclatante del conflitto intestino, quasi epico, che si sta consumando tra i due segmenti della attuale Nomura giapponese, quello originario e quello ex Lehman. Non si parla (solo) di uno "scontro di civiltà" tra il Medioevo contemporaneo giapponese e la (talora ipocrita e certamente incompiuta) modernità occidentale. Il modo di fare business, le strutture organizzative, i processi decisionali, i metodi di incentivazione del personale delle due banche non potrebbero essere più diversi e questa grave disomogeneità costituisce un'ipoteca importante sull'integrazione.
Non è un mistero che Nomura abbia fatta propria la visione tradizionalista giapponese, secondo cui la donna deve essere sottomessa al maschio: anche in una sala cambi, le si chiede di interpretare con toni quanto più possibile sobri la sua “naturale” funzione ornamentale e di servizio all’uomo. Gli esempi non mancano: le Risorse Umane di Nomura hanno ritenuto di suddividere i neo assunti per sesso e di far seguire loro corsi separati. Al gruppo delle ragazze, tra cui si contavano anche laureate ad Harvard (assunte da Lehman prima che fallisse) è stata somministrata una formazione un po’ speciale, grazie alla quale le giovani hanno avuto la possibilità di apprendere come sistemarsi i capelli, preparare il tè e vestirsi in modo modesto ed appropriato alla stagione e al contesto, nozioni assolutamente necessarie a fare buoni affari sui mercati finanziari. Ancora: dopo l’acquisizione, gli indirizzi di posta elettronica delle ex dipendenti Lehman sposate sono stati modificati d’ufficio, sostituendo al loro cognome da nubili quello del marito; si dice che lo stesso sia accaduto alle dipendenti di Bear Stearns dopo l’acquisizione da parte della (ugualmente americana) JP Morgan.
Da un punto di vista strategico, Nomura ha sempre avuto un gran bisogno di espandersi all'estero. E’ in quest'ottica che va letta la scelta di spedire fuori dal Giappone due pezzi da novanta dell'organizzazione: il capo del settore Investment Banking Hiromi Yamaji - a Londra - e lo "zar" dell'Azionario Naoki Matsuba, a New York. "Se non guardasse all'estero, la sua natura di casa di brokeraggio indipendente renderebbe Nomura vulnerabile a scalate azionarie ostili, orchestrate da una megabanca giapponese o, se è per questo, anche da chiunque altro abbia un qualche peso nel mercato internazionale", ha dichiarato qualche mese fa al Wall Streeet Journal Takumi Shibata, COO (Chief Operating Officer) di Nomura da marzo 2008.
Il sogno di Nomura è sempre stato quello di conquistarsi un posto al sole negli Stati Uniti. I primi tentativi con le cartolarizzazioni ed i prodotti strutturati sui mutui sono stati dolorosi per il bilancio (perdite per oltre 600 milioni di dollari) e per l'orgoglio. In questi mesi, però, con le banche americane ancora debilitate dal febbrone scatenato dalla crisi subprime, pare che Nomura stia finalmente "sfondando": lo scorso luglio è stata infatti inclusa nella lista ufficiale dei dealer sul mercato primario dei titoli di Stato americani, mentre prosegue con la sua politica aggressiva di assunzioni di persone strategiche da altre banche (Bank of America). Non a caso, i suoi dipendenti negli USA si avvicinano al migliaio, contro i 650 dell'anno precedente.
Un tema delicato è quello delle retribuzioni: mentre un capo della Nomura guadagna 250.000 dollari l'anno, un executive di Lehman era in grado di portare a casa anche decine di milioni di dollari. Nel tentativo di trattenere in azienda gli ex-Lehman, Nomura ha dovuto garantire ai dirigenti della banca USA livelli retributivi simili a quelli cui erano abituati, multipli rispetto a quelli tradizionalmente erogati. Risultato: costo del personale raddoppiato in un trimestre, con effetti negativi sul corso del titolo azionario, ma anche sul morale dei dipendenti Nomura, i quali (e giustamente) promettono battaglia.
Con l'arrivo di Lehman, inoltre, Nomura si è spinta a licenziare personale, una misura che per le aziende giapponesi è un vero tabù. Eppure gli ex-Lehman, apparentemente inconsapevoli di rappresentare un modello di gestione marcio e tossico, non contenti di pretendere retribuzioni scandalose che creano imbarazzo e rabbia nei loro colleghi, continuano a piantar grane: si lamentano del fatto che, non avendo Nomura acquistato il ramo USA di Lehman, è difficile fare business laggiù. Non tollerano di essere affiancati da colleghi giapponesi che sono "gli occhi e le orecchie" dei boss di Tokyo; sono talmente spudorati da fare la lagna perché il "processo di approvazione delle operazioni - in cui Nomura mette a rischio il suo capitale per supportare i clienti - è più lento e faticoso di quanto fosse in Lehman" (come se non si fosse visto dove ha condotto la disinvoltura e la velocità con cui in Lehman si prendevano le decisoni!).
Quando poi più di un cliente è interessato ad un'operazione di M&A (acquisizione e fusione di società), gli ex Lehman si scontrano regolarmente con i loro capi della Nomura: mentre i primi tendono a privilegiare i clienti che pagano le commissioni più elevate, i giapponesi considerano anche altri criteri, ad esempio la lunghezza della relazione. Insomma, sembra proprio che la smisurata arroganza dello stile Lehman sopravviva al fallimento della banca. E che si appresti a fare altri danni.
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di Ilvio Pannullo
È proprio il caso di dirlo: tutto scorre, tutto cambia nel Belpaese. Basta attendere il tempo necessario - spesso neanche troppo - per assistere ai cambiamenti più impensabili, cambi di strategia che generalmente maturano nel tempo, ma che in Italia si materializzano in pochi istanti. L’ultimo in ordine di tempo arriva da quel genio di coerenza politica che è Giulio Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze. D’un colpo, come un fulmine a ciel sereno, il Robin Hood dei ricchi stordisce quanti erano presenti al convegno, promosso dalla Bpm, sulla partecipazione dei lavoratori all'azionariato delle imprese, tornando ad elogiare il tanto vituperato posto fisso al punto da individuarlo come "la base della stabilità sociale". Ad ascoltarlo tra i tanti erano presenti anche i segretari generali dei tre sindacati confederali: Cgil, Cisl e Uil.
"Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale". Parole che sembrerebbero uscite dalla bocca di qualche sindacalista. A pronunciarle in un pubblico dibattito è invece il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il discorso, ovviamente, assume un peso diverso. Cambia al punto che si potrebbe gridare alla rivoluzione se non fossimo in Italia, un paese dove dal dopoguerra in poi le rivoluzioni non si sono mai fatte, ma sempre e solo annunciate. S’impone così una riflessione su quest’ennesimo annuncio dal retrogusto giacobino, un ragionamento che abbia come base la presa di coscienza dell’attuale natura schiavistica del mercato del lavoro.
Appare infatti paradossale che a pronunciare queste parole sia stato proprio quel Giulio Tremonti, titolare del dicastero dell’economia italiana in ogni legislatura del Polo prima e della Casa delle Libertà poi. Se tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi sono pochi, infatti, quelli che hanno potuto mantenere ruoli di rilevanza politica nel corso degli ultimi governi di destra, di certo uno di questi è proprio Tremonti. Presenza irrinunciabile per Berlusconi dal 1994 ad oggi, il divino Giulio ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Economia in ogni legislatura del Biscione, seguendo un percorso professionale difficile a causa di due dimissioni e dell’abbandono anticipato del ruolo in seguito alla crisi di governo nel 1996. Ciò nonostante si può certamente affermare che è stato uno dei primi responsabili dell’attuale situazione in cui versa l’economia italiana, avendo avuto la responsabilità di governare per quasi dieci degli ultimi 16 anni.
Anni in cui il mercato del lavoro è stato letteralmente sabotato in nome della flessibilità e della mobilità dei lavoratori. Il tutto per rendere - si diceva - più competitivo il paese. Peccato solo che alla flessibilità si sia sostituita la precarietà, il tutto realizzato sulla pelle dei lavoratori di colpo trasformati da esseri umani a capitale umano da gestire, con i soli bilanci dei padroni a trarne qualche giovamento. Quella flessibilità che, secondo il ministro, sarebbe figlia della globalizzazione che "non ha trasformato il quantum di lavoro ma la qualità di lavoro, passato da fisso a mobile. Era inevitabile - dice - fare diversamente". Un po’ come dire che lui, poverino, non poteva fare nulla di diverso da quello che fece. Dopotutto, allora, era solo il responsabile del ministero dell’Economia. Adesso, par di capire invece che le intenzioni sono cambiate e, con esse, anche le politiche che s’intende adottare per il futuro. Il tempo dell'elogio della mobilità e dell'esempio americano sembrano passati di moda. L’Italia che lavora ringrazia, nella speranza che il nuovo orientamento culturale descriva la sensibilità dell’intero governo e non magari la personalissima idea del ministro.
È un uomo misterioso Giulio Tremonti, imperscrutabile per via della sua capacità di dire tutto ed il contrario di tutto molto velocemente e senza temere alcuna smentita. Va detto che difficilmente lo si vede scendere in proclami accompagnati da logiche di plenario ottimismo; l’inderogabile attività economica e finanziaria lo pongono sopra le logiche mediatiche, aggrappandosi alla gravità di tecnicismi che lo trattengono scostato dagli assetti politici più attinenti al pubblico riscontro. Nonostante questo, data la lungimiranza espositiva di questi anni, perfino il poco telegenico immobilismo di Tremonti ha saputo adattarsi alle esigenze televisive, divenendo presenza frequente nei più noti salotti d’attualità politica.
Su tutti lo studio di Vespa, oramai divenuto esso stesso simulacro del potere. Ed è proprio attraverso i meccanismi mediatici che ha potuto affinare le tecniche di abbordaggio pubblico, dove le parole si frantumano in peso indifferenziato ma costante, ed i significati giungono sottoforma di percezione. Il ricordo di quanto si è fatto sfuma, perde d’importanza e lascia il posto ad un camaleontico personaggio privo della più elementare forma di coerenza.
Si compie così il miracolo. L’ideologo del condono edilizio permanente, l’autore di tre scudi fiscali, il sostenitore della privatizzazione delle coste per ragioni di cassa, l’importatore nostrano della finanza creativa anglo-americana, magicamente si trasforma nel paladino della costituzione repubblicana, arrivando a giudicarla "ancora valida", ma "non del tutto applicata". Secondo Tremonti, nella nascita della Costituzione c'era "il confronto fra le tre diverse culture chiave che animavano lo spirito di quel tempo: quella cattolica, quella comunista e quella liberale e la sintesi di queste diverse visioni sta nell'articolo sulla proprietà industriale. Quel passaggio - ha aggiunto il ministro - dove si dice che la Repubblica tutela, regola e disciplina il risparmio, identificando nell'industria del credito una realtà che favorisce l'accesso alla proprietà, all'azionariato popolare, ai grandi complessi produttivi del Paese, è fondamentale".
“Se la Costituzione diceva questo - ha continuato il ministro, senza il minimo accento autocritico - la sua applicazione e la legislazione hanno detto l'opposto. Si è organizzato per un decennio un sistema che in qualche modo ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli di debito. Giusto criterio per cui la grande proprietà industriale doveva essere in qualche modo controllata dal sistema bancario. Credo che un ritorno alla Costituzione - ha concluso - possa portare a concrete e non poche remote riflessioni".
Ovviamente non si è fatta aspettare la risposta dei sindacati. Luigi Angeletti, leader della Uil, ha chiosato l’intervento affermando: "Dalle cose che ha detto, è come se fosse un nostro iscritto”. Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, leader della Cisl: “Le parole di Tremonti sull'esigenza di avere posti di lavoro stabili sono sicuramente condivisibili. E' un obiettivo che inseguiamo anche noi”. Ne esce insomma un’immagine del ministro che da riciclatore di stato, agevolatore di evasori e fornitore di condoni ad ogni dove, si trasforma in sindacalista difensore dei lavoratori. Caustico, ma sempre meno di quanto occorrerebbe, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che alle affermazioni del ministro ha risposto seccamente: "Le farei commentare a Confindustria". Una nota di realismo in un paesaggio da favola.
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di Mario Braconi
Matthew Tannin e Ralph Cioffi, ex manager dell’hedge fund di Bear Stearns, sono stati arrestati il 18 giugno del 2008: resteranno ben impresse nell'immaginario collettivo, non solo americano, le foto che li ritraggono, nei loro eleganti completi, con le manette ai polsi tra gli agenti del FBI. Il caso Tannin - Cioffi è cosa diversa da quello della banca che controllava il Fondo, la Bear Stearns, appunto, il cui destino era scritto nel bilancio che presentò a fine 2007: attività per 395 miliardi di dollari contro un patrimonio netto di poco più di 1 miliardo, con ricorso alla leva finanziaria pari a 35,5 a uno. Una autentica follia, destinata ad esplodere in faccia algli "strateghi" della finanza che l'avevano permessa e anzi benedetta, non appena si fosse materializzata una stretta sulla liquidità con conseguente corsa allo smobilizzo.
Un disastro, per una banca piena di attività improvvisamente divenute illiquide, quando non carta straccia; ma anche una grande occasione per JP Morgan: grazie al generoso contributo della Federal Reserve - trenta miliardi di dollari prelevati dalle tasse dei contribuenti americani - si è aggiudicata a prezzo di saldo una delle case più antiche e prestigiose (?) della finanza USA (la Bear Stearns fu fondata nel 1923 e sopravvisse onorevolmente alla Grande Crisi).
Cioffi, gestore di fondi, e Tannin, avvocato con mansioni di COO (Chief Operating Officer) dello High-Grade Structured Credit Strategies Enhanced Leverage Master Fund, controllato dalla banca d'affari, non sono accusati di aver procurato il fallimento della controllante, quanto piuttosto di avere deliberatamente mentito agli investitori pur conoscendo la drammatica situazione di mercato e i rischi gravissimi cui erano sottoposti i loro clienti.
Il processo ai due è iniziato ieri, 13 ottobre 2009 a Brooklyn, New York, davanti ad una corte federale. Per quanto incredibile, il procedimento giudiziario a carico di Cioffi e Tannin è l’unico caso in cui i direttori delle banche fallite (o quasi) in conseguenza della crisi dei subprime subiscono un procedimento penale: entrambi sono accusati di associazione a delinquere, truffa su titoli mobiliari, e di un reato tipico dell'ordinamento americano che potremmo tradurre truffa elettronica (cioè, truffa perpetrata mediante comunicazioni effettuate per via telematica).
Se venissero riconosciuti colpevoli del reato più grave, truffa su titoli mobiliari, potrebbero finire in prigione per venti anni. A Cioffi viene inoltre contestato il reato di insider trading, per aver ritirato 2 milioni dei suoi risparmi personali da uno dei fondi che gestiva, utilizzando in modo improprio (cioè, prima dei suoi clienti) informazioni riservate. In teoria Cioffi e Tannin dovrebbero essere essere preoccupati, se si pensa che il caso è nelle mani dello US Attorney di Brooklyn, Benton Campbell, ex membro della Task Force del Dipartimento di Giustizia che si occupò della Enron, il cui compito, chiosa l’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg, è quello di organizzare processi contro i responsabili della crisi dei subprime e di portare a casa condanne "visibili": “gli imputati non sono chiamati in responsabilità per il collasso della Bear Stearns” ha dichiarato Campbell; “essi però avevano dei doveri nei confronti dei loro investitori, e hanno violato la loro fiducia: di questo oggi dovranno rispondere”.
Tutto vero, come negarlo? Eppure l’entusiasmo di Benton suona un po’ stridente, anche se è innegabile che funzioni bene dal punto di vista politico-sociale, fornendo un apparente e superficiale ristoro alla diffusa sete di giustizia made in USA conseguente alle scottature provocate da un modello del tutto illogico, anche se molto profittevole per privati, banche ed aziende. Anche perché se il crack della finanza di carta dietro agli eccessi del subprime ha provocato al sistema quasi 400 miliardi di dollari di perdite, ad oggi si sono individuati solo due presunti criminali, Cioffi e Tannin, appunto, i quali sono sotto scrutinio per danni di “soli” 1,4 miliardi. Domandarsi se i due non siano capri espiatori da esporre alla pubblica esecrazione come simbolo dei mali di un sistema di cui erano solo un ingranaggio, a questo punto, non pare un esercizio di garantismo peloso.
Sia come sia, da un punto di vista strettamente tecnico, la giustizia americana sembra dotata di pugno di ferro solo per i politici. Infatti, per riuscire a provare l’associazione a delinquere, il Governo deve dimostrare un accordo tra due o più persone; che, insomma, vi sia stata "un’intenzione collettiva di violare la legge”, come sostiene l’avvocato O’Callaghan dello studio Nixon Peadoby; “di solito in questi casi il governo si basa su testimoni o, meglio, sulle deposizioni di un corresponsabile poi ‘pentitosi’ o di qualcuno che conosceva direttamente i particolari degli schemi criminali.”
Il riferimento è al caso Eric Butler, un trader di Credi Suisse NY che ha venduto alle aziende sue clienti 1 miliardo di dollari di titoli, sostenendo in modo fraudolento che essi erano strutturati sulla base di prestiti agli studenti garantiti dal Governo Federale: Julian Tzolov, compare di Butler, ha riconosciuto le sue responsabilità patteggiando la condanna, ed accusando il suo complice, fornendo alla giustizia americana gli elementi per inchiodarlo. Nel caso di Cioffi e Tannin, manca uno "Tzolov", e quindi viene meno uno strumento essenziale per comprendere le motivazioni alla base della condotta degli accusati. E quindi provare la loro colpevolezza giuridica può risultare quasi impossibile.
Sembra proprio che, a dispetto delle 532 evidenze esibite e dei 38 testimoni, il governo, per ottenere una condanna per i due manager del fondo di Bear Stearns, dovrà basarsi sostanzialmente su citazioni delle loro parole, scritte nelle email o registrate dagli investitori nel corso delle conference call di aggiornamento. La pubblica accusa è entrata in possesso anche di tutte le e-mail di un account Gmail a nome di Tannin (successivamente da lui cancellato), nel quale il dirigente riversava i suoi più intimi pensieri: un quadro a luci ed ombre, che raffigura un uomo soddisfatto di guadagnare quasi 2 milioni di dollari l’anno, ma anche devastato dall’ansia, praticamente dipendente da farmaci anti-stress e antidepressivi, e sull’orlo di una crisi religiosa (!). Lo stesso che ammetteva di avere una gran paura che “il fondo non venga gestito nel modo in cui avrei desiderato” e che ciò esponesse gli investitori a “rischi esplosivi”.
Anche se Tannin viene immortalato a dire frasi che comprovano in modo inequivocabile la sua corretta percezione della crisi (“il mercato dei CDO è bollito”, “il mercato dei sub-prime fa veramente schifo”, "se le analisi hanno un minimo di verità, dovremmo chiudere il fondo ora”) uno dei suoi avvocati spiegherà che “si trattava degli stessi discorsi che si facevano dappertutto, dalla Casa Bianca al tinello di casa, per capire dove la crisi sarebbe andata a parare. Quando sono lette nella loro completezza, le frasi hanno un significato diverso da quello che mostrano quando vengono estrapolate per rimpinguare gli atti di accusa”. Insomma, non solo Cioffi e Tannin sono i soli due manager ad affrontare un processo penale a seguito della crisi subprime, ma c'è da scommettere che, pur avendo truffato i loro clienti, se la caveranno con poco.
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di Mariavittoria Orsolato
Dallo scoppio della crisi americana del credito, si discute sempre più sul ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, un elemento che per decenni ha aiutato gli Stati Uniti a indebitarsi a buon mercato. Pechino, Mosca e altri governi dei mercati emergenti si sono lamentati con i vertici internazionali per l’eccesivo peso economico di Washington, essendo decisamente contrariati per come l’onda d’urto del crollo delle banche americane sia andata ben oltre i confini del Pacifico.
C’è, infatti, una voce che da un po’ di tempo gira insistente tra i colletti bianchi delle agenzie economiche mondiali. Il protagonista del rumor finanziario è proprio l’arcinoto biglietto verde, quel dollaro che tanti guai ha causato all’economia mondiale e che ora, proprio per le conseguenze nefaste della sua crisi, si pensa di esautorare dal ruolo di principe delle transazioni petrolifere entro il 2018.
Pare che i paesi arabi del Golfo Persico, assieme a Russia, Cina, Giappone e Francia, abbiano cominciato ad attivarsi per creare un’alternativa monetaria nei pagamenti di greggio: la moneta statunitense dovrebbe lasciare il passo ad un paniere misto di valute, tra cui lo yuan cinese, lo yen giapponese, l’euro, il sempreverde oro e una nuova coniazione ideata per i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo – tra cui spiccano Arabia Saudita, Abu Dhabi, Qatar e Kuwait. Secondo Robert Fisk, che per primo ha ventilato quest’ipotesi sull’inglese The Indipendent, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali di Cina, Giappone, Russia e Brasile si sono già incontrati, lontano dalle luci dei riflettori, per discutere assieme le linee guida del progetto.
Se così fosse, questa manovra rappresenterebbe il più epocale sconvolgimento finanziario nell’area del Medio Oriente. Ma forse l’uso del condizionale è più che altro una formalità: a detta di fonti informate sugli ambienti bancari arabi e cinesi di Hong Kong, questo imprevisto cambio di rotta da parte delle nuove potenze economiche potrebbe aiutare a spiegare il repentino aumento del prezzo dell’oro.
Se si vanno a guardare le quotazioni del re dei metalli preziosi, si noterà, infatti, che in un solo anno il prezzo all’oncia (circa 29 grammi)è passato da 693 a 1044 dollari, con un aumento record di 350 dollari. A questo si aggiunge poi la corsa in discesa della moneta statunitense: le quotazioni del dollaro sono sprofondate sotto la soglia dei 70 centesimi di euro contro gli 80 dell’ottobre 2008, registrando una flessione del 15%.
C’è però da scommettere sul fatto che gli Stati Uniti non si arrenderanno così facilmente alla pressioni delle nuove economie capitaliste, in cui sono tra l’altro coinvolti storici alleati della democrazia a stelle e strisce, come il Giappone e l’Arabia Saudita. Gli analisti di borsa cominciano a vedere questa inedita contrapposizione est-ovest, come una miccia che potrebbe far implodere i buoni propositi diplomatici di Cina e Usa nella regione mediorientale, mandando all’aria i delicati limiti d’influenza su questioni come l’avvicendamento politico e lo sfruttamento del petrolio.
Nel caso in cui le previsioni dei guru economici londinesi fossero futuribili, la prospettiva ritrarrebbe una guerra economica tra le due superpotenze per il controllo del petrolio arabo, con il pericolo di trasformare le già acute crisi mediorientali in un campo di battaglia in cui si decideranno i destini della nuova supremazia globale.
Il lento declino dell’egemonia dello zio Sam, legato a doppio filo alla crisi mondiale nata dalla spregiudicatezza della finanza a stelle e strisce, è stato riconosciuto pienamente anche dal presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, che di recente ha candidamente ammesso: "Uno dei risultati della crisi potrebbe essere la consapevolezza del fatto che i rapporti di forza in ambito economico sono ormai cambiati". Ma forse la vera spina nel fianco dell’economia americana ha un altro volto.
L’eccezionale crescita economica cinese e il rancore dei produttori e consumatori di petrolio per la pesante ingerenza del governo statunitense nel sistema finanziario internazionale, potrebbero essere due delle principali motivazioni per i recenti colloqui con i paesi del Golfo. Fin dagli accordi di Bretton Woods, nel 1944, i partner commerciali degli States sono stati costretti a misurarsi con l’ingombrante presenza di Washington e, soprattutto, con la supremazia di fatto del dollaro come valuta di riserva globale; non a caso, la stessa Cina conta gran parte della sua ricchezza nazionale in dollari.
A fine settembre l’Iran di Ahmadinejead è stato il primo paese ad annunciare di voler mutare le sue riserve di moneta estera in euro, abbandonando definitivamente il dollaro. Tuttavia, secondo alcuni analisti, ci vorranno molti anni prima che il biglietto verde venga sostituito de facto. "Per il declino della sterlina ci sono voluti cinquant’anni - spiega Gabriel Stein del centro studi Lombard Street Research - Il declino del dollaro è probabilmente iniziato quando Nixon decise di rompere il legame con l’oro, perciò rimangono almeno altri vent’anni". E’ proprio il caso di dirlo: chi vivrà, vedrà.