di Mariavittoria Orsolato

Dallo scoppio della crisi americana del credito, si discute sempre più sul ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, un elemento che per decenni ha aiutato gli Stati Uniti a indebitarsi a buon mercato. Pechino, Mosca e altri governi dei mercati emergenti si sono lamentati con i vertici internazionali per l’eccesivo peso economico di Washington, essendo decisamente contrariati per come l’onda d’urto del crollo delle banche americane sia andata ben oltre i confini del Pacifico.

C’è, infatti, una voce che da un po’ di tempo gira insistente tra i colletti bianchi delle agenzie economiche mondiali. Il protagonista del rumor finanziario è proprio l’arcinoto biglietto verde, quel dollaro che tanti guai ha causato all’economia mondiale e che ora, proprio per le conseguenze nefaste della sua crisi, si pensa di esautorare dal ruolo di principe delle transazioni petrolifere entro il 2018.

Pare che i paesi arabi del Golfo Persico, assieme a Russia, Cina, Giappone e Francia, abbiano cominciato ad attivarsi per creare un’alternativa monetaria nei pagamenti di greggio: la moneta statunitense dovrebbe lasciare il passo ad un paniere misto di valute, tra cui lo yuan cinese, lo yen giapponese, l’euro, il sempreverde oro e una nuova coniazione ideata per i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo – tra cui spiccano Arabia Saudita, Abu Dhabi, Qatar e Kuwait. Secondo Robert Fisk, che per primo ha ventilato quest’ipotesi sull’inglese The Indipendent, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali di Cina, Giappone, Russia e Brasile si sono già incontrati, lontano dalle luci dei riflettori, per discutere assieme le linee guida del progetto.

Se così fosse, questa manovra rappresenterebbe il più epocale sconvolgimento finanziario nell’area del Medio Oriente. Ma forse l’uso del condizionale è più che altro una formalità: a detta di fonti informate sugli ambienti bancari arabi e cinesi di Hong Kong, questo imprevisto cambio di rotta da parte delle nuove potenze economiche potrebbe aiutare a spiegare il repentino aumento del prezzo dell’oro.

Se si vanno a guardare le quotazioni del re dei metalli preziosi, si noterà, infatti, che in un solo anno il prezzo all’oncia (circa 29 grammi)è passato da 693 a 1044 dollari, con un aumento record di 350 dollari. A questo si aggiunge poi la corsa in discesa della moneta statunitense: le quotazioni del dollaro sono sprofondate sotto la soglia dei 70 centesimi di euro contro gli 80 dell’ottobre 2008, registrando una flessione del 15%.

C’è però da scommettere sul fatto che gli Stati Uniti non si arrenderanno così facilmente alla pressioni delle nuove economie capitaliste, in cui sono tra l’altro coinvolti storici alleati della democrazia a stelle e strisce, come il Giappone e l’Arabia Saudita. Gli analisti di borsa cominciano a vedere questa inedita contrapposizione est-ovest, come una miccia che potrebbe far implodere i buoni propositi diplomatici di Cina e Usa nella regione mediorientale, mandando all’aria i delicati limiti d’influenza su questioni come l’avvicendamento politico e lo sfruttamento del petrolio.

Nel caso in cui le previsioni dei guru economici londinesi fossero futuribili, la prospettiva ritrarrebbe una guerra economica tra le due superpotenze per il controllo del petrolio arabo, con il pericolo di trasformare le già acute crisi mediorientali in un campo di battaglia in cui si decideranno i destini della nuova supremazia globale.

Il lento declino dell’egemonia dello zio Sam, legato a doppio filo alla crisi mondiale nata dalla spregiudicatezza della finanza a stelle e strisce, è stato riconosciuto pienamente anche dal presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, che di recente ha candidamente ammesso: "Uno dei risultati della crisi potrebbe essere la consapevolezza del fatto che i rapporti di forza in ambito economico sono ormai cambiati". Ma forse la vera spina nel fianco dell’economia americana ha un altro volto.

L’eccezionale crescita economica cinese e il rancore dei produttori e consumatori di petrolio per la pesante ingerenza del governo statunitense nel sistema finanziario internazionale, potrebbero essere due delle principali motivazioni per i recenti colloqui con i paesi del Golfo. Fin dagli accordi di Bretton Woods, nel 1944, i partner commerciali degli States sono stati costretti a misurarsi con l’ingombrante presenza di Washington e, soprattutto, con la supremazia di fatto del dollaro come valuta di riserva globale; non a caso, la stessa Cina conta gran parte della sua ricchezza nazionale in dollari.

A fine settembre l’Iran di Ahmadinejead è stato il primo paese ad annunciare di voler mutare le sue riserve di moneta estera in euro, abbandonando definitivamente il dollaro. Tuttavia, secondo alcuni analisti, ci vorranno molti anni prima che il biglietto verde venga sostituito de facto. "Per il declino della sterlina ci sono voluti cinquant’anni - spiega Gabriel Stein del centro studi Lombard Street Research - Il declino del dollaro è probabilmente iniziato quando Nixon decise di rompere il legame con l’oro, perciò rimangono almeno altri vent’anni". E’ proprio il caso di dirlo: chi vivrà, vedrà.

di Michele Paris

Nonostante la variazione dei toni, il Fondo Monetario Internazionale non sembra aver cambiato di molto la propria politica nei confronti del sempre maggior numero di paesi in affanno, costretti a chiedere prestiti per fronteggiare le conseguenze dell’emergenza economica in atto. Come ha messo in evidenza un recente rapporto di alcune ONG europee ed americane, l’organo uscito dagli accordi di Bretton Woods continua infatti a produrre effetti negativi in termini di protezione sociale e livelli di povertà in quegli stessi paesi che dovrebbe piuttosto aiutare ad uscire dalla crisi, stimolando una crescita sostenibile di lungo periodo.

Le reti di organizzazioni non governative SOLIDAR, Eurodad e Global Network hanno condotto uno studio prendendo in considerazione i danni causati a tre paesi campione - El Salvador, Etiopia e Lettonia - dalle condizioni imposte qualche mese fa dal FMI per elargire ad essi prestiti di emergenza. La pubblicazione del rapporto è giunta in concomitanza con il meeting annuale tenuto a Istanbul dal FMI e dalla Banca Mondiale e si concentra, appunto, sugli effetti dei tagli alla spesa pubblica e della politica fiscale restrittiva determinati dagli interventi di questi organismi internazionali.

Il presunto nuovo corso del FMI, inaugurato lo scorso mese di marzo con l’introduzione di una nuova Linea di Credito Flessibile, consentirebbe in realtà margini appena più ampi per una politica espansiva, anche se ciò sta riguardando paesi che vantano un reddito interno medio, come la Colombia, il Messico o la Polonia. Decisamente diversa è, al contrario, la situazione dei rapporti con i paesi più poveri destinatari di prestiti, gravati tuttora da imposizioni che in molti casi hanno finito con il peggiorare una situazione economica già molto precaria.

L’attenzione delle ONG autrici del rapporto si è rivolta principalmente all’analisi della misura in cui i programmi d’intervento del FMI nell’ambito della crisi planetaria hanno previsto misure  per incoraggiare una crescita equa ed autonoma dei paesi interessati, ma anche l’espansione della spesa per le protezioni sociali e l’implementazione dei principi della cosiddetta “Decent Work Agenda”, fissata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

Malgrado un qualche allentamento dei tradizionali obiettivi di rigore fiscale del FMI siano stati riscontrati negli ultimi tempi, la concessione ai paesi interessati di margini di deficit di bilancio leggermente superiori rispetto al passato - almeno temporaneamente - non ha comunque permesso l’adozione di provvedimenti efficaci a lungo termine. In tutti e tre i paesi oggetto dello studio, l’agenda dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, volta a garantire il diritto all’assistenza sanitaria e la sicurezza di un posto di lavoro, è stata totalmente ignorata o comunque quasi mai al centro dell’interesse dei governi.

Quanto alla spesa pubblica, seppure in certi casi sia aumentata proprio dietro incoraggiamento del Fondo, ha finito per essere pressoché vanificata dai tagli al bilancio, che hanno impedito l’espansione delle protezioni sociali e l’approvazione di piani anti-crisi adeguati. Nel caso dell’Etiopia, la spesa sociale è risultata invariata dopo il prestito del FMI, mentre per quanto riguarda la Lettonia è stata invece drasticamente tagliata. Per entrambi i paesi, d’altra parte, la scadenza per riportare i loro deficit ai livelli precedenti la crisi è stata fissata già entro il 2011.

L’impegno richiesto dal Fondo appare sempre e principalmente quello di assicurare bilanci equilibrati sul piano macroeconomico e di creare riserve monetarie adeguate, così da irrobustire la condizione economica di questi paesi in caso di crisi future. L’attuazione di politiche economiche più flessibili, combinate con interventi specifici che prevedano investimenti nel sociale, facilitazione nell’accesso al credito per le piccole e le medie imprese e una tassazione progressiva, appare invece completamente esclusa.

Una delle ragioni dell’inflessibilità del FMI, secondo il rapporto, è la mancanza di coinvolgimento dei parlamenti, delle associazioni sindacali e in generale della società civile nelle negoziazioni dei prestiti da erogare ai vari paesi. La carenza di una visione a lungo termine di Ministri delle Finanze, interessati solo al pareggio di bilancio nell’immediato, fanno poi il resto. Il Fondo d’altronde lavora esclusivamente su un obiettivo di bilancio prefissato, senza curarsi di quali tagli i singoli governi vadano ad operare.

Alle critiche delle ONG si sono aggiunte poi quelle di un think tank di Washington, il Center for Economic and Policy Research, il quale ha fatto notare come 31 dei 42 prestiti erogati dal FMI durante la crisi, abbiano prodotto risultati dannosi per i paesi beneficiari. Le misure di austerità che vengono richieste in cambio del denaro concesso rappresenterebbero un clamoroso errore nella formulazione delle proprie politiche da parte del Fondo, tuttora immerso in una ortodossia economica che aveva già evidenziato tutti i suoi effetti negativi oltre un decennio fa con la crisi dei paesi asiatici.

La discrepanza nell’approccio verso i paesi ricchi e quelli più poveri è evidente. Mentre da un lato s’incoraggia la spesa pubblica, l’allargamento del deficit e le misure di stimolo all’economia, dall’altra si predica l’esatto contrario, con tagli alla uscite e aumento dei tassi di interesse. Con conseguenze spesso devastanti sul fronte dell’assistenza sanitaria pubblica, dell’educazione e dell’accesso al credito per le aziende. In piena recessione, così, i paesi già in difficoltà sono costretti a moltiplicare i loro sforzi per rispettare le condizioni dei prestiti internazionali.

In molti casi inoltre, il FMI ha fallito del tutto le proprie previsioni sull’andamento della situazione economica dei paesi finanziati, nonostante i segnali dell’esplosione della crisi fossero già evidenti ben prima del 2007. Negli ultimi mesi il Fondo ha così dovuto rivedere le clausole dei prestiti concessi a 26 paesi, per undici dei quali aveva sopravvalutato la crescita del PIL di ben tre punti percentuali. Per tre paesi, addirittura, la sovrastima del prodotto interno lordo era stata addirittura di sette punti percentuali. Una posizione difficilmente giustificabile per un organismo internazionale che dispone di uno dei centri di ricerca teoricamente più qualificati del pianeta.

Composto da 186 membri, con quote di voto diverse a seconda del peso di ogni paese (16,79% per gli USA, 32,07% per i 27 membri dell’UE), il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere oggetto in questo periodo di importanti trasformazioni. Ad esempio, nel corso del recente G20 di Pittsburgh è stato annunciato che al FMI sarebbe stato assegnato il ruolo precedentemente riservato al gruppo del G8, cioè quello di principale protagonista della pianificazione e del finanziamento delle iniziative economiche in tutto il pianeta. I leader dei paesi più ricchi hanno poi promesso nuovi fondi per un totale di 750 miliardi di dollari, destinati all’assistenza dei paesi più poveri e maggiormente colpiti dalla crisi.

Nonostante i proclami, quasi nessun cambiamento si è visto però finora nella gestione delle attività del Fondo, che rimane ancora ben lontano da quel ruolo prospettato per esso dal Segretario al Tesoro americano, Tim Geithner, proprio nel corso del recentissimo meeting di Istanbul: “Una rinnovata attenzione al multilateralismo nella distribuzione dell’assistenza per lo sviluppo, così da garantire sufficienti risorse e consentire adeguate politiche economiche per venire incontro ai bisogni dello sviluppo di lungo termine di ogni singolo paese”.

di Luca Mazzucato

New York. La crisi finanziaria globale colpisce l’ultimo santuario del mercato: le Isole Cayman, rese celebri da Tom Cruise nel film “Il socio.” La settimana scorsa il governo della minuscola isola dei Caraibi ha preso la sofferta decisione di aumentare le tasse, piegando il capo sotto le forti pressioni del governo britannico. Le Isole Cayman ospitano 57.000 abitanti in carne ed ossa e 9253 “hedge funds,” i celebri fondi d’investimento che hanno avuto un ruolo di primo piano nel crollo di Wall Street nel settembre dello scorso anno. Secondo Barack Obama, la Camera di Commercio della capitale, dove sono registrate 19000 aziende, è “la più grossa truffa fiscale che si conosca.” Il particolare che rende attraente quest’isoletta alle porte di Cuba è, infatti, la totale assenza di tasse.

Proprio così: per avviare il vostro fondo d’investimento alle Cayman, dovete pagare tremila dollari una tantum per l’iscrizione al registro imprese. Una volta fatto questo, non ci sarà più alcun laccio o lacciuolo ad intralciare la vostra creatività imprenditoriale. Il giro d’affari delle attività finanziarie si aggira sul trilione e mezzo di dollari, una volta e mezza il PIL italiano: tutto assolutamente, rigorosamente, incredibilmente esentasse.
Alle Isole Cayman non esiste alcuna tassa sui redditi delle persone o sui profitti delle aziende.

Il paese deve le sue entrate principalmente al turismo e alla dogana, che preleva una tassa sull'import-export di merci (ma non di denaro). Fino ad ora, questa geniale intuizione fiscale ha reso un ottimo servizio agli abitanti delle Cayman, che possono vantare il reddito pro-capite di gran lunga più elevato dei Caraibi e il dodicesimo al mondo. Ma la crisi finanziaria dello scorso anno ha messo in ginocchio il paradiso fiscale. Una combinazione di minori introiti e spese eccezionali per la costruzione di nuove scuole, ha creato una voragine nel bilancio statale pari a seicento milioni di dollari, in rapida crescita.

Le Isole fanno parte del Commonwealth britannico e il Governatore, nominato da Sua Maestà la regina d'Inghilterra, detiene il potere assoluto sulla piccola nazione. Per graziosa concessione della regina, il Governatore lascia la gestione degli affari interni al capo del governo, eletto democraticamente. Ma questa volta il governo inglese è entrato a gamba tesa nella gestione dell'isola, promettendo duecentottanta milioni di dollari in prestito, a una condizione: che le Cayman comincino ad imporre una qualche forma di tassazione.

Alcune delle rivoluzionarie misure approvate dal Parlamento delle Cayman sono: l'innalzamento della tassa d'iscrizione per i fondi d'investimento multi-miliardari, che passa dai ridicoli tremila agli altrettanto ridicoli sessantamila dollari; svariati aumenti delle tasse legate al turismo, al commercio e ai permessi di lavoro; ma soprattutto, una tassa del due percento su tutte le transazioni monetarie, che potremmo definire una sorta di Tobin Tax.

Intervistato dal New York Times, il Presidente W. Bush (omonimo dell'omologo ex-presidente americano!) ha voluto subito rassicurare gli investitori internazionali: “Non abbiamo concordato nessuna tassa diretta sui redditi.” In sostanza, le Cayman si guardano bene dallo scalfire seriamente la reputazione di paradiso fiscale. “Cinquant''anni fa - prosegue W. Bush - non c'erano macchine, non c'era elettricità. Non torneremo a vivere sotto all'albero delle noci di cocco.” La ferma opposizione degli uomini d'affari ad un reale cambiamento di rotta non lascia altra scelta al governo. Piuttosto che introdurre tasse sui redditi, le Cayman falceranno i servizi offerti ai cittadini, a partire dall'eccellente e (finora) gratuito sistema scolastico.

I finanzieri dunque non intendono pagare un centesimo, nemmeno come forma di riconoscenza verso un'isola che permette loro guadagni stellari. L'unico a chiedere un piccolo sforzo alle grandi banche è Desmond Seales, editore del Cayman Net News, giornale d'opposizione. Alla domanda se non sia preoccupato che le tasse facciano scappare via i ricchi, Seales risponde laconico: “E dove diavolo andrebbero?”

di Liliana Adamo

Sono precari i tecnici ambientali e gli scienziati impiegati nella task force sulla “nave dei veleni”, affondata al largo delle coste calabresi. Tre su sei sono a rischio licenziamento, con scadenza di contratto a breve. Tra loro, un esperto di ricerche nucleari, due dirigenti del settore “Emergenze in mare” appartenenti a ex Apat e Icram; in altre parole, a istituti di ricerca smembrati e accorpati all’Ispra, che hanno subìto negli ultimi mesi, la mannaia dei tagli sul personale, riducendosi a un solo ricercatore (uno), a tempo indeterminato.

Con una legge in vigore dal 2008, nell’intento di “snellire” gli apparati statali di ricerca, l’Ispra diventa il nuovo centro istituzionale per la protezione dell’ambiente, ma può contare, al momento, su risorse finanziarie, strumentali e di organico a dir poco irrisorie. Per i lavoratori occupati, la situazione è drammatica: il 30 giugno scorso, duecento dipendenti sono stati estromessi per il mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato e altri duecentotrenta ne saranno esclusi. Sono tutti esperti e studiosi, si occupano di cambiamenti climatici, della salvaguardia del nostro mare, della fauna selvatica, delle emissioni in atmosfera, dei rifiuti. Realtà oggettive che, evidentemente, attraggono poco il nostro governo e il Ministero dell’Ambiente; ma le ricadute si avranno a discapito dei cittadini, in argomenti come tutela della salute, difesa dei beni paesaggistici e naturalistici del nostro territorio.

Sono precari i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, INFN. Per tenerci informati delle lotte e delle iniziative, esprimere il loro disagio e la loro frustrazione, hanno predisposto un loro sito on line, “Il Buco Nero” e mai titolo appare più conforme alla condizione della ricerca in questo paese. Protagonisti di una singolare protesta nella “Notte dei ricercatori precari”, tenuta il 25 settembre scorso, sono ricercatori e docenti del Politecnico di Torino: lo stesso che, in una controversa classifica stilata dal governo, si ritiene tra i “più virtuosi d’Italia”. Ci si chiede, a fronte dei pesanti tagli ministeriali, con quali mezzi si finanzieranno offerte didattiche e produzioni scientifiche.

Sono precari e atipici i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste; precari, i ricercatori d’astrofisica dell’ISFOL, per la direzione generale del CNR. E sempre precari sono quelli del piccolo, coraggioso Osservatorio di Grottaminarda, in Irpinia, tutt’oggi operativo nonostante le ristrettezze in cui versa, grazie all’impegno e al sacrificio di ventidue giovani campani. Tutti, tranne tre, sono stati specializzati da altri precari, subentrati prima di loro e, in seguito all’emendamento del governo, non vedranno stabilizzato il loro lavoro, in pratica, saranno sbattuti fuori.

Riflettiamo su un dato non trascurabile: nel corso del 2007, sulle più importanti riviste internazionali, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia - INGV - ha pubblicato ben 490 saggi e trattatistiche d’alto valore scientifico, inerenti allo studio e alla messa in sicurezza di un territorio come il nostro, ad alto rischio sismico: il 70% di quella produzione proviene dal lavoro di quei ricercatori co co pro, con contratti a termine e bonus.

Ma il fatto più sorprendente si concentra proprio su una sezione strategica dell’INGV, l’Osservatorio Vesuviano. In rete esiste un’eccellente simulazione in 3D che riproduce gli effetti ipotizzabili di una prossima eruzione. Un lavoro rilevante, esplicativo, didattico e facilmente comprensibile anche a non esperti; ebbene, questo è solo un piccolo apporto dei lavoratori precari all’informazione generale sul rischio e la prevenzione. E immaginiamo per ciò che concerne il monitoraggio costante dei vulcani attivi, il Vesuvio, Stromboli, i Campi Flegrei, che possono generare eventi rapidi e pericolosi, investendo d’interesse cruciale le aree a maggior rischio, coinvolgendo, nel solo compartimento vesuviano, quasi un milione di residenti.

Le attività di questi precari comportano la realizzazione e il mantenimento in piena efficienza di una complessa rete strumentale, assicurano una presenza ininterrotta, con capacità tecnico-scientifiche, per organizzarsi e operare subito, in caso di circostanze particolari e anomale. Malgrado ciò, mentre gli organici dell’Osservatorio Vesuviano sono fermi al ’99, ben cinquecento di questi giovani scienziati rischiano, come gli altri, d’essere estromessi dal loro incarico, per un disciplinamento perverso del precariato adottato nella Finanziaria dello scorso anno, che non solo vieta, di fatto, l’assorbimento graduale e preclude agli enti pubblici il rinnovo del contratto a tempo determinato, ma rifiuta a priori qualsiasi possibilità d’accedere al proprio posto di lavoro, mediante concorsi pubblici. Questi sono i tagli agli sprechi messi in atto con tanta determinazione, dal governo.

Per quanto riguarda le dispute, fattive o teoriche, sugli emendamenti legislativi per eliminare “il precariato” e le sue conseguenze, che si avviino con il governo di sinistra a firma di Prodi o che confluiscano nel retaggio dispotico del governo Berlusconi, a garantire una nuova era d’efficienza ed economicità nell’apparato statale, se ne può sempre controvertere, nero su bianco. Ma quel che resta evidente è il disastro totale, risultato delle nuove leggi sul lavoro, con le loro direttive antidemocratiche e le loro visioni ultraliberiste, che si prestano, secondo i casi, ad aggiustamenti, accomodamenti e storpiature, per opportunismo o per ottenere consenso, pur restando insensate e intoccabili nei limiti che conosciamo e che spingono al fallimento, una società intera.

 

di Alessandro Iacuelli

"In Italia i numeri del PIL, della ricchezza del nostro Paese e delle entrate dello Stato, tutti i numeri dell'economia, sono falsati dall'enorme dimensione dell'attività sommersa e mafiosa". L’affermazione non è di una qualunque organizzazione antimafia presente sul territorio, ma viene direttamente da Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, intervenuta alla presentazione del libro Mafia pulita di Elio Veltri e Antonio Laudati. Nell'occasione, Marcegaglia ha sottolineato che "la guerra culturale contro ogni forma di mafia è un elemento essenziale prima di tutto per lo sviluppo sociale e civile. Se non riusciamo a coinvolgere una quota forte della popolazione non riusciremo a vincere la battaglia".

La lunga sequenza di belle parole non è certo finita qui; il massimo dirigente di Confindustria ha ricordato di aver posto un anno e mezzo fa, "come uno degli obiettivi della presidenza, il rispetto delle regole e la legalità". La presidente di Confindustria ha parlato di un giro d'affari della mafia nel mondo "di 1.000 miliardi di dollari". In Italia "il giro d'affari va da 175 miliardi di Euro, se si considerano le attività strettamente mafiose, fino a 400 miliardi di euro se si mettono assieme anche le attività sommerse". La mafia "è un cancro che avvelena la vita civile del nostro Paese e non solo, visto che grazie alla sue ramificazioni continua a crescere ed é davvero un fenomeno globale" che vale "mille miliardi di dollari". Ma in Italia la situazione "é particolarmente grave".

La Marcegaglia, seduta accanto al presidente della Camera Gianfranco Fini, che è intervenuto subito dopo di lei, ha concluso il suo intervento proponendo "un patto nazionale tra le varie forze politiche, la magistratura e le forze dell'ordine" per affrontare radicalmente il problema nell'ambito di una vera e propria "guerra culturale". La numero uno degli industriali si è rivolta anche ai cittadini, auspicando "una grande mobilitazione dal basso". E augurandosi che i cittadini comprendano che "una situazione come questa condanna tutti".

L’imprenditrice ha avvertito che i mafiosi "sono moderni e usano internet e le tecnologie più sofisticate per gestire le proprie operazioni illecite". Per combatterli, Confindustria ha deciso di voltare pagina rispetto ai "pur giusti appelli" e mobilitarsi "in prima persona", conducendo una "vera battaglia per una società e un'economia migliori".

In cosa consiste questo voltare pagina? A dire il vero non molto, oltre i soliti patti che a nulla servono se non seguono i fatti. In realtà Confindustria è rimasta sulle posizioni assunte esattamente due anni fa, quando nel settembre 2007 da viale dell'Astronomia partì lo slogan "fuori da Confindustria gli imprenditori che pagano il pizzo". Scelta sbagliata a priori. La proposta di espellere chi versa il pizzo alla mafia o alle altre organizzazioni criminali non può essere un sistema per risolvere il problema. Anzi Confindustria, essendo prima di tutto un'organizzazione di categoria, dovrebbe stare vicino all'associato che subisce un'estorsione.

Il risultato è che chi ammette di avere paura delle mafie e di pagare, vittima di estorsioni, viene espulso dalle associazioni di imprenditori, viene lasciato solo, viene ulteriormente isolato. Di conseguenza, chi paga deve anche pagare più in silenzio di prima. Non è certo di questo che c'è bisogno in Italia. Piuttosto che espellere le vittime delle mafie, sarebbe stato più opportuno espellere quegli imprenditori che con la mafia fanno affari, in tutta Italia trattandosi oramai di un fenomeno nazionale, e magari anche quelli che alla mafia devono le loro fortune.

Ovviamente di questo non se ne parla proprio. E molti di quei 400 miliardi di Euro di budget delle mafie continuano a transitare - e ad arricchire - imprenditori ed industriali che di onesto fanno solo la facciata, magari anche iscritti a Confindustria. Come non ricordare le parole dei Gian Carlo Caselli, oggi procuratore a Torino, raccontate in un'intervista all'Espresso lo scorso aprile: "La criminalità mafiosa che si fa impresa economica è il problema dei problemi. C'è il boss che fa direttamente impresa, anche usando prestanome. Quello che mette capitale in attività con altri soggetti, più o meno consapevoli. E c'è il mafioso che spolpa un'azienda già attiva e, quando l'ha svuotata, s'impadronisce del guscio e la gestisce in prima persona. Oppure continuando a lasciar apparire il vecchio titolare. In tempi di crisi e debiti crescenti, ovviamente aumentano gli spazi per spolpare e impadronirsi delle aziende".

Secondo Caselli, infatti, "con l'attuale sete di liquidità, é chiaro che questa massa di denaro, di provenienza mafiosa, garantisce vantaggi imponenti: l'imprenditore disonesto possiede capitali a costo zero, senza garanzie e senza debiti con le banche. L'azienda criminale, inoltre, non ha bisogno di produrre guadagni immediati: può puntare a conquistare nuove fette di mercato, con prezzi e condizioni che spiazzano ed espellono la concorrenza. E ancora, l'imprenditore mafioso non ha nessuna preoccupazione per i diritti dei lavoratori o per l'ambiente. Sa bene come ottenere le migliori condizioni da fornitori e dipendenti e, se ha problemi, può risolverli con la minaccia, la corruzione o la violenza". Il problema è ormai diffuso in tutto il Paese, e non solo nelle regioni del Sud a tradizionale presenza mafiosa. Già Falcone spiegava che la mafia uccide a Palermo, ma investe a Milano. Più l'investimento è lontano dall'attività illecita, più è facile passare inosservati e farla franca.

Ma tutto questo non è stato toccato neanche tangenzialmente dalla signora Marcegaglia. Confindustria continua ad accusare il Paese di essere vittima delle mafie e chiede una risposta da parte dei cittadini, quando in realtà la prima risposta alle mafie, che può solo essere il frenarle economicamente, può solo venire da chi l'economia la fa, cioè dall'industria stessa, e dalla sua organizzazione di categoria. Ma, ancora una volta, sono le parole di Caselli a dare il giusto valore a quelle della presidente di Confindustria: "C'è anche chi non vede o fa finta di non vedere. È il vecchio discorso: pecunia non olet, il denaro non ha odore. Forse ha ragione uno studioso come Salvatore Lupo: ormai c'è una richiesta di mafia anche al Nord".

 


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