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di Ilvio Pannullo
È proprio il caso di dirlo: tutto scorre, tutto cambia nel Belpaese. Basta attendere il tempo necessario - spesso neanche troppo - per assistere ai cambiamenti più impensabili, cambi di strategia che generalmente maturano nel tempo, ma che in Italia si materializzano in pochi istanti. L’ultimo in ordine di tempo arriva da quel genio di coerenza politica che è Giulio Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze. D’un colpo, come un fulmine a ciel sereno, il Robin Hood dei ricchi stordisce quanti erano presenti al convegno, promosso dalla Bpm, sulla partecipazione dei lavoratori all'azionariato delle imprese, tornando ad elogiare il tanto vituperato posto fisso al punto da individuarlo come "la base della stabilità sociale". Ad ascoltarlo tra i tanti erano presenti anche i segretari generali dei tre sindacati confederali: Cgil, Cisl e Uil.
"Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale". Parole che sembrerebbero uscite dalla bocca di qualche sindacalista. A pronunciarle in un pubblico dibattito è invece il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il discorso, ovviamente, assume un peso diverso. Cambia al punto che si potrebbe gridare alla rivoluzione se non fossimo in Italia, un paese dove dal dopoguerra in poi le rivoluzioni non si sono mai fatte, ma sempre e solo annunciate. S’impone così una riflessione su quest’ennesimo annuncio dal retrogusto giacobino, un ragionamento che abbia come base la presa di coscienza dell’attuale natura schiavistica del mercato del lavoro.
Appare infatti paradossale che a pronunciare queste parole sia stato proprio quel Giulio Tremonti, titolare del dicastero dell’economia italiana in ogni legislatura del Polo prima e della Casa delle Libertà poi. Se tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi sono pochi, infatti, quelli che hanno potuto mantenere ruoli di rilevanza politica nel corso degli ultimi governi di destra, di certo uno di questi è proprio Tremonti. Presenza irrinunciabile per Berlusconi dal 1994 ad oggi, il divino Giulio ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Economia in ogni legislatura del Biscione, seguendo un percorso professionale difficile a causa di due dimissioni e dell’abbandono anticipato del ruolo in seguito alla crisi di governo nel 1996. Ciò nonostante si può certamente affermare che è stato uno dei primi responsabili dell’attuale situazione in cui versa l’economia italiana, avendo avuto la responsabilità di governare per quasi dieci degli ultimi 16 anni.
Anni in cui il mercato del lavoro è stato letteralmente sabotato in nome della flessibilità e della mobilità dei lavoratori. Il tutto per rendere - si diceva - più competitivo il paese. Peccato solo che alla flessibilità si sia sostituita la precarietà, il tutto realizzato sulla pelle dei lavoratori di colpo trasformati da esseri umani a capitale umano da gestire, con i soli bilanci dei padroni a trarne qualche giovamento. Quella flessibilità che, secondo il ministro, sarebbe figlia della globalizzazione che "non ha trasformato il quantum di lavoro ma la qualità di lavoro, passato da fisso a mobile. Era inevitabile - dice - fare diversamente". Un po’ come dire che lui, poverino, non poteva fare nulla di diverso da quello che fece. Dopotutto, allora, era solo il responsabile del ministero dell’Economia. Adesso, par di capire invece che le intenzioni sono cambiate e, con esse, anche le politiche che s’intende adottare per il futuro. Il tempo dell'elogio della mobilità e dell'esempio americano sembrano passati di moda. L’Italia che lavora ringrazia, nella speranza che il nuovo orientamento culturale descriva la sensibilità dell’intero governo e non magari la personalissima idea del ministro.
È un uomo misterioso Giulio Tremonti, imperscrutabile per via della sua capacità di dire tutto ed il contrario di tutto molto velocemente e senza temere alcuna smentita. Va detto che difficilmente lo si vede scendere in proclami accompagnati da logiche di plenario ottimismo; l’inderogabile attività economica e finanziaria lo pongono sopra le logiche mediatiche, aggrappandosi alla gravità di tecnicismi che lo trattengono scostato dagli assetti politici più attinenti al pubblico riscontro. Nonostante questo, data la lungimiranza espositiva di questi anni, perfino il poco telegenico immobilismo di Tremonti ha saputo adattarsi alle esigenze televisive, divenendo presenza frequente nei più noti salotti d’attualità politica.
Su tutti lo studio di Vespa, oramai divenuto esso stesso simulacro del potere. Ed è proprio attraverso i meccanismi mediatici che ha potuto affinare le tecniche di abbordaggio pubblico, dove le parole si frantumano in peso indifferenziato ma costante, ed i significati giungono sottoforma di percezione. Il ricordo di quanto si è fatto sfuma, perde d’importanza e lascia il posto ad un camaleontico personaggio privo della più elementare forma di coerenza.
Si compie così il miracolo. L’ideologo del condono edilizio permanente, l’autore di tre scudi fiscali, il sostenitore della privatizzazione delle coste per ragioni di cassa, l’importatore nostrano della finanza creativa anglo-americana, magicamente si trasforma nel paladino della costituzione repubblicana, arrivando a giudicarla "ancora valida", ma "non del tutto applicata". Secondo Tremonti, nella nascita della Costituzione c'era "il confronto fra le tre diverse culture chiave che animavano lo spirito di quel tempo: quella cattolica, quella comunista e quella liberale e la sintesi di queste diverse visioni sta nell'articolo sulla proprietà industriale. Quel passaggio - ha aggiunto il ministro - dove si dice che la Repubblica tutela, regola e disciplina il risparmio, identificando nell'industria del credito una realtà che favorisce l'accesso alla proprietà, all'azionariato popolare, ai grandi complessi produttivi del Paese, è fondamentale".
“Se la Costituzione diceva questo - ha continuato il ministro, senza il minimo accento autocritico - la sua applicazione e la legislazione hanno detto l'opposto. Si è organizzato per un decennio un sistema che in qualche modo ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli di debito. Giusto criterio per cui la grande proprietà industriale doveva essere in qualche modo controllata dal sistema bancario. Credo che un ritorno alla Costituzione - ha concluso - possa portare a concrete e non poche remote riflessioni".
Ovviamente non si è fatta aspettare la risposta dei sindacati. Luigi Angeletti, leader della Uil, ha chiosato l’intervento affermando: "Dalle cose che ha detto, è come se fosse un nostro iscritto”. Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, leader della Cisl: “Le parole di Tremonti sull'esigenza di avere posti di lavoro stabili sono sicuramente condivisibili. E' un obiettivo che inseguiamo anche noi”. Ne esce insomma un’immagine del ministro che da riciclatore di stato, agevolatore di evasori e fornitore di condoni ad ogni dove, si trasforma in sindacalista difensore dei lavoratori. Caustico, ma sempre meno di quanto occorrerebbe, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che alle affermazioni del ministro ha risposto seccamente: "Le farei commentare a Confindustria". Una nota di realismo in un paesaggio da favola.
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di Mario Braconi
Matthew Tannin e Ralph Cioffi, ex manager dell’hedge fund di Bear Stearns, sono stati arrestati il 18 giugno del 2008: resteranno ben impresse nell'immaginario collettivo, non solo americano, le foto che li ritraggono, nei loro eleganti completi, con le manette ai polsi tra gli agenti del FBI. Il caso Tannin - Cioffi è cosa diversa da quello della banca che controllava il Fondo, la Bear Stearns, appunto, il cui destino era scritto nel bilancio che presentò a fine 2007: attività per 395 miliardi di dollari contro un patrimonio netto di poco più di 1 miliardo, con ricorso alla leva finanziaria pari a 35,5 a uno. Una autentica follia, destinata ad esplodere in faccia algli "strateghi" della finanza che l'avevano permessa e anzi benedetta, non appena si fosse materializzata una stretta sulla liquidità con conseguente corsa allo smobilizzo.
Un disastro, per una banca piena di attività improvvisamente divenute illiquide, quando non carta straccia; ma anche una grande occasione per JP Morgan: grazie al generoso contributo della Federal Reserve - trenta miliardi di dollari prelevati dalle tasse dei contribuenti americani - si è aggiudicata a prezzo di saldo una delle case più antiche e prestigiose (?) della finanza USA (la Bear Stearns fu fondata nel 1923 e sopravvisse onorevolmente alla Grande Crisi).
Cioffi, gestore di fondi, e Tannin, avvocato con mansioni di COO (Chief Operating Officer) dello High-Grade Structured Credit Strategies Enhanced Leverage Master Fund, controllato dalla banca d'affari, non sono accusati di aver procurato il fallimento della controllante, quanto piuttosto di avere deliberatamente mentito agli investitori pur conoscendo la drammatica situazione di mercato e i rischi gravissimi cui erano sottoposti i loro clienti.
Il processo ai due è iniziato ieri, 13 ottobre 2009 a Brooklyn, New York, davanti ad una corte federale. Per quanto incredibile, il procedimento giudiziario a carico di Cioffi e Tannin è l’unico caso in cui i direttori delle banche fallite (o quasi) in conseguenza della crisi dei subprime subiscono un procedimento penale: entrambi sono accusati di associazione a delinquere, truffa su titoli mobiliari, e di un reato tipico dell'ordinamento americano che potremmo tradurre truffa elettronica (cioè, truffa perpetrata mediante comunicazioni effettuate per via telematica).
Se venissero riconosciuti colpevoli del reato più grave, truffa su titoli mobiliari, potrebbero finire in prigione per venti anni. A Cioffi viene inoltre contestato il reato di insider trading, per aver ritirato 2 milioni dei suoi risparmi personali da uno dei fondi che gestiva, utilizzando in modo improprio (cioè, prima dei suoi clienti) informazioni riservate. In teoria Cioffi e Tannin dovrebbero essere essere preoccupati, se si pensa che il caso è nelle mani dello US Attorney di Brooklyn, Benton Campbell, ex membro della Task Force del Dipartimento di Giustizia che si occupò della Enron, il cui compito, chiosa l’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg, è quello di organizzare processi contro i responsabili della crisi dei subprime e di portare a casa condanne "visibili": “gli imputati non sono chiamati in responsabilità per il collasso della Bear Stearns” ha dichiarato Campbell; “essi però avevano dei doveri nei confronti dei loro investitori, e hanno violato la loro fiducia: di questo oggi dovranno rispondere”.
Tutto vero, come negarlo? Eppure l’entusiasmo di Benton suona un po’ stridente, anche se è innegabile che funzioni bene dal punto di vista politico-sociale, fornendo un apparente e superficiale ristoro alla diffusa sete di giustizia made in USA conseguente alle scottature provocate da un modello del tutto illogico, anche se molto profittevole per privati, banche ed aziende. Anche perché se il crack della finanza di carta dietro agli eccessi del subprime ha provocato al sistema quasi 400 miliardi di dollari di perdite, ad oggi si sono individuati solo due presunti criminali, Cioffi e Tannin, appunto, i quali sono sotto scrutinio per danni di “soli” 1,4 miliardi. Domandarsi se i due non siano capri espiatori da esporre alla pubblica esecrazione come simbolo dei mali di un sistema di cui erano solo un ingranaggio, a questo punto, non pare un esercizio di garantismo peloso.
Sia come sia, da un punto di vista strettamente tecnico, la giustizia americana sembra dotata di pugno di ferro solo per i politici. Infatti, per riuscire a provare l’associazione a delinquere, il Governo deve dimostrare un accordo tra due o più persone; che, insomma, vi sia stata "un’intenzione collettiva di violare la legge”, come sostiene l’avvocato O’Callaghan dello studio Nixon Peadoby; “di solito in questi casi il governo si basa su testimoni o, meglio, sulle deposizioni di un corresponsabile poi ‘pentitosi’ o di qualcuno che conosceva direttamente i particolari degli schemi criminali.”
Il riferimento è al caso Eric Butler, un trader di Credi Suisse NY che ha venduto alle aziende sue clienti 1 miliardo di dollari di titoli, sostenendo in modo fraudolento che essi erano strutturati sulla base di prestiti agli studenti garantiti dal Governo Federale: Julian Tzolov, compare di Butler, ha riconosciuto le sue responsabilità patteggiando la condanna, ed accusando il suo complice, fornendo alla giustizia americana gli elementi per inchiodarlo. Nel caso di Cioffi e Tannin, manca uno "Tzolov", e quindi viene meno uno strumento essenziale per comprendere le motivazioni alla base della condotta degli accusati. E quindi provare la loro colpevolezza giuridica può risultare quasi impossibile.
Sembra proprio che, a dispetto delle 532 evidenze esibite e dei 38 testimoni, il governo, per ottenere una condanna per i due manager del fondo di Bear Stearns, dovrà basarsi sostanzialmente su citazioni delle loro parole, scritte nelle email o registrate dagli investitori nel corso delle conference call di aggiornamento. La pubblica accusa è entrata in possesso anche di tutte le e-mail di un account Gmail a nome di Tannin (successivamente da lui cancellato), nel quale il dirigente riversava i suoi più intimi pensieri: un quadro a luci ed ombre, che raffigura un uomo soddisfatto di guadagnare quasi 2 milioni di dollari l’anno, ma anche devastato dall’ansia, praticamente dipendente da farmaci anti-stress e antidepressivi, e sull’orlo di una crisi religiosa (!). Lo stesso che ammetteva di avere una gran paura che “il fondo non venga gestito nel modo in cui avrei desiderato” e che ciò esponesse gli investitori a “rischi esplosivi”.
Anche se Tannin viene immortalato a dire frasi che comprovano in modo inequivocabile la sua corretta percezione della crisi (“il mercato dei CDO è bollito”, “il mercato dei sub-prime fa veramente schifo”, "se le analisi hanno un minimo di verità, dovremmo chiudere il fondo ora”) uno dei suoi avvocati spiegherà che “si trattava degli stessi discorsi che si facevano dappertutto, dalla Casa Bianca al tinello di casa, per capire dove la crisi sarebbe andata a parare. Quando sono lette nella loro completezza, le frasi hanno un significato diverso da quello che mostrano quando vengono estrapolate per rimpinguare gli atti di accusa”. Insomma, non solo Cioffi e Tannin sono i soli due manager ad affrontare un processo penale a seguito della crisi subprime, ma c'è da scommettere che, pur avendo truffato i loro clienti, se la caveranno con poco.
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di Mariavittoria Orsolato
Dallo scoppio della crisi americana del credito, si discute sempre più sul ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, un elemento che per decenni ha aiutato gli Stati Uniti a indebitarsi a buon mercato. Pechino, Mosca e altri governi dei mercati emergenti si sono lamentati con i vertici internazionali per l’eccesivo peso economico di Washington, essendo decisamente contrariati per come l’onda d’urto del crollo delle banche americane sia andata ben oltre i confini del Pacifico.
C’è, infatti, una voce che da un po’ di tempo gira insistente tra i colletti bianchi delle agenzie economiche mondiali. Il protagonista del rumor finanziario è proprio l’arcinoto biglietto verde, quel dollaro che tanti guai ha causato all’economia mondiale e che ora, proprio per le conseguenze nefaste della sua crisi, si pensa di esautorare dal ruolo di principe delle transazioni petrolifere entro il 2018.
Pare che i paesi arabi del Golfo Persico, assieme a Russia, Cina, Giappone e Francia, abbiano cominciato ad attivarsi per creare un’alternativa monetaria nei pagamenti di greggio: la moneta statunitense dovrebbe lasciare il passo ad un paniere misto di valute, tra cui lo yuan cinese, lo yen giapponese, l’euro, il sempreverde oro e una nuova coniazione ideata per i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo – tra cui spiccano Arabia Saudita, Abu Dhabi, Qatar e Kuwait. Secondo Robert Fisk, che per primo ha ventilato quest’ipotesi sull’inglese The Indipendent, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali di Cina, Giappone, Russia e Brasile si sono già incontrati, lontano dalle luci dei riflettori, per discutere assieme le linee guida del progetto.
Se così fosse, questa manovra rappresenterebbe il più epocale sconvolgimento finanziario nell’area del Medio Oriente. Ma forse l’uso del condizionale è più che altro una formalità: a detta di fonti informate sugli ambienti bancari arabi e cinesi di Hong Kong, questo imprevisto cambio di rotta da parte delle nuove potenze economiche potrebbe aiutare a spiegare il repentino aumento del prezzo dell’oro.
Se si vanno a guardare le quotazioni del re dei metalli preziosi, si noterà, infatti, che in un solo anno il prezzo all’oncia (circa 29 grammi)è passato da 693 a 1044 dollari, con un aumento record di 350 dollari. A questo si aggiunge poi la corsa in discesa della moneta statunitense: le quotazioni del dollaro sono sprofondate sotto la soglia dei 70 centesimi di euro contro gli 80 dell’ottobre 2008, registrando una flessione del 15%.
C’è però da scommettere sul fatto che gli Stati Uniti non si arrenderanno così facilmente alla pressioni delle nuove economie capitaliste, in cui sono tra l’altro coinvolti storici alleati della democrazia a stelle e strisce, come il Giappone e l’Arabia Saudita. Gli analisti di borsa cominciano a vedere questa inedita contrapposizione est-ovest, come una miccia che potrebbe far implodere i buoni propositi diplomatici di Cina e Usa nella regione mediorientale, mandando all’aria i delicati limiti d’influenza su questioni come l’avvicendamento politico e lo sfruttamento del petrolio.
Nel caso in cui le previsioni dei guru economici londinesi fossero futuribili, la prospettiva ritrarrebbe una guerra economica tra le due superpotenze per il controllo del petrolio arabo, con il pericolo di trasformare le già acute crisi mediorientali in un campo di battaglia in cui si decideranno i destini della nuova supremazia globale.
Il lento declino dell’egemonia dello zio Sam, legato a doppio filo alla crisi mondiale nata dalla spregiudicatezza della finanza a stelle e strisce, è stato riconosciuto pienamente anche dal presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, che di recente ha candidamente ammesso: "Uno dei risultati della crisi potrebbe essere la consapevolezza del fatto che i rapporti di forza in ambito economico sono ormai cambiati". Ma forse la vera spina nel fianco dell’economia americana ha un altro volto.
L’eccezionale crescita economica cinese e il rancore dei produttori e consumatori di petrolio per la pesante ingerenza del governo statunitense nel sistema finanziario internazionale, potrebbero essere due delle principali motivazioni per i recenti colloqui con i paesi del Golfo. Fin dagli accordi di Bretton Woods, nel 1944, i partner commerciali degli States sono stati costretti a misurarsi con l’ingombrante presenza di Washington e, soprattutto, con la supremazia di fatto del dollaro come valuta di riserva globale; non a caso, la stessa Cina conta gran parte della sua ricchezza nazionale in dollari.
A fine settembre l’Iran di Ahmadinejead è stato il primo paese ad annunciare di voler mutare le sue riserve di moneta estera in euro, abbandonando definitivamente il dollaro. Tuttavia, secondo alcuni analisti, ci vorranno molti anni prima che il biglietto verde venga sostituito de facto. "Per il declino della sterlina ci sono voluti cinquant’anni - spiega Gabriel Stein del centro studi Lombard Street Research - Il declino del dollaro è probabilmente iniziato quando Nixon decise di rompere il legame con l’oro, perciò rimangono almeno altri vent’anni". E’ proprio il caso di dirlo: chi vivrà, vedrà.
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di Michele Paris
Nonostante la variazione dei toni, il Fondo Monetario Internazionale non sembra aver cambiato di molto la propria politica nei confronti del sempre maggior numero di paesi in affanno, costretti a chiedere prestiti per fronteggiare le conseguenze dell’emergenza economica in atto. Come ha messo in evidenza un recente rapporto di alcune ONG europee ed americane, l’organo uscito dagli accordi di Bretton Woods continua infatti a produrre effetti negativi in termini di protezione sociale e livelli di povertà in quegli stessi paesi che dovrebbe piuttosto aiutare ad uscire dalla crisi, stimolando una crescita sostenibile di lungo periodo.
Le reti di organizzazioni non governative SOLIDAR, Eurodad e Global Network hanno condotto uno studio prendendo in considerazione i danni causati a tre paesi campione - El Salvador, Etiopia e Lettonia - dalle condizioni imposte qualche mese fa dal FMI per elargire ad essi prestiti di emergenza. La pubblicazione del rapporto è giunta in concomitanza con il meeting annuale tenuto a Istanbul dal FMI e dalla Banca Mondiale e si concentra, appunto, sugli effetti dei tagli alla spesa pubblica e della politica fiscale restrittiva determinati dagli interventi di questi organismi internazionali.
Il presunto nuovo corso del FMI, inaugurato lo scorso mese di marzo con l’introduzione di una nuova Linea di Credito Flessibile, consentirebbe in realtà margini appena più ampi per una politica espansiva, anche se ciò sta riguardando paesi che vantano un reddito interno medio, come la Colombia, il Messico o la Polonia. Decisamente diversa è, al contrario, la situazione dei rapporti con i paesi più poveri destinatari di prestiti, gravati tuttora da imposizioni che in molti casi hanno finito con il peggiorare una situazione economica già molto precaria.
L’attenzione delle ONG autrici del rapporto si è rivolta principalmente all’analisi della misura in cui i programmi d’intervento del FMI nell’ambito della crisi planetaria hanno previsto misure per incoraggiare una crescita equa ed autonoma dei paesi interessati, ma anche l’espansione della spesa per le protezioni sociali e l’implementazione dei principi della cosiddetta “Decent Work Agenda”, fissata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Malgrado un qualche allentamento dei tradizionali obiettivi di rigore fiscale del FMI siano stati riscontrati negli ultimi tempi, la concessione ai paesi interessati di margini di deficit di bilancio leggermente superiori rispetto al passato - almeno temporaneamente - non ha comunque permesso l’adozione di provvedimenti efficaci a lungo termine. In tutti e tre i paesi oggetto dello studio, l’agenda dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, volta a garantire il diritto all’assistenza sanitaria e la sicurezza di un posto di lavoro, è stata totalmente ignorata o comunque quasi mai al centro dell’interesse dei governi.
Quanto alla spesa pubblica, seppure in certi casi sia aumentata proprio dietro incoraggiamento del Fondo, ha finito per essere pressoché vanificata dai tagli al bilancio, che hanno impedito l’espansione delle protezioni sociali e l’approvazione di piani anti-crisi adeguati. Nel caso dell’Etiopia, la spesa sociale è risultata invariata dopo il prestito del FMI, mentre per quanto riguarda la Lettonia è stata invece drasticamente tagliata. Per entrambi i paesi, d’altra parte, la scadenza per riportare i loro deficit ai livelli precedenti la crisi è stata fissata già entro il 2011.
L’impegno richiesto dal Fondo appare sempre e principalmente quello di assicurare bilanci equilibrati sul piano macroeconomico e di creare riserve monetarie adeguate, così da irrobustire la condizione economica di questi paesi in caso di crisi future. L’attuazione di politiche economiche più flessibili, combinate con interventi specifici che prevedano investimenti nel sociale, facilitazione nell’accesso al credito per le piccole e le medie imprese e una tassazione progressiva, appare invece completamente esclusa.
Una delle ragioni dell’inflessibilità del FMI, secondo il rapporto, è la mancanza di coinvolgimento dei parlamenti, delle associazioni sindacali e in generale della società civile nelle negoziazioni dei prestiti da erogare ai vari paesi. La carenza di una visione a lungo termine di Ministri delle Finanze, interessati solo al pareggio di bilancio nell’immediato, fanno poi il resto. Il Fondo d’altronde lavora esclusivamente su un obiettivo di bilancio prefissato, senza curarsi di quali tagli i singoli governi vadano ad operare.
Alle critiche delle ONG si sono aggiunte poi quelle di un think tank di Washington, il Center for Economic and Policy Research, il quale ha fatto notare come 31 dei 42 prestiti erogati dal FMI durante la crisi, abbiano prodotto risultati dannosi per i paesi beneficiari. Le misure di austerità che vengono richieste in cambio del denaro concesso rappresenterebbero un clamoroso errore nella formulazione delle proprie politiche da parte del Fondo, tuttora immerso in una ortodossia economica che aveva già evidenziato tutti i suoi effetti negativi oltre un decennio fa con la crisi dei paesi asiatici.
La discrepanza nell’approccio verso i paesi ricchi e quelli più poveri è evidente. Mentre da un lato s’incoraggia la spesa pubblica, l’allargamento del deficit e le misure di stimolo all’economia, dall’altra si predica l’esatto contrario, con tagli alla uscite e aumento dei tassi di interesse. Con conseguenze spesso devastanti sul fronte dell’assistenza sanitaria pubblica, dell’educazione e dell’accesso al credito per le aziende. In piena recessione, così, i paesi già in difficoltà sono costretti a moltiplicare i loro sforzi per rispettare le condizioni dei prestiti internazionali.
In molti casi inoltre, il FMI ha fallito del tutto le proprie previsioni sull’andamento della situazione economica dei paesi finanziati, nonostante i segnali dell’esplosione della crisi fossero già evidenti ben prima del 2007. Negli ultimi mesi il Fondo ha così dovuto rivedere le clausole dei prestiti concessi a 26 paesi, per undici dei quali aveva sopravvalutato la crescita del PIL di ben tre punti percentuali. Per tre paesi, addirittura, la sovrastima del prodotto interno lordo era stata addirittura di sette punti percentuali. Una posizione difficilmente giustificabile per un organismo internazionale che dispone di uno dei centri di ricerca teoricamente più qualificati del pianeta.
Composto da 186 membri, con quote di voto diverse a seconda del peso di ogni paese (16,79% per gli USA, 32,07% per i 27 membri dell’UE), il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere oggetto in questo periodo di importanti trasformazioni. Ad esempio, nel corso del recente G20 di Pittsburgh è stato annunciato che al FMI sarebbe stato assegnato il ruolo precedentemente riservato al gruppo del G8, cioè quello di principale protagonista della pianificazione e del finanziamento delle iniziative economiche in tutto il pianeta. I leader dei paesi più ricchi hanno poi promesso nuovi fondi per un totale di 750 miliardi di dollari, destinati all’assistenza dei paesi più poveri e maggiormente colpiti dalla crisi.
Nonostante i proclami, quasi nessun cambiamento si è visto però finora nella gestione delle attività del Fondo, che rimane ancora ben lontano da quel ruolo prospettato per esso dal Segretario al Tesoro americano, Tim Geithner, proprio nel corso del recentissimo meeting di Istanbul: “Una rinnovata attenzione al multilateralismo nella distribuzione dell’assistenza per lo sviluppo, così da garantire sufficienti risorse e consentire adeguate politiche economiche per venire incontro ai bisogni dello sviluppo di lungo termine di ogni singolo paese”.
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di Luca Mazzucato
New York. La crisi finanziaria globale colpisce l’ultimo santuario del mercato: le Isole Cayman, rese celebri da Tom Cruise nel film “Il socio.” La settimana scorsa il governo della minuscola isola dei Caraibi ha preso la sofferta decisione di aumentare le tasse, piegando il capo sotto le forti pressioni del governo britannico. Le Isole Cayman ospitano 57.000 abitanti in carne ed ossa e 9253 “hedge funds,” i celebri fondi d’investimento che hanno avuto un ruolo di primo piano nel crollo di Wall Street nel settembre dello scorso anno. Secondo Barack Obama, la Camera di Commercio della capitale, dove sono registrate 19000 aziende, è “la più grossa truffa fiscale che si conosca.” Il particolare che rende attraente quest’isoletta alle porte di Cuba è, infatti, la totale assenza di tasse.
Proprio così: per avviare il vostro fondo d’investimento alle Cayman, dovete pagare tremila dollari una tantum per l’iscrizione al registro imprese. Una volta fatto questo, non ci sarà più alcun laccio o lacciuolo ad intralciare la vostra creatività imprenditoriale. Il giro d’affari delle attività finanziarie si aggira sul trilione e mezzo di dollari, una volta e mezza il PIL italiano: tutto assolutamente, rigorosamente, incredibilmente esentasse.
Alle Isole Cayman non esiste alcuna tassa sui redditi delle persone o sui profitti delle aziende.
Il paese deve le sue entrate principalmente al turismo e alla dogana, che preleva una tassa sull'import-export di merci (ma non di denaro). Fino ad ora, questa geniale intuizione fiscale ha reso un ottimo servizio agli abitanti delle Cayman, che possono vantare il reddito pro-capite di gran lunga più elevato dei Caraibi e il dodicesimo al mondo. Ma la crisi finanziaria dello scorso anno ha messo in ginocchio il paradiso fiscale. Una combinazione di minori introiti e spese eccezionali per la costruzione di nuove scuole, ha creato una voragine nel bilancio statale pari a seicento milioni di dollari, in rapida crescita.
Le Isole fanno parte del Commonwealth britannico e il Governatore, nominato da Sua Maestà la regina d'Inghilterra, detiene il potere assoluto sulla piccola nazione. Per graziosa concessione della regina, il Governatore lascia la gestione degli affari interni al capo del governo, eletto democraticamente. Ma questa volta il governo inglese è entrato a gamba tesa nella gestione dell'isola, promettendo duecentottanta milioni di dollari in prestito, a una condizione: che le Cayman comincino ad imporre una qualche forma di tassazione.
Alcune delle rivoluzionarie misure approvate dal Parlamento delle Cayman sono: l'innalzamento della tassa d'iscrizione per i fondi d'investimento multi-miliardari, che passa dai ridicoli tremila agli altrettanto ridicoli sessantamila dollari; svariati aumenti delle tasse legate al turismo, al commercio e ai permessi di lavoro; ma soprattutto, una tassa del due percento su tutte le transazioni monetarie, che potremmo definire una sorta di Tobin Tax.
Intervistato dal New York Times, il Presidente W. Bush (omonimo dell'omologo ex-presidente americano!) ha voluto subito rassicurare gli investitori internazionali: “Non abbiamo concordato nessuna tassa diretta sui redditi.” In sostanza, le Cayman si guardano bene dallo scalfire seriamente la reputazione di paradiso fiscale. “Cinquant''anni fa - prosegue W. Bush - non c'erano macchine, non c'era elettricità. Non torneremo a vivere sotto all'albero delle noci di cocco.” La ferma opposizione degli uomini d'affari ad un reale cambiamento di rotta non lascia altra scelta al governo. Piuttosto che introdurre tasse sui redditi, le Cayman falceranno i servizi offerti ai cittadini, a partire dall'eccellente e (finora) gratuito sistema scolastico.
I finanzieri dunque non intendono pagare un centesimo, nemmeno come forma di riconoscenza verso un'isola che permette loro guadagni stellari. L'unico a chiedere un piccolo sforzo alle grandi banche è Desmond Seales, editore del Cayman Net News, giornale d'opposizione. Alla domanda se non sia preoccupato che le tasse facciano scappare via i ricchi, Seales risponde laconico: “E dove diavolo andrebbero?”