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di Mario Braconi
Gli Islandesi, che per secoli hanno vissuto di pesca, qualche anno fa si sono resi conto che la finanza allegra può essere più sexy dell’attività ittica. Grazie alla bacchetta magica della leva finanziaria, l’isola nordica ha conosciuto un periodo di crescita economica inimmaginabile. Ma un sistema che arriva a contrarre debiti fino ad un importo pari dieci volte il suo prodotto interno lordo, non poteva che finire in cenere. Oggi, infatti, la sopravvivenza degli abitanti di quest’isola dipende dal buon senso e dalla generosità dei governi inglese ed olandese.
La parola chiave è Icesave, il braccio internet di Landsbanki, una delle tre banche islandesi, fallita e nazionalizzata l’8 ottobre 2008. Offrendo tassi d’interesse molto aggressivi, Icesave aveva raccolto diversi miliardi di Sterline ed Euro, rispettivamente da clienti inglesi ed olandesi. Quando la stretta creditizia l’ha messa in ginocchio, Icesave, impossibilitata a far fronte alle richieste di smobilizzo della clientela, ha congelando i fondi dei suoi clienti inglesi. Una situazione incresciosa, aggravata dal fatto che Icesave aveva dichiarato ufficialmente di volersi occupare dei soli clienti islandesi, mandando a bagno tutti gli altri.
Di fronte all’incredibile risposta di Icesave, il Governo britannico, ricorrendo in modo improprio ad una legge anti-terrorismo, ha ricambiato la cortesia, surgelando le attività di Icesave in Gran Bretagna ed impegnandosi, nel contempo, a rimborsare ai clienti britannici della decotta banca islandese l’intero ammontare dei loro saldi attivi, anche in caso di incapienza del fondo islandese di protezione depositi.
Il governo inglese, dopo aver rimborsato in pieno i suoi concittadini clienti Icesave, si è rivolto al governo islandese per farsi ripagare quanto anticipato. In linea di principio, Reykjavik si è detta d’accordo a far fronte alle richieste britanniche; anzi, a giugno 2009, Gran Bretagna e Islanda hanno firmato un accordo secondo cui il fondo garanzia depositi islandese avrebbe ripagato le somme anticipate dal governo britannico. Le condizioni erano (e rimangono) estremamente vantaggiose per il governo islandese: tasso di interesse del 5,55%, periodo di rimborso di 15 anni, più un periodo di grazia di 7 anni, in cui non maturano interessi.
Quando però, ad agosto del 2009, il Parlamento islandese ha emanato una legge per determinare le modalità di rimborso, i membri della Althingi hanno introdotto una serie di limiti, tra cui un tetto ai pagamenti annui, funzione del prodotto interno lordo ed una scadenza perentoria per le garanzie statali indipendente dall’effettivo pieno rimborso del debito. L’indisponibilità dei creditori ad accettare in particolare quest’ultima condizione, ha prodotto una nuova tornata di negoziazioni tra Islanda e Paesi creditori, conclusasi ad ottobre.
Anche se la legge è stata approvata dal Parlamento il 30 dicembre con una maggioranza molto risicata (33 voti favorevoli contro 30 contrari), il 5 gennaio il Presidente islandese, Olafur Grimsson, incalzato da una petizione a firma di 62.000 islandesi (il 25% della popolazione con diritto di voto), si è rifiutato di firmare il provvedimento, sostenendo di non poter ignorare la diffusa insofferenza del suo popolo per le condizioni del rimborso, e indicendo un referendum popolare in materia, da tenersi il prossimo febbraio.
E’ discutibile la scelta di Grimsson, che rischia di essere devastante per il futuro del suo Paese, già provato da una crisi sistemica che ha condotto ad una contrazione del PIL del 7,2% del 2009. Prima di tutto, al presidente islandese è conferita un’autorità di tipo prettamente morale: ostacolare un provvedimento di legge che non mette a rischio la Costituzione, dopo che esso è stato già approvato dal Parlamento, non rientra tra le sue prerogative. In effetti, Grimsson non è nuovo a simili exploit: nel 2004 si comportò in modo identico quando l’Althingi (Parlamento) approvò una legge sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa.
Inoltre, l’autorevolezza di Grimsson è pari a zero: fa un certo effetto rileggere oggi il discorso vagamente arrogante che tenne nel 2004 ad un pubblico di operatori della City di Londra, nel quale lodava “i giovani vichinghi intraprendenti, sbarcati a Londra per prendersi il mondo” e lodanva la più importante delle tredici virtù cardinali del suo popolo: la propensione al rischio, che “consente di vincere dove altri hanno fallito oppure non hanno osato avventurarsi”. Parole che, aldilà della loro sciocca tracotanza, hanno un devastante peso politico, essendo un chiaro indicatore dell’atteggiamento spregiudicato degli imprenditori e dei finanzieri islandesi che, con la benedizione delle loro istituzioni (Presidente compreso) hanno spacciato il loro Paese.
Infine, secondo quanto il governo islandese ha fatto trapelare sul quotidiano britannico Guardian, attraverso un portavoce del premier Jóhanna Sigurdardóttir, parrebbe che gli asset di Landsbanki, la banca nazionalizzata che controlla Icesave, siano ancora prezzati al 90% del valore nominale. Il che vorrebbe dire che oltre il 70% dell’esposizione islandese verso i correntisti britannici di Icesave potrebbe essere coperta dalla vendita delle attività della banca controllante. Se questo dato fosse confermato - c’è da dubitare della sua veridicità - il caso Icesave verrebbe fortemente ridimensionato, dato che comporterebbe per il popolo islandese un sacrificio di molto inferiore a quanto si va dicendo in questi giorni.
Del resto, la Sigurdardóttir siede su una poltrona bollente: traghettare l’Islanda oltre il guado della crisi in cui si è cacciata è sfida difficile, almeno quanto operarsi con successo al cervello da soli. In poche ore, l’exploit di Grimsson ha già prodotto alcune cose abbastanza preoccupanti: il downgrade del debito sovrano islandese (che, secondo l’agenzia di rating Fitch, passa in territorio “junk”, ovvero “spazzatura”); l’aumento del CDS (misura del rischio di credito di un prenditore sui mercati finanziari) dell’Islanda di 15 centesimi di punto (a 4,9%); la minaccia sospendere il sostegno finanziario da parte di Polonia, Paesi Scandinavi e Fondo Monetario Internazionale ed il blocco dell’adesione dell’Islanda all’Unione Europea.
Anche se è difficile provare simpatia per le torsioni logiche di un politicante come Grimsson, così com’è impossibile non lodare la coerenza e la forza della Sigurdardóttir, l’atteggiamento aggressivo di Gran Bretagna e Paesi Bassi è irragionevole, controproducente ed iniquo. In fin dei conti, è stata una decisione del governo inglese quella di rimborsare per intero i cittadini britannici correntisti di una banca islandese, regolata dalla legge islandese e il cui schema di protezione dei depositi (islandese) è fallito: in fondo, se i clienti inglesi di Icesave ricevevano un tasso particolarmente interessante, una ragione ci sarà pure stata e non è un mistero per nessuno la relazione diretta tra rischio e rendimento.
Eppure Gordon Brown, forse pensando al gettito prodotto dalle imposte sugli interessi di Icesave, è sceso in campo. Dunque, in questo caso, il governo inglese si è comportato in modo esemplare verso i suoi concittadini. Come osserva persino il Financial Times, però, non è chiara la ragione per cui si voglia fare dell’Islanda un esempio per il resto del mondo. La somma in gioco, ragguardevole in senso assoluto, si tradurrebbe in un costo di circa 40 euro per ogni cittadino britannico - mentre significherebbe un aggravio di 14.000 Euro per ogni abitante islandese, dal neonato al più decrepito dei nonni.
E’ bene inoltre ricordare che la Gran Bretagna (come l’Europa in generale) è tutto fuorché una vittima innocente: la regolamentazione e la sorveglianza locale ed europea sulle banche islandesi sono state inesistenti, e certamente qualcosa non deve aver funzionato come doveva se ad agosto 2007 un report a firma del professor Richard Portes, blasonato accademico e ai tempi capo della "Royal Economic Society of Britain", decantava le virtù della banche islandesi: “robuste e di successo, estremamente professionali e non gravate da rischi insostenibili. Questo anche grazie ai buoni livelli di supervisione e regolamentazione, permessi dalla normative europee.” Senza contare che, se il referendum si concluderà con la maggioranza dei No, la questione Icesave potrebbe arenarsi definitivamente, costringendo Gran Bretagna e Paesi Bassi ad una riflessione sui limiti di un atteggiamento muscolare nei confronti di un piccolo paese sull’orlo del baratro.
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di Ilvio Pannullo
È tempo per il paese di cambiare il proprio sistema di ammortizzatori sociali. A sostenerlo, ancora una volta, è stato il presidente della Banca d'Italia Mario Draghi che, in seguito alle polemiche sollevate dopo il suo intervento tenuto in giugno, è tornato a ripetersi venerdì scorso tenendo una lectio magistralis, in occasione della laurea honoris causa ricevuta dalla facoltà di Statistica dell'Università di Padova. "Circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti - ha commentato il governatore - non avrebbero copertura in caso d’interruzione del rapporto di lavoro. A questi si affiancano 450mila lavoratori parasubordinati che non godono di alcun sussidio o che non hanno i requisiti per accedere ai benefici introdotti dai provvedimenti del governo". Una cifra che se paragonata ai 23,4 milioni di lavoratori censiti dall'Istat, stando ai dati diffusi nel 2008, sta a significare che quasi il 7% dei lavoratori in Italia è privo di qualsiasi tipo di protezione davanti al licenziamento.
Il sistema degli ammortizzatori sociali rischia, infatti, di assumere paradossalmente anch'esso la peculiare caratteristica, tutta italica, del privilegio, con lavoratori tutelati in caso di perdita del posto di lavoro, al fianco di poveri disgraziati abbandonati a se stessi nel momento di massimo bisogno. Da qui la necessità di una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, che porterebbe "benefici per l'efficienza produttiva, la tutela dei lavoratori, l'equità sociale.”
Sprezzante del senso del ridicolo, forse ignorando che la logica liberista è alla base dei disastri che hanno colpito recentemente le economie di mezzo mondo, il governatore tuttavia puntualizza che "essa è oggi il prerequisito per un'estensione della flessibilità del mercato del lavoro a tutti i suoi comparti". Se dunque il consiglio dato al governo si spera venga ascoltato dal responsabile di via XX settembre - quel Giulio Tremonti tanto osteggiato e fastidioso - l'obiettivo cui mirare una volta realizzata la riforma appare certamente da scongiurare.
Va detto, infatti, che il pressante invito del governatore rappresenta la cristallizzazione di un'esigenza oramai non più procrastinabile. L'attuale sistema di protezione sociale è figlio, infatti, della rivoluzione industriale e di una logica nella quale il lavoro umano era indispensabile e costituiva la parte più rilevante del processo produttivo, mentre oggi la rivoluzione tecnologica e la finanziarizzazione dell'economia aprono scenari incompatibili con la realtà vetero-industriale, imponendo una radicale rivisitazione del concetto stesso di previdenza sociale.
Il finanziamento della sicurezza sociale non può più essere posto a carico delle individuali contribuzioni agli istituti previdenziali e, per converso, il diritto alle prestazioni tende ad assumere una valenza sempre più universalistica. La garanzia dei bisogni essenziali della persona costituisce poi, oggigiorno, il compito caratterizzante dello Stato, nell'ambito del quale vanno costruite nuove solidarietà per descrivere nuovi rapporti tra la gestione della cosa pubblica e la comunità che esprime la nazione. Invenzione europea, essa ha contribuito alla stabilizzazione dello sviluppo economico e alla sua armonizzazione rispetto ai mutevoli bisogni sociali. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile successo storico, la protezione sociale è entrata nel suo secondo secolo di vita in condizioni di tensione e d’incertezza.
Figlia dell'età industriale dello Stato nazionale si trova, ora, alquanto disorientata nel mezzo di un nuovo contesto socio-economico caratterizzato dalla transizione verso modelli produttivi postindustriali, da una crescente globalizzazione e da rapidi mutamenti dei rapporti demografici. Le società europee della prima metà del secolo 19º, epoca del perfezionamento dei sistemi di welfare, erano infatti ormai solidamente industrializzate: la ricchezza nazionale che in esse veniva prodotta era frutto principalmente della produzione industriale, vista la progressiva perdita d'importanza del settore agricolo è la quasi totale assenza di quello che oggi viene definito settore terziario. L'occupazione era quindi prevalentemente di tipo industriale e si riteneva in questo settore potesse soddisfare le continue richieste occupazionali, garantendo così raggiungimento di un livello di piena occupazione. Oggi tutte queste condizioni sono profondamente mutate.
Il settore industriale continua a perdere peso a vantaggio del settore terziario che assicura buona parte della ricchezza nazionale prodotta; la parabola discendente delle aree geografiche a più alta densità industriale mostra come le produzioni di massa siano ben lungi dall'assicurare, attualmente, la piena occupazione. La vita lavorativa di fasce sempre più numerose di persone si è fatta discontinua e sempre più spesso ai limiti della precarietà. Il ruolo che le donne rivestono all'interno della società è poi completamente mutato, così com’é cambiato l'assetto tradizionale della famiglia, sempre più spesso con un solo componente, per lo più giovani o anziani. Sono cresciuti i gruppi maggiormente esposti al rischio di povertà ed é aumentata l'occupazione femminile di media ed elevata qualificazione. In parallelo si sono modificati i bisogni e le esigenze.
Le modifiche alla struttura produttiva richiedono dunque una parallela trasformazione del Welfare tradizionale: è evidente che un sistema di sicurezza costituitosi all'interno di una fase economica e sociale tanto diversa, stenti ad essere rispondente proprio a quelle esigenze che ne hanno determinato storicamente il sorgere. Si assiste, infatti, in questa fase storica alla paradossale situazione nella quale il welfare è finanziato dai contributi sul lavoro dei singoli, ma proprio in ragione di tale costo l'occupazione diminuisce e si assiste al fenomeno del dumping sociale e alla conseguente delocalizzazione delle imposte, alla ricerca di un basso costo del lavoro.
Diversamente da giugno - quando il presidente del consiglio derubricò l'intervento del governatore come l'impropria uscita di un non addetto ai lavori cui non si doveva prestare ascolto - questa volta il governo ha preferito rispondere con il silenzio. Il ministro dell'economia Tremonti ha, infatti, dato modo di pensare chiaramente che uno ed uno soltanto è il suo parametro di valutazione nella scelta delle politiche economiche da adottare: la tutela della finanza pubblica. "Sui conti pesa il costo del maggior debito che rappresenta poi la nuova tassa che ci viene imposta dalla crisi. Una tassa - ha detto in modo falsamente ironico il Robin Hood dei ricchi - che non possiamo evadere”.
Il ministro sembra, infatti, perseguire una linea di immobilismo locale ed affidarsi, parallelamente, alla speranza di un dinamismo globale che faccia ripartire le esportazioni, vero punto di forza dell'economia italiana. In altre parole non spendere nulla, fare cassa in ogni modo, dallo scudo fiscale al congelamento dei crediti che le aziende godono nei confronti degli ospedali e delle asl, in attesa che la ripresa economica trascini in alto anche il nostro disgraziatissimo paese.
Una speranza che sarà vana se in questa lunghissima fase recessiva, in cui sono stati precipitati tutti i soggetti economici variamente collegati all'area di influenza angloamericana, non saranno affrontati tutti quei problemi strutturali che prima della crisi facevano dell'Italia una protagonista di secondo piano nella scena internazionale. Il rischio é infatti quello di ritrovarci, al momento della ripresa, con un paese non più periferia dell'Occidente industrializzato, ma primo della classe tra gli ultimi paesi del mondo.
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di Giovanni Cecini
Il Financial Times già proclama l’”Entente fiscale”, l’inedita intesa tra le due sponde della Manica in una dura e inflessibile battaglia contro chi fa lauti e ingiustificati guadagni in barba alla crisi economica, vissuta e subita per larga parte invece dai strati medio-bassi. La considerazione di partenza, già affrontata anche dall’amministrazione statunitense, è che gli istituti di credito di tutto il mondo, beneficiari di una parte consistente degli aiuti di Stato, possano continuare nelle reiterate speculazioni finanziarie, senza dare una vera ventata di rinnovamento alle economie dei Paesi. In sostanza non solo le banche starebbero per preparare le condizioni di possibili nuove turbolenze dei mercati, ma soprattutto nella spicciola quotidianità si trovano a guadagnare sulle spalle dei contribuenti, che invece combattono ogni giorno con rincari nei prezzi e tassazioni supplementari, che vanno anche in tasca ai top manager dei colossi del capitale, occupati a imbarcare profitti.
Non sembra quindi utile, oltre che opportuno, regredire in un’economia drogata - e che crea deficit nelle casse nazionali - rivolta in modo unico a rinsaldare quel circolo autoreferenziale che le banche spesso rappresentano, senza riuscire nell’intento originario dei governi: fornire il credito ai cittadini per permettere un sano rilancio dei consumi e quindi della produzione. L’alternativa a questo capitalismo onnivoro e egoista è quella di impedire, o quanto meno di far comprendere ai vertici delle banche, che il soccorso pubblico deve essere di comune utilità, non certo oggetto di speculazione aggiuntiva.
Ecco quindi l’idea di Parigi, presa a prestito da Londra, di tassare in forma consistente, fino al 50%, i bonus dei banchieri, proponendo tale misura a tutti i Paesi dell’Unione europea. Pare ragionevole che, per la filosofia di fondo, possano essere esclusi da questa drastica misura tutti coloro che ricevono un premio inferiore ai 27.000 Euro, ovvero quella parte consistente di dipendenti, che non fanno del proprio lavoro una speculazione pura e semplice.
L’iniziativa sembra premiante, se dopo le prime incertezze continentali, l’audacia britannica, che dalla forza finanziaria della City detta un po’ le regole dei mercati europei, ha aperto le danze per questo giro di valzer anticrisi ante litteram. Sta di fatto che dopo James Gordon Brown, anche Nicolas Sarkozy ha recepito la lezione, tanto da interessare anche i governi olandesi e tedesco, che già accarezzano la proposta. Al congresso di Bonn del Partito Popolare Europeo, mentre Silvio Berlusconi sparava a zero contro le democratiche istituzioni nazionali, la cancelliera Angela Merkel ha espresso un giudizio positivo, di ampia riflessione sulle tassazioni finanziarie, sia legate ai bonus aziendali che a quelle delle movimentazioni in titoli internazionali.
Una proposta quindi ampiamente condivisa, se oltre a Downing Street, all’Eliseo e alla Cancelleria tedesca anche la Commissione, presieduta da José Manuel Barroso, ha trovato la proposta giusta e condivisibile. In Italia quest’azione non sembra degna di pubblico dibattito, visto che gli interventi risolutori del Governo contro la crisi sono stati, per ora, solo lo scudo fiscale. In Parlamento la finanziaria resta blindata dietro lo spauracchio della richiesta di fiducia, dove i tagli sono così opprimenti e le risorse offerte a famiglie e a imprese così misere, che ci si chiede effettivamente in che modo Tremonti e c. possano definirla la migliore degli ultimi anni.
Sarà così se vi pare, però, mentre i manager arricchiti della fallita vecchia Alitalia sono belli paciosi, a godersi i ricchi compensi ottenuti e mai messi alla gogna per aver rovinato il comparto aereo pubblico, in finanziaria spariscono pure le norme per rimborsare i comuni risparmiatori per le azioni e le obbligazioni della storica compagnia di bandiera italiana, divenute anno dopo anno carta straccia.
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di Ilvio Pannullo
Il 4 novembre l'EIA (Energy Information Administration), l'ente che provvede a fornire le statistiche ufficiali in materia di energia provenienti dal governo americano, ha comunicato che le scorte di petrolio convenzionale sono calate, nell’ultima settimana di ottobre, di 3,9 milioni di barili. Gli analisti avevano atteso un aumento 1,3 milioni di barili. Anche le scorte di benzina sono calate: meno 287.000 barili. Gli esperti avevano previsto un incremento di 800.000 barili. Il dato quindi appare in fortissima controtendenza, lasciando intendere che la situazione, nonostante il persistere della crisi, sia decisamente peggiore rispetto a quanto si attendeva.
I dati sono importanti, in quanto il prezzo del petrolio influenza notevolmente l'andamento delle borse, spesso addirittura segnandone pesantemente l'evoluzione. In quest’ottica, analizzando le quotazioni del petrolio negli ultimi anni, è possibile intravedere uno scenario oramai difficilmente eludibile.
Dopo essersi mosse a lungo lateralmente, infatti, le quotazioni dell'oro nero hanno iniziato verso la metà del 2004 un trend rialzista che ha registrato una forte accelerazione a partire dall'inizio del 2007. L'11 luglio del 2008 il future (il contratto, cioè, con il quale le parti si obbligano a scambiarsi alla scadenza un certo quantitativo di determinate attività finanziarie, ad un prezzo stabilito ndr)sul Light Crude, ossia il petrolio del West Texas Intermediate, raggiunse al NYMEX, la borsa di New York, un nuovo massimo storico a $147,27 al barile, mentre il future sul Brent (il petrolio del Mare del Nord) salì all'ICE di Londra fino a $147,50 al barile.
Il prezzo del petrolio fu spinto soprattuto dal forte aumento della domanda di energia nei Paesi emergenti e dalla debolezza del dollaro. La grave crisi del settore finanziario e la conseguente recessione a livello globale hanno avuto in seguito un sensibile impatto negativo sul prezzo del greggio. Il future sul Crude è risceso a New York in pochi mesi, nel febbraio del 2009, a circa $35 al barile ovvero ai livelli del 2003-2004.
Ultimamente, essendo considerata oramai alle spalle la crisi finanziaria che ha demolito le borse di mezzo mondo, il prezzo del petrolio è tornato a salire.
Tra le variabili che si devono tener presenti quando si cerca di stimare la possibile evoluzione della quotazione del petrolio, le più importanti sono certamente la quantità della produzione, decisa dal cartello dei paesi produttori, e la forza del dollaro, l'unica moneta con cui è possibile pagare la linfa vitale dell'intera economia mondiale.
Ora, se della debolezza del dollaro si è scritto recentemente moltissimo, tanto da far ipotizzare ad alcuni una sua sicura sostituzione come valuta di riferimento per la comunità internazionale, una cappa di omertà sembra invece coprire le reali stime delle riserve dei paesi produttori, oltre alla capacità estrattiva dei singoli pozzi attualmente a regime. Nuovi pozzi di petrolio, infatti, sono difficili da trovare. Nonostante gli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti delle multinazionali dell'energia come BP, Royal Ducth Shell, ExxonMobile, Lukoil, Texaco, Unocal, sono da stimare nell'ordine di diversi miliardi di dollari, i risultati sono scarsi.
La cosa decisamente peggiore, tuttavia, riguarda la necessità di una continua ricerca di nuovi giacimenti per aumentare i profitti; profitti che vengono reinvestiti nella ricerca, creando un circolo vizioso. I profitti, infatti, aumentano solo con la crescita economica, che però impossibile senza un aumento della disponibilità energetica. Visto che la domanda mondiale di petrolio e di gas naturali continua ad aumentare in misura sempre maggiore, rispetto alla quantità di nuove risorse che vengono scoperte, i costi di esplorazione salgono vertiginosamente, con la conseguenza di un forte calo dei guadagni.
Per riuscire a mantenere una posizione di mercato competitivo rispetto alla concorrenza, le multinazionali dell'energia - i cui azionisti sono certamente da iscrivere tra i gruppi di persone più potenti al mondo – devono conservare o estendere il loro controllo su sempre maggiori quantità di giacimenti petroliferi, al fine di continuare a garantire all’azionariato profitti adeguati agli investimenti fatti, secondo il diabolico mito della crescita infinita. Per come va il mondo attualmente - con il calo delle risorse di petrolio e di gas naturali, mentre la domanda aumenta drasticamente soprattutto in virtù dell'espansione economica, comunque in atto nonostante la crisi, in India e Cina - se vogliono mantenere i privilegi e il sistema di vita americano, gli Stati Uniti e con loro l’intero occidente dovranno necessariamente entrare in una nuova fase energetica, in termini sia di produzione che di utilizzo.
Questo sentimento venne chiaramente espresso da Domenique de Villepin, allora primo ministro francese, l'1 settembre 2005 come riportato dall’agenzia di stampa Reuters: “Dobbiamo entrare nell'era posta petrolifera. Voglio che siano chiare tutte le drammatiche conseguenze dell'attuale situazione, per poi dare un forte impulso al risparmio energetico e all'uso delle energie rinnovabili”. Da allora sono passati più di quattro anni ed una crisi finanziaria il cui impatto sull'economia reale non si è, ad oggi, ancora esaurito. Allo stato attuale, il mondo è pericolosamente vicino all'esaurimento di tutte le risorse petrolifere, cosa che fa notevolmente aumentare le possibilità di una grave crisi degli approvvigionamenti energetici, con pesanti conseguenze sulle prossime tre decadi.
Le scelte conseguenti avranno anche pesanti effetti sugli altri obiettivi della politica degli Stati Uniti d'America: il Medioriente, l'ex unione sovietica, la Cina e la lotta al terrorismo internazionale. Nello stesso tempo, per buona parte del mondo sviluppato le infrastrutture energetiche stanno venendo messe a dura prova dall'aumento della domanda di materie prime, da parte di un ceto medio in espansione all'interno delle economie emergenti dell'Asia. Questa nuova domanda coincide con il calo delle risorse e con l'inevitabile aumento dei prezzi dell'energia. Al momento, dunque, l'unica cosa certa è che le riserve continueranno a diminuire ed i prezzi ad aumentare. In queste condizioni, salvo buone notizie, un conflitto mondiale per l'accaparramento delle ultime risorse disponibili sul pianeta rappresenta una certezza.
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di mazzetta
La crisi ha battuto un colpo e Dubai è rimasta al tappeto. Tecnicamente la richiesta di congelamento dei pagamenti da parte di una delle imprese dello sceicco regnante non è un default del paese, ma il significato per la comunità internazionale è comunque quello di un default visto che le casse dello stato si confondono con quelle dell'imprenditore e che in nessuna di queste sembra esserci il denaro per pagare i debiti.
La giostra finanziaria dell'emiro è rimasta a secco di capitali e non da oggi; sono ormai mesi che il destino dell’emirato appare segnato e oggi Dubai è nella condizione che fu dell'Argentina, non ha i soldi per pagare i debiti in scadenza. Non ce li ha perché il potere magnetico di Dubai e dei suoi investimenti immobiliari è evaporato con l'apparire della grande crisi e con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha trovato scoperte le scommesse sul futuro dell'emiro e dei suoi soci.
Non ci sono i soldi per aprire nuovi cantieri e nemmeno per terminare quelli già iniziati, progetti immobiliari già acquistati sulla carta in giro per il mondo, caparre già pagate e mutui già accesi che stanno andando in fumo perché il valore di quelle proprietà tende a zero, visto che in gran parte non si sa quando e se saranno mai realizzate. Lo sceicco e i suoi soci vendevano allo scoperto, come con le catene di Sant'Antonio e gli ultimi investitori pagavano a prezzi drogati la realizzazione delle case di quelli che li avevano preceduti. E’ bastato che la crisi rallentasse l'afflusso e lo sceicco si è ritrovato nella situazione di un Maddof qualunque, anche se sicuramente finanziariamente più coperto di Maddof.
Per questo le azioni di numerose istituzioni finanziarie sono andate giù alla notizia del default prossimo. Molte banche europee sono esposte per decine di miliardi di euro con Dubai e con gli altri paesi dell'area che rischiano di essere accomunate dalle sventure del vicino, sono cadute le borse, è franata la Sterlina (già svalutatissima) e un brivido ha percorso veloce la finanza globale, ma l'effetto dell'annuncio di Dubai va molto oltre.
In primis è la dimostrazione, la prova provata, che i “salvataggi” finanziari non hanno salvato nessuno e sono stati solo una costosissima operazione di maquillage. Nemmeno le iniezioni di capitali da parte dei “cugini” del Golfo ha risollevato il mercato immobiliare di Dubai, che non è esattamente un mercato rovinato dai famigerati sub-prime, ma che sconta una distanza enorme tra il valore presunto degli immobili e quello che possono realizzare in questo momento. L'intervento dei vicini a coprire completamente la voragine, fosse pure l'emirato cugino di Abu Dhabi, non è cosa semplice, perché chiama in causa delicati equilibri politici per i quali non sembra praticabile che lo sceicco ceda la guida delle attività fallite, che sono carne della sua carne e il successo delle quali è legato alla visione di futuro che ha proiettato sul suo regno.
La borsa che corre, mentre tutti i fondamentali arretrano, è la conseguenza di queste mosse di trucco & parrucco: inondare i mercati finanziari di un'enorme massa di denaro, mentre negli Stati Uniti e altrove si permetteva alle istituzioni finanziarie fallite di manomettere i bilanci per rimandare il fallimento formale, ha permesso di tappare solo apparentemente la falla nei conti. Invece di correre a riempire i buchi, coperti dalla possibilità di assegnare valori di fantasia a poste di bilancio altrimenti mutilate, le grandi istituzioni finanziarie non hanno fatto altro che buttare i soldi dei bailout statali (non solo di quello americano) sul mercato finanziario, esattamente come facevano prima della crisi.
Coprire i buchi non fa guadagnare e comprare a prezzo di fallimento genera aspettative di profitti sicuramente più allettanti, ancor di più se l'iniezione di capitali ha la capacità d'inflazionare valori di mercato ormai crollati. La borsa è decollata di nuovo, ma senza che i fondamentali sottostanti migliorassero e senza che nessuno si sia curato di riempire le voragini lasciate dallo scoppio delle varie bolle; si è semplicemente sperato l'impossibile, e cioè che la risalita dei corsi azionari facesse recuperare i denari persi e anche quelli dei guadagni virtuali iscritti a bilancio. Intanto i crediti inesigibili sono cresciuti inesorabilmente, altre banche sono fallite e l'implosione dell'economia reale è proseguita imperterrita, si è erosa la massa dei consumatori e anche la base di capitale è ben lontana dall'essere ricostituita ai livelli ante-crisi.
L'unico risultato certo è che i grandi amministratori della finanza mondiale hanno guadagnato come prima della crisi, se non di più, facendo esattamente quello che facevano prima della crisi, che nella pratica significa gonfiare bolle. Altre bolle si sono segnalate ovunque, perché una buona parte dei capitali non più attratti dalla pericolosa economia statunitense hanno cercato di allocarsi nei paesi in via di sviluppo o in quei segmenti delle economie asiatiche più promettenti. Se la scarsità di capitali è un male, la sovrabbondanza provoca comunque problemi e, infatti, molti governi sembrano orientati a regolare l'afflusso di capitali per difendersi da questa alluvione ingestibile.
Le grandezze relative sono tali che una porzione minima degli investimenti dirottati dagli Stati Uniti può trasformarsi in un diluvio di denaro per un paese emergente, che spesso non ha nemmeno i mezzi per controllare certi movimenti, ma ci sono molte economie asiatiche che a loro volta registrano quotazioni irrealistiche e quindi bilanci incerti e poco affidabili. Anche la ricchezza della Cina è una grandezza sopravvalutata e nasconde opacità bancarie e sopravvalutazioni immobiliari.
La velocità con la quale le istituzioni finanziarie hanno finto di aver risolto qualcosa è funzionale alla necessità di evitare di giungere alla resa dei conti, perché se è vero che l'economia globale è dominata dal sentiment, è pur vero che i numeri hanno la sgradevole caratteristica di fregarsene del sentiment. I numeri della crisi sono stati riscritti, nella speranza che la realtà economica avesse il buon gusto di riallinearsi in fretta ai bilanci taroccati.
I numeri incorruttibili ci dicono che mentre le borse hanno ripreso a correre, tutto il resto è arretrato. Sempre più disoccupati, sempre più banche fallite, sempre meno capitale disponibile per l'economia reale. Come in passato, tutti guardano al magico calderone che dovrebbe moltiplicare i soldi e agli stregoni che presiedono a questo rito e molti piccoli investitori avranno già ributtato nel calderone quanto scampato alla crisi; ma lo stregone è sempre lo stesso di prima, quello che costruiva i derivati con una coda di Parmalat, un po' di pelo di bond Argentino e succo di Cirio.
È per questo che il denaro viaggia sempre nella stessa direzione, sarebbe ben strano che i grandi della finanza si preoccupassero di creare profitti da distribuire ai piccoli investitori o di finanziare attività non speculative per questo sconosciute. I politici che hanno sperato nella ripresa dell'erogazione del credito personale e strumentale erano illusi o conniventi, trattandosi di impieghi che generano meno profitti della roulette finanziaria.
Il botto di Dubai potrebbe riportare tutti alla realtà, il sentiment si è incrinato subito e tutti hanno capito qual è la posta in gioco. Infatti le azioni degli emirati si sono inabissate e i costi per assicurare i bond di tutti i paesi della Penisola Arabica sono schizzati verso l'alto. Una banca Saudita ha fermato un'emissione di bond in programma nei prossimi giorni e le altre economie dell'area hanno accusato il colpo, che si è allargato a cerchi concentrici fino ad increspare tutti i mercati. A poco sono servite le rassicurazioni che da Dubai sono giunte per chiarire che non si tratta di un default e che la questione non riguarda il ramo delle attività che si occupa della gestione portuale, la quarta impresa al mondo in questo campo. Il solo annuncio di Dubai ha messo molti attori in difficoltà reali e tangibili, difficoltà che ancora una volta rischiano di sommarsi a valanga.
C'è da credere che la fantomatica “ripresa” non sarà favorita dalla notizia, ma c'è anche il rischio che la crisi di Dubai rompa quel magico velo che ancora separa i mercati finanziari dalla realtà; nel qual caso c'è da tremare sul serio, perché è abbastanza evidente che non si potrà continuare per molto a negoziare titoli e valutare proprietà come se nulla fosse successo. La botta di Dubai rischia di incrinare quel che resta della fiducia di buona parte degli investitori, unendosi alla serie ormai completa dei dati economici tendenti al disastro, in particolare quelli che provengono dagli Stati Uniti.
Nessuna ripresa plausibile sarà mai in grado di neutralizzare in breve tempo le perdite reali nascoste nei bilanci e determinate con lo scoppio della crisi e nessuna ripresa plausibile è in grado di riportare a breve l'occupazione ai livelli pre-crisi. Ma il vero problema è che nessuno di questi obiettivi sembra nel mirino delle persone e alle istituzioni che dovrebbero regolare il mercato finanziario globale, tutte invece abbastanza propense a seguire ancora una volta l'istinto primario della caccia al profitto a breve termine. Per preservare questo stato di cose fino ad oggi non è stata implementata alcuna legislazione, locale o globale, che abbia come obiettivo la repressione significativa dei comportamenti leciti ed illeciti che hanno provocato la crisi.