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di Ilvio Pannullo
Recentemente Silvio Berlusconi è tornato a parlare di un suo antico pallino: la riforma fiscale. Le ipotesi sul tavolo sono essenzialmente due: una riforma di ampio respiro, come vorrebbe il ministro dell'economia e delle finanze Giulio Tremonti, oppure un progetto più semplice di riduzione delle aliquote Irpef, come il reuccio di Arcore promette dal lontano 1994. Appena tuttavia si cercano informazioni più concrete sul come questa straordinaria manovra dovrebbe concretizzarsi, iniziano i problemi: l'unico documento ufficiale disponibile, infatti, è il "libro bianco" scritto proprio da Tremonti nel 1994.
Tre linee guida ne ispiravano le proposte di riforma tributaria: dalle persone alle cose, dal complesso al semplice, dal centro alla periferia. Era un’impostazione suggestiva, in un mondo in cui era diventato più difficile il controllo, più alto il costo indiretto, più pressante la prospettiva del decentramento. Purtroppo non ne fece nulla e la cosa, ovviamente, non fa ben sperare per il futuro. L'idea rilanciata dal cameleontico Giulio è questo: da una parte tagliare il peso delle imposte sulle persone fisiche; dall'altra, alzare la tassazione sulle cose aumentando l'imposta sul valore aggiunto. A questo si aggiunge l'ipotesi di una parziale tassa patrimoniale, concepita in funzione antievasiva, per tassare non soltanto il reddito ma anche il patrimonio.
Per comprendere però quanta fiducia si possa riporre in quest'ennesima promessa, fatta dal Cavaliere e spalleggiata dal suo commercialista di fiducia piazzato a Via XX Settembre, è bene fare un passo indietro ed osservare la situazione dell'economia italiana nel suo complesso, con particolare attenzione ai conti pubblici. Sottolinea da Gilberto Muraro su Lavoce.info: “Nell'Italia di oggi riforma tributaria non significa riduzione del prelievo fiscale. Significa, a parità di pressione, cambiare la distribuzione dell'onere tra tipologie di cespiti e contribuenti, nonché le modalità tecniche del rapporto tributario”. Bisogna infatti considerare che una vera riduzione del carico fiscale passa inevitabilmente per il taglio della spesa pubblica, a meno che non si voglia aggravare l'incidenza del debito pubblico sulla già precaria capacità produttiva del nostro paese. Anche considerando l'innalzamento dell'Iva e le altre coperture, per assicurare l'approvazione della riforma servirebbero, infatti, altri 20-30 miliardi di Euro, che non ci sono né ci saranno.
L'idea cara al premier, prevede infatti la riduzione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche attraverso il passaggio dalle cinque attuali a due sole aliquote: al 23% e al 33%. Appare, tuttavia, poco verosimile che una riforma di queste proporzioni possa essere varata in un momento dove l'incidenza delle politiche economiche anticicliche risulta determinante per uscire da una crisi non ancora conclusa. Per assumere provvedimenti incisivi, è infatti necessario poter fare affidamento su di una grande quantità di risorse, per evitare l'aggravarsi di una situazione di per sé già pessima.
A dimostrazione che la crisi non è finita ci sono i dati sulla disoccupazione: l'8 gennaio di questo mese sono arrivati quelli relativi all'area Euro, dove a novembre, per la prima volta da 10 anni, si è superata la soglia psicologica del tasso del 10%, ancora in aumento rispetto al 9,9% di ottobre. In valori assoluti significa che nell’Eurozona ci sono quasi 16 milioni di disoccupati, che salgono a 22 milioni se il calcolo viene esteso all’intera Unione Europea. L'Italia se la passa appena meglio, con una disoccupazione certificata dall'Istat all'8,3% (i disoccupati sono oramai più di 2 milioni) ma i dati italiani vanno sempre presi con beneficio d'inventario, visto che non considerano le dinamiche dell'economia sommersa.
Il partito dell'amore, fortemente interessato a condurre la campagna per le regionali cavalcando i temi cari al suo elettorato, per sostenere la ragionevole possibilità di riuscire nell'impresa di tagliare le tasse - come peraltro promesso nella campagna per le politiche - si sbraccia nell'annunciare l'imminente ripresa e nel sottolineare qualsiasi indicatore economico preceduto dal segno positivo. Una ripresa tuttavia atipica, in quanto pare non assicurare alcuna diminuzione del tasso di disoccupazione. Una spiegazione per questa anomalia la suggerisce la copertina dell'ultimo numero dell'Economist, che titola "Bubble Warning”, ossia pericolo bolla finanziaria. Gran parte dell'ottimismo che circola in questo periodo, infatti, dipende dall'andamento dei mercati finanziari, e soltanto da quello. L'indice globale MSCI, calcolato dall'agenzia Bloomberg, riassume l'andamento globale dei mercati azionari: da marzo, quando ha toccato il punto più basso, è salito di 500 punti: un rialzo del 70% che indica come le borse di tutto il mondo abbiano superato il panico e siano tornate a crescere.
Purtroppo per noi, pare che la recente crisi non abbia infatti insegnato nulla ai grandi maghi della finanza. Come si legge, sempre sull'Economist ,“ il problema per gli investitori non è solo che le valutazioni di borsa sono alte rispetto ai valori storici, ma soprattutto che l'attuale combinazione di elevati prezzi dei titoli, bassi tassi di interesse e colossali deficit fiscali non è sostenibile”. Tradotto: prima o poi qualcuno dei tre elementi verrà meno e l'equilibrio si romperà con una nuova crisi. Una crisi che sarà ancor più devastante di quella ancora in atto perché causata dagli stessi problemi, che sembra di capire non possono essere risolti neanche in presenza di una chiara volontà politica. Un segnale forte diretto a tutti coloro che si ostinano nel credere ingenuamente che sia la politica a governare l’economia.
In questo scenario altamente instabile, l'Italia si trova particolarmente esposta a causa del suo ciclopico debito pubblico. Peggiorano i conti dello Stato. Appena pochi giorni fa l'Istat ha comunicato che, nei primi nove mesi del 2009, il rapporto deficit-Pil è salito al 5,2% contro il 2,8% dello stesso periodo del 2008. La pubblica amministrazione continua insomma a creare deficit. Sempre l'Istat spiega che, nel terzo trimestre 2009, le uscite sono aumentate del 4,1% rispetto al terzo trimestre dell'anno precedente. Sono cresciute anche le spese correnti (+2,2%) mentre sono diminuite le entrate a causa della contrazione dell’economia. Anche l'indebitamento al netto degli interessi passivi, cioè il saldo primario, quei pochi soldi che lo Stato può decidere di investire, è risultato negativo mentre era positivo nello stesso periodo del 2008. Va male anche il saldo corrente, cioè il risparmio al netto delle spese, passato in negativo di 940 milioni di euro nel terzo trimestre 2009 contro un valore positivo di quasi 6,5 miliardi di euro nello stesso periodo dell'anno precedente. Un bilancio disastroso per un governo a dir poco disastroso.
I dati arrivano dopo che, nei giorni scorsi, il ministro dell'economia aveva fornito le cifre, non certo brillanti, del fabbisogno annuo dello Stato. Nel 2009 si è arrivati a 85,9 miliardi di euro (dato questo provvisorio) contro i 54,3 miliardi del 2008. Dunque 31,6 miliardi in più, che sono un'enormità se si pensa che il gettito tributario, cioè le entrate del fisco, è stabile nel 2009 rispetto al 2008 e lo scudo fiscale non porterà in cassa più di 5 miliardi. Il vero nodo, come sostiene anche la Corte dei Conti, è e rimarrà ancora l'evasione fiscale. Immaginarsi, tuttavia, che questo governo decida di affrontare seriamente la questione appare immediatamente ridicolo.
Le soluzioni concretamente praticabili rimangono poche: la prima, la più verosimile, è la possibilità che il gettito proveniente dalla proroga dello scudo fiscale, ancora ignoto ma nel probabile ordine di 4-5 miliardi, venga utilizzato per un intervento una tantum a beneficio delle famiglie, da annunciare a ridosso delle elezioni regionali di primavera; la seconda prevede invece un drastico taglio alla spesa sociale che, in un momento di difficoltà tanto marcato, equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra da recapitare ai sindacati e a tutte le classi sociali più deboli. Con le regionali alle porte c’è da sperare che B. non faccia pazzie. A tanto ci siamo ridotti.
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di Michele Paris
Messo alle spalle un anno nerissimo per i lavoratori americani, i principali responsabili della crisi economica globale - banchieri e dirigenti dei colossi di Wall Street - si apprestano questa settimana a dividersi un bottino di gratifiche che ammonta a svariati miliardi di dollari. Di fronte all’indignazione dei contribuenti e ai tiepidi rimbrotti di qualche politico, le grandi banche d’investimento stanno cercando disperatamente qualche patetica operazione di facciata per dissimulare la realtà: una gigantesca spartizione di ricchezza generata da pratiche finanziarie ad alto rischio grazie ad enormi infusioni di denaro pubblico.
I bonus miliardari che stanno per essere distribuiti ai dipendenti più zelanti sono in linea, e a volte addirittura superiori, a quelli erogati negli anni del boom finanziario. In media, Goldman Sachs per il 2009 pagherà ogni suo impiegato 595 mila dollari, anche se ovviamente ai piani più alti ci saranno picchi di decine di milioni di dollari. Leggermente inferiore, invece, il valore medio dei premi concessi da JPMorgan Chase: 463 mila dollari.
Molte banche negli ultimi tempi hanno cercato di ridurre le gratifiche in contanti, puntando piuttosto su pacchetti azionari, così da spingere i loro dirigenti a perseguire strategie di successo a lungo termine. Allo stesso modo, qualche compagnia ha scelto di diminuire la quota delle proprie entrate annuali da destinare ai bonus per i dipendenti. Interventi, in realtà, puramente di facciata, dal momento che le cifre in ballo - sia in contanti o sottoforma di “stock options” - raggiungeranno in ogni caso anche quest’anno livelli da record.
Secondo i dati ufficiali, nel corso dei primi nove mesi dello scorso anno cinque delle banche più importanti salvate dal governo federale nel pieno del crollo finanziario - Bank of America, Citigroup, Goldman Sachs, JPMorgan e Morgan Stanley - hanno accantonato qualcosa come 90 miliardi di dollari per i dipendenti più operosi. La sola Goldman Sachs, capace di versare la somma record di 68 milioni di dollari per l’anno 2007 al suo presidente e amministratore delegato, Lloyd C. Blankfein, per lo stesso periodo ha accantonato 16,7 miliardi.
Rispetto ai profitti complessivi, la porzione di denaro destinato ai bonus è però progressivamente scesa nel corso del 2009, dal 50% del primo quadrimestre al 48% e al 43% per quelli successivi. Per JPMorgan si è passati invece dal 40% di inizio anno al 37% degli ultimi quattro mesi. A Bank of America, che ha fatto segnare ricavi immensi durante l’anno appena trascorso, le gratifiche saranno invece accompagnate da una clausola che permetterà ai vertici della compagnia di recuperarne una parte in caso gli affari dovessero andare per il verso sbagliato nei prossimi mesi.
Molto preoccupato delle reazioni negative del popolo americano è anche il consiglio di amministrazione di Morgan Stanley, la cui fetta di profitti derivanti dal mercato finanziario è decisamente inferiore rispetto ai giganti Goldman e JPMorgan. I 25 dirigenti più pagati della banca d’affari fondata nel 1935, saranno ricompensati in prevalenza con azioni e contanti ad incasso deferito nei prossimi anni e vincolati alla performance della compagnia sul mercato. Il presidente uscente, John J. Mack, da parte sua ha inoltre generosamente deciso di rinunciare alla propria fetta per l’anno 2009.
Identico sacrificio sosterrà quest’anno anche il numero uno di Citigroup, Vikram Pandit, il quale accetterà un salario simbolico di un dollaro. Gli oltre 38 milioni incassati dodici mesi fa dovrebbero comunque essere “sufficienti” per ora a garantirgli il tenore di vita raggiunto e provvedere alle spese del suo appartamento da 18 milioni di dollari nell’Upper West Side. La stessa Citigroup, nonostante le difficoltà che tuttora attraversa, pagherà circa 5,3 miliardi di dollari in bonus, di cui 9 milioni in azioni al responsabile della sezione investimenti, John Havens.
Tra le iniziative messe in atto per attenuare le critiche provenienti da più parti, spicca poi quella resa nota recentemente da Goldman Sachs. Proprio alla vigilia della distribuzione dei premi legati alle prestazioni del 2009, la potentissima banca d’investimenti ha annunciato l’espansione di un proprio programma che già prevede il versamento in beneficenza di una percentuale dei bonus dei top manager. La cifra in questione risulta ancora incerta, anche se l’iniziativa appare simile a quella che aveva già messo in atto la fallita Bear Stearns, la quale richiedeva ai suoi dipendenti più pagati di corrispondere almeno il 4% del loro stipendio in beneficenza.
Poco più di un’elemosina, dunque, quella di Goldman Sachs, in grado nel solo 2009 di mettere assieme utili per quasi 12 miliardi di dollari dopo aver accettato soldi pubblici per circa 10 miliardi, e che assomiglia molto ad un’altra recente azione caritatevole, adottata in risposta alle pressioni della Casa Bianca: lo stanziamento di un fondo di 500 milioni di dollari da destinare come prestiti alle piccole imprese americane in affanno.
I compensi milionari di Wall Street continuano ad essere inevitabilmente uno dei punti fermi delle grandi banche che controllano la finanza americana. Oltre a costituire l’incentivo principale per broker che devono massimizzare, in tutti i modi, i profitti delle loro compagnie, essi rappresentano anche l‘unico modo che queste ultime hanno a disposizione per continuare ad assicurarsi i servizi dei più capaci e prevenire così qualsiasi tentazione di un loro trasferimento alla concorrenza.
Per quanti proclami e rimproveri i politici d’oltreoceano abbiano pronunciato, a partire dall’esplosione della crisi più di un anno fa - ultima, in ordine di tempo, la critica in diretta televisiva sulla CNN di una dei principali consiglieri economici del presidente, Christina Romer - poco o nulla si è fatto per limitare questa pratica. Quel potere sulle banche di Wall Street che il governo teoricamente deteneva, sta inoltre svanendo dopo che gli ingenti prestiti pubblici che hanno permesso loro di tornare a raccogliere profitti miliardari stanno per essere ripagati in fretta e furia.
Se l’agguerrito deputato democratico dell’Ohio, Dennis Kucinich, ha depositato al Congresso un progetto di legge, almeno per sottoporre i bonus milionari ad una nuova tassa, le speranze per un cambiamento di rotta in questo ambito appaiono molto fievoli. L’influenza di Wall Street sulla politica americana rimane infatti enorme, come enormemente pericolosa appare l’ipoteca messa dai colossi della finanza sul futuro dell’economia mondiale.
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di Mario Braconi
Gli Islandesi, che per secoli hanno vissuto di pesca, qualche anno fa si sono resi conto che la finanza allegra può essere più sexy dell’attività ittica. Grazie alla bacchetta magica della leva finanziaria, l’isola nordica ha conosciuto un periodo di crescita economica inimmaginabile. Ma un sistema che arriva a contrarre debiti fino ad un importo pari dieci volte il suo prodotto interno lordo, non poteva che finire in cenere. Oggi, infatti, la sopravvivenza degli abitanti di quest’isola dipende dal buon senso e dalla generosità dei governi inglese ed olandese.
La parola chiave è Icesave, il braccio internet di Landsbanki, una delle tre banche islandesi, fallita e nazionalizzata l’8 ottobre 2008. Offrendo tassi d’interesse molto aggressivi, Icesave aveva raccolto diversi miliardi di Sterline ed Euro, rispettivamente da clienti inglesi ed olandesi. Quando la stretta creditizia l’ha messa in ginocchio, Icesave, impossibilitata a far fronte alle richieste di smobilizzo della clientela, ha congelando i fondi dei suoi clienti inglesi. Una situazione incresciosa, aggravata dal fatto che Icesave aveva dichiarato ufficialmente di volersi occupare dei soli clienti islandesi, mandando a bagno tutti gli altri.
Di fronte all’incredibile risposta di Icesave, il Governo britannico, ricorrendo in modo improprio ad una legge anti-terrorismo, ha ricambiato la cortesia, surgelando le attività di Icesave in Gran Bretagna ed impegnandosi, nel contempo, a rimborsare ai clienti britannici della decotta banca islandese l’intero ammontare dei loro saldi attivi, anche in caso di incapienza del fondo islandese di protezione depositi.
Il governo inglese, dopo aver rimborsato in pieno i suoi concittadini clienti Icesave, si è rivolto al governo islandese per farsi ripagare quanto anticipato. In linea di principio, Reykjavik si è detta d’accordo a far fronte alle richieste britanniche; anzi, a giugno 2009, Gran Bretagna e Islanda hanno firmato un accordo secondo cui il fondo garanzia depositi islandese avrebbe ripagato le somme anticipate dal governo britannico. Le condizioni erano (e rimangono) estremamente vantaggiose per il governo islandese: tasso di interesse del 5,55%, periodo di rimborso di 15 anni, più un periodo di grazia di 7 anni, in cui non maturano interessi.
Quando però, ad agosto del 2009, il Parlamento islandese ha emanato una legge per determinare le modalità di rimborso, i membri della Althingi hanno introdotto una serie di limiti, tra cui un tetto ai pagamenti annui, funzione del prodotto interno lordo ed una scadenza perentoria per le garanzie statali indipendente dall’effettivo pieno rimborso del debito. L’indisponibilità dei creditori ad accettare in particolare quest’ultima condizione, ha prodotto una nuova tornata di negoziazioni tra Islanda e Paesi creditori, conclusasi ad ottobre.
Anche se la legge è stata approvata dal Parlamento il 30 dicembre con una maggioranza molto risicata (33 voti favorevoli contro 30 contrari), il 5 gennaio il Presidente islandese, Olafur Grimsson, incalzato da una petizione a firma di 62.000 islandesi (il 25% della popolazione con diritto di voto), si è rifiutato di firmare il provvedimento, sostenendo di non poter ignorare la diffusa insofferenza del suo popolo per le condizioni del rimborso, e indicendo un referendum popolare in materia, da tenersi il prossimo febbraio.
E’ discutibile la scelta di Grimsson, che rischia di essere devastante per il futuro del suo Paese, già provato da una crisi sistemica che ha condotto ad una contrazione del PIL del 7,2% del 2009. Prima di tutto, al presidente islandese è conferita un’autorità di tipo prettamente morale: ostacolare un provvedimento di legge che non mette a rischio la Costituzione, dopo che esso è stato già approvato dal Parlamento, non rientra tra le sue prerogative. In effetti, Grimsson non è nuovo a simili exploit: nel 2004 si comportò in modo identico quando l’Althingi (Parlamento) approvò una legge sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa.
Inoltre, l’autorevolezza di Grimsson è pari a zero: fa un certo effetto rileggere oggi il discorso vagamente arrogante che tenne nel 2004 ad un pubblico di operatori della City di Londra, nel quale lodava “i giovani vichinghi intraprendenti, sbarcati a Londra per prendersi il mondo” e lodanva la più importante delle tredici virtù cardinali del suo popolo: la propensione al rischio, che “consente di vincere dove altri hanno fallito oppure non hanno osato avventurarsi”. Parole che, aldilà della loro sciocca tracotanza, hanno un devastante peso politico, essendo un chiaro indicatore dell’atteggiamento spregiudicato degli imprenditori e dei finanzieri islandesi che, con la benedizione delle loro istituzioni (Presidente compreso) hanno spacciato il loro Paese.
Infine, secondo quanto il governo islandese ha fatto trapelare sul quotidiano britannico Guardian, attraverso un portavoce del premier Jóhanna Sigurdardóttir, parrebbe che gli asset di Landsbanki, la banca nazionalizzata che controlla Icesave, siano ancora prezzati al 90% del valore nominale. Il che vorrebbe dire che oltre il 70% dell’esposizione islandese verso i correntisti britannici di Icesave potrebbe essere coperta dalla vendita delle attività della banca controllante. Se questo dato fosse confermato - c’è da dubitare della sua veridicità - il caso Icesave verrebbe fortemente ridimensionato, dato che comporterebbe per il popolo islandese un sacrificio di molto inferiore a quanto si va dicendo in questi giorni.
Del resto, la Sigurdardóttir siede su una poltrona bollente: traghettare l’Islanda oltre il guado della crisi in cui si è cacciata è sfida difficile, almeno quanto operarsi con successo al cervello da soli. In poche ore, l’exploit di Grimsson ha già prodotto alcune cose abbastanza preoccupanti: il downgrade del debito sovrano islandese (che, secondo l’agenzia di rating Fitch, passa in territorio “junk”, ovvero “spazzatura”); l’aumento del CDS (misura del rischio di credito di un prenditore sui mercati finanziari) dell’Islanda di 15 centesimi di punto (a 4,9%); la minaccia sospendere il sostegno finanziario da parte di Polonia, Paesi Scandinavi e Fondo Monetario Internazionale ed il blocco dell’adesione dell’Islanda all’Unione Europea.
Anche se è difficile provare simpatia per le torsioni logiche di un politicante come Grimsson, così com’è impossibile non lodare la coerenza e la forza della Sigurdardóttir, l’atteggiamento aggressivo di Gran Bretagna e Paesi Bassi è irragionevole, controproducente ed iniquo. In fin dei conti, è stata una decisione del governo inglese quella di rimborsare per intero i cittadini britannici correntisti di una banca islandese, regolata dalla legge islandese e il cui schema di protezione dei depositi (islandese) è fallito: in fondo, se i clienti inglesi di Icesave ricevevano un tasso particolarmente interessante, una ragione ci sarà pure stata e non è un mistero per nessuno la relazione diretta tra rischio e rendimento.
Eppure Gordon Brown, forse pensando al gettito prodotto dalle imposte sugli interessi di Icesave, è sceso in campo. Dunque, in questo caso, il governo inglese si è comportato in modo esemplare verso i suoi concittadini. Come osserva persino il Financial Times, però, non è chiara la ragione per cui si voglia fare dell’Islanda un esempio per il resto del mondo. La somma in gioco, ragguardevole in senso assoluto, si tradurrebbe in un costo di circa 40 euro per ogni cittadino britannico - mentre significherebbe un aggravio di 14.000 Euro per ogni abitante islandese, dal neonato al più decrepito dei nonni.
E’ bene inoltre ricordare che la Gran Bretagna (come l’Europa in generale) è tutto fuorché una vittima innocente: la regolamentazione e la sorveglianza locale ed europea sulle banche islandesi sono state inesistenti, e certamente qualcosa non deve aver funzionato come doveva se ad agosto 2007 un report a firma del professor Richard Portes, blasonato accademico e ai tempi capo della "Royal Economic Society of Britain", decantava le virtù della banche islandesi: “robuste e di successo, estremamente professionali e non gravate da rischi insostenibili. Questo anche grazie ai buoni livelli di supervisione e regolamentazione, permessi dalla normative europee.” Senza contare che, se il referendum si concluderà con la maggioranza dei No, la questione Icesave potrebbe arenarsi definitivamente, costringendo Gran Bretagna e Paesi Bassi ad una riflessione sui limiti di un atteggiamento muscolare nei confronti di un piccolo paese sull’orlo del baratro.
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di Ilvio Pannullo
È tempo per il paese di cambiare il proprio sistema di ammortizzatori sociali. A sostenerlo, ancora una volta, è stato il presidente della Banca d'Italia Mario Draghi che, in seguito alle polemiche sollevate dopo il suo intervento tenuto in giugno, è tornato a ripetersi venerdì scorso tenendo una lectio magistralis, in occasione della laurea honoris causa ricevuta dalla facoltà di Statistica dell'Università di Padova. "Circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti - ha commentato il governatore - non avrebbero copertura in caso d’interruzione del rapporto di lavoro. A questi si affiancano 450mila lavoratori parasubordinati che non godono di alcun sussidio o che non hanno i requisiti per accedere ai benefici introdotti dai provvedimenti del governo". Una cifra che se paragonata ai 23,4 milioni di lavoratori censiti dall'Istat, stando ai dati diffusi nel 2008, sta a significare che quasi il 7% dei lavoratori in Italia è privo di qualsiasi tipo di protezione davanti al licenziamento.
Il sistema degli ammortizzatori sociali rischia, infatti, di assumere paradossalmente anch'esso la peculiare caratteristica, tutta italica, del privilegio, con lavoratori tutelati in caso di perdita del posto di lavoro, al fianco di poveri disgraziati abbandonati a se stessi nel momento di massimo bisogno. Da qui la necessità di una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, che porterebbe "benefici per l'efficienza produttiva, la tutela dei lavoratori, l'equità sociale.”
Sprezzante del senso del ridicolo, forse ignorando che la logica liberista è alla base dei disastri che hanno colpito recentemente le economie di mezzo mondo, il governatore tuttavia puntualizza che "essa è oggi il prerequisito per un'estensione della flessibilità del mercato del lavoro a tutti i suoi comparti". Se dunque il consiglio dato al governo si spera venga ascoltato dal responsabile di via XX settembre - quel Giulio Tremonti tanto osteggiato e fastidioso - l'obiettivo cui mirare una volta realizzata la riforma appare certamente da scongiurare.
Va detto, infatti, che il pressante invito del governatore rappresenta la cristallizzazione di un'esigenza oramai non più procrastinabile. L'attuale sistema di protezione sociale è figlio, infatti, della rivoluzione industriale e di una logica nella quale il lavoro umano era indispensabile e costituiva la parte più rilevante del processo produttivo, mentre oggi la rivoluzione tecnologica e la finanziarizzazione dell'economia aprono scenari incompatibili con la realtà vetero-industriale, imponendo una radicale rivisitazione del concetto stesso di previdenza sociale.
Il finanziamento della sicurezza sociale non può più essere posto a carico delle individuali contribuzioni agli istituti previdenziali e, per converso, il diritto alle prestazioni tende ad assumere una valenza sempre più universalistica. La garanzia dei bisogni essenziali della persona costituisce poi, oggigiorno, il compito caratterizzante dello Stato, nell'ambito del quale vanno costruite nuove solidarietà per descrivere nuovi rapporti tra la gestione della cosa pubblica e la comunità che esprime la nazione. Invenzione europea, essa ha contribuito alla stabilizzazione dello sviluppo economico e alla sua armonizzazione rispetto ai mutevoli bisogni sociali. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile successo storico, la protezione sociale è entrata nel suo secondo secolo di vita in condizioni di tensione e d’incertezza.
Figlia dell'età industriale dello Stato nazionale si trova, ora, alquanto disorientata nel mezzo di un nuovo contesto socio-economico caratterizzato dalla transizione verso modelli produttivi postindustriali, da una crescente globalizzazione e da rapidi mutamenti dei rapporti demografici. Le società europee della prima metà del secolo 19º, epoca del perfezionamento dei sistemi di welfare, erano infatti ormai solidamente industrializzate: la ricchezza nazionale che in esse veniva prodotta era frutto principalmente della produzione industriale, vista la progressiva perdita d'importanza del settore agricolo è la quasi totale assenza di quello che oggi viene definito settore terziario. L'occupazione era quindi prevalentemente di tipo industriale e si riteneva in questo settore potesse soddisfare le continue richieste occupazionali, garantendo così raggiungimento di un livello di piena occupazione. Oggi tutte queste condizioni sono profondamente mutate.
Il settore industriale continua a perdere peso a vantaggio del settore terziario che assicura buona parte della ricchezza nazionale prodotta; la parabola discendente delle aree geografiche a più alta densità industriale mostra come le produzioni di massa siano ben lungi dall'assicurare, attualmente, la piena occupazione. La vita lavorativa di fasce sempre più numerose di persone si è fatta discontinua e sempre più spesso ai limiti della precarietà. Il ruolo che le donne rivestono all'interno della società è poi completamente mutato, così com’é cambiato l'assetto tradizionale della famiglia, sempre più spesso con un solo componente, per lo più giovani o anziani. Sono cresciuti i gruppi maggiormente esposti al rischio di povertà ed é aumentata l'occupazione femminile di media ed elevata qualificazione. In parallelo si sono modificati i bisogni e le esigenze.
Le modifiche alla struttura produttiva richiedono dunque una parallela trasformazione del Welfare tradizionale: è evidente che un sistema di sicurezza costituitosi all'interno di una fase economica e sociale tanto diversa, stenti ad essere rispondente proprio a quelle esigenze che ne hanno determinato storicamente il sorgere. Si assiste, infatti, in questa fase storica alla paradossale situazione nella quale il welfare è finanziato dai contributi sul lavoro dei singoli, ma proprio in ragione di tale costo l'occupazione diminuisce e si assiste al fenomeno del dumping sociale e alla conseguente delocalizzazione delle imposte, alla ricerca di un basso costo del lavoro.
Diversamente da giugno - quando il presidente del consiglio derubricò l'intervento del governatore come l'impropria uscita di un non addetto ai lavori cui non si doveva prestare ascolto - questa volta il governo ha preferito rispondere con il silenzio. Il ministro dell'economia Tremonti ha, infatti, dato modo di pensare chiaramente che uno ed uno soltanto è il suo parametro di valutazione nella scelta delle politiche economiche da adottare: la tutela della finanza pubblica. "Sui conti pesa il costo del maggior debito che rappresenta poi la nuova tassa che ci viene imposta dalla crisi. Una tassa - ha detto in modo falsamente ironico il Robin Hood dei ricchi - che non possiamo evadere”.
Il ministro sembra, infatti, perseguire una linea di immobilismo locale ed affidarsi, parallelamente, alla speranza di un dinamismo globale che faccia ripartire le esportazioni, vero punto di forza dell'economia italiana. In altre parole non spendere nulla, fare cassa in ogni modo, dallo scudo fiscale al congelamento dei crediti che le aziende godono nei confronti degli ospedali e delle asl, in attesa che la ripresa economica trascini in alto anche il nostro disgraziatissimo paese.
Una speranza che sarà vana se in questa lunghissima fase recessiva, in cui sono stati precipitati tutti i soggetti economici variamente collegati all'area di influenza angloamericana, non saranno affrontati tutti quei problemi strutturali che prima della crisi facevano dell'Italia una protagonista di secondo piano nella scena internazionale. Il rischio é infatti quello di ritrovarci, al momento della ripresa, con un paese non più periferia dell'Occidente industrializzato, ma primo della classe tra gli ultimi paesi del mondo.
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di Giovanni Cecini
Il Financial Times già proclama l’”Entente fiscale”, l’inedita intesa tra le due sponde della Manica in una dura e inflessibile battaglia contro chi fa lauti e ingiustificati guadagni in barba alla crisi economica, vissuta e subita per larga parte invece dai strati medio-bassi. La considerazione di partenza, già affrontata anche dall’amministrazione statunitense, è che gli istituti di credito di tutto il mondo, beneficiari di una parte consistente degli aiuti di Stato, possano continuare nelle reiterate speculazioni finanziarie, senza dare una vera ventata di rinnovamento alle economie dei Paesi. In sostanza non solo le banche starebbero per preparare le condizioni di possibili nuove turbolenze dei mercati, ma soprattutto nella spicciola quotidianità si trovano a guadagnare sulle spalle dei contribuenti, che invece combattono ogni giorno con rincari nei prezzi e tassazioni supplementari, che vanno anche in tasca ai top manager dei colossi del capitale, occupati a imbarcare profitti.
Non sembra quindi utile, oltre che opportuno, regredire in un’economia drogata - e che crea deficit nelle casse nazionali - rivolta in modo unico a rinsaldare quel circolo autoreferenziale che le banche spesso rappresentano, senza riuscire nell’intento originario dei governi: fornire il credito ai cittadini per permettere un sano rilancio dei consumi e quindi della produzione. L’alternativa a questo capitalismo onnivoro e egoista è quella di impedire, o quanto meno di far comprendere ai vertici delle banche, che il soccorso pubblico deve essere di comune utilità, non certo oggetto di speculazione aggiuntiva.
Ecco quindi l’idea di Parigi, presa a prestito da Londra, di tassare in forma consistente, fino al 50%, i bonus dei banchieri, proponendo tale misura a tutti i Paesi dell’Unione europea. Pare ragionevole che, per la filosofia di fondo, possano essere esclusi da questa drastica misura tutti coloro che ricevono un premio inferiore ai 27.000 Euro, ovvero quella parte consistente di dipendenti, che non fanno del proprio lavoro una speculazione pura e semplice.
L’iniziativa sembra premiante, se dopo le prime incertezze continentali, l’audacia britannica, che dalla forza finanziaria della City detta un po’ le regole dei mercati europei, ha aperto le danze per questo giro di valzer anticrisi ante litteram. Sta di fatto che dopo James Gordon Brown, anche Nicolas Sarkozy ha recepito la lezione, tanto da interessare anche i governi olandesi e tedesco, che già accarezzano la proposta. Al congresso di Bonn del Partito Popolare Europeo, mentre Silvio Berlusconi sparava a zero contro le democratiche istituzioni nazionali, la cancelliera Angela Merkel ha espresso un giudizio positivo, di ampia riflessione sulle tassazioni finanziarie, sia legate ai bonus aziendali che a quelle delle movimentazioni in titoli internazionali.
Una proposta quindi ampiamente condivisa, se oltre a Downing Street, all’Eliseo e alla Cancelleria tedesca anche la Commissione, presieduta da José Manuel Barroso, ha trovato la proposta giusta e condivisibile. In Italia quest’azione non sembra degna di pubblico dibattito, visto che gli interventi risolutori del Governo contro la crisi sono stati, per ora, solo lo scudo fiscale. In Parlamento la finanziaria resta blindata dietro lo spauracchio della richiesta di fiducia, dove i tagli sono così opprimenti e le risorse offerte a famiglie e a imprese così misere, che ci si chiede effettivamente in che modo Tremonti e c. possano definirla la migliore degli ultimi anni.
Sarà così se vi pare, però, mentre i manager arricchiti della fallita vecchia Alitalia sono belli paciosi, a godersi i ricchi compensi ottenuti e mai messi alla gogna per aver rovinato il comparto aereo pubblico, in finanziaria spariscono pure le norme per rimborsare i comuni risparmiatori per le azioni e le obbligazioni della storica compagnia di bandiera italiana, divenute anno dopo anno carta straccia.