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di Ilvio Pannullo
Ogni volta che gliene viene data la possibilità, il Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è pronto nel ribadire quanto grande sia stata l’abilità del governo nel gestire la crisi, ancora molto lontana dall’essersi conclusa. In effetti al Ministro spetta il riconoscimento del merito di aver impedito un peggioramento eccessivo dei nostri saldi di finanza pubblica, garantendone livelli meno problematici rispetto a diversi paesi europei che aderiscono alla moneta unica. E poiché paesi solitamente più virtuosi di noi nei conti pubblici ne hanno accettato un consistente deterioramento per affrontare la crisi, l'Italia, che non l’ha fatto, è riuscita a trasformarsi in un paese, almeno in termini relativi - o semplicemente statistici se si è amanti della precisione - virtuoso. Ma da qui a sostenere che i nostri problemi di finanza pubblica siano scomparsi o che siano stati notevolmente attenuati vi è un gran salto; semplicemente si notano di meno in un mondo rapidamente peggiorato nei suoi conti pubblici.
Il presidente della Banca Centrale Europea, Trichet, insieme al Financial Times e ai mercati finanziari internazionali hanno, o per il momento fingono di avere, una buona opinione della finanza pubblica italiana perché, osservandola attraverso gli occhiali del trattato di Maastricht, guardano ai saldi di bilancio in rapporto al Pil e non alle grandezze che quei saldi li determinano, senza cioè osservare entrate e spesa pubblica in rapporto al prodotto interno lordo, per avere un'idea sicuramente più chiara delle dinamiche economiche che interessano il nostro paese.
Lo farebbero, se fosse nel loro interesse analizzare più compiutamente lo stato della nostra economia, ma non lo fanno semplicemente perché in questo periodo sono altri i problemi, Grecia in testa. Dal punto di vista del disavanzo pubblico rispetto al Pil - ossia la differenza tra quanto si è speso e quanto si è prodotto - l'Italia nel 2009 è andata meglio della media dell'area Euro e si è tenuta molto distante dai valori di paesi in cui il deficit è letteralmente esploso come la Grecia, l’Irlanda, la Spagna; e, fuori dall'area Euro, la Gran Bretagna. Il nostro rapporto deficit/Pil é infatti solo raddoppiato nel 2009 rispetto al 2008, passando dal 2,7% al 5,3% mentre nell'intera area Euro è più che triplicato, passando dal 2% al 6,2%, e si colloca ora un punto di Pil al di sopra del valore italiano.
È esattamente questo differenziale che ci sta coprendo rispetto alla speculazione internazionale, notoriamente aggressiva con chi versa in posizione di maggior debolezza. Le istituzioni economiche europee sembrano, inoltre, non dare grande peso all'altro rilevante parametro di finanza pubblica alla base del trattato di Maastricht, cioè il rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo. L'Italia, che ha il terzo maggiore debito pubblico del mondo, senza avere contemporaneamente la terza economia del mondo, (come giustamente ricorda ogniqualvolta gli si chieda conto di qualcosa il Ministro Tremonti) detiene anche il record del peggior rapporto europeo debito/Pil, battendo persino la Grecia. Ma sino a quando riuscirà a tenere il suo rapporto deficit/Pil tra quello dei paesi virtuosi, e s’impegnerà nei prossimi anni a migliorarlo più rapidamente degli altri, nessuno farà troppe storie.
Tutto da vedere se vi riuscirà o meno e, per valutarlo, è necessario per l’appunto estendere l'analisi dal deficit alle due grandezze che lo determinano, la spesa e le entrate pubbliche. In relazione ad esse le dinamiche sono tuttavia molto sfavorevoli: nel 2009, anno di profonda recessione, la spesa pubblica complessiva ha nettamente sforato il valore del 50% rispetto al Pil, anzi ha quasi toccato il 52%, più di tre punti percentuali al di sopra del dato del 2008 e questo nonostante il risparmio di mezzo punto conseguito alla voce degli interessi sul debito. Si tratta del valore europeo più elevato dopo quello dei paesi che hanno rilevanti ed efficienti sistemi di welfare, come la Svezia e la Danimarca.
Indicativo è anche il fatto che, per ritrovare indietro nel tempo un dato simile, bisogna tornare al 1996. Ma in quell'anno, se togliamo dalla spesa pubblica la voce degli interessi sul debito, che pesò allora per 11,5 punti di Pil trattandosi ancora della vecchia lira, se guardiamo quindi alla spesa pubblica primaria, scendiamo ad un valore pari solo al 41%. Se ripetiamo l'operazione del 2009 e togliamo i 4,6 punti di spesa per interessi sul debito, scendiamo invece poco al di sotto del 48%, un valore di quasi sette punti più elevato rispetto a quello del 1996.
Nelle cifre precedenti sta tutto il dramma della nostra spesa pubblica: al netto degli interessi è la più elevata in rapporto al Pil mai raggiunta nella storia d'Italia; inoltre tutto il risparmio conseguito attraverso il cosiddetto "dividendo di Maastricht", cioè il vantaggio derivante dalla conversione degli alti tassi di interesse che gravano sul debito espresso in lire rispetto i bassi tassi del debito espresso in una valuta forte quale è l’Euro, è stato interamente dilapidato. Dal 1996 al 2009 abbiamo risparmiato grazie all'Euro sette punti di Pil di spesa per interessi, ma nonostante tutto i vari governi che si sono succeduti sono riusciti nel miracolo di rendere un simile vantaggio invisibile agli occhi dei cittadini, che dall’introduzione dell’euro hanno ricavato solo una pesantissima perdita di potere d’acquisto.
A parità di pressione fiscale avremmo potuto portare il bilancio pubblico in attivo, oppure avremmo potuto migliorare il disavanzo e ridurre le tasse; invece abbiamo integralmente utilizzato il beneficio per spendere di più sull'insieme delle altre voci. Cosa accadrà quando i tassi di interesse, e con essi il costo del debito, riprenderanno a salire dagli attuali bassissimi valori, è facile immaginarlo.
In questo scenario la Banca d'Italia ha recentemente sancito che il debito italiano è aumentato di 15 miliardi nei primi due mesi dell'anno, mentre le entrate fiscali sono in diminuzione. Nella disperazione generale (negata per ordine di scuderia) si fa filtrare la notizia che l'agenzia delle entrate sta per acquisire una lista di 10.000 nomi di depositari italiani che hanno conti bancari in Svizzera; questi evasori potranno avvalersi dello scudo fiscale pagando un'aliquota del 7% prima che il fisco metta loro le mani addosso. Attilio Befera, direttore generale dell’Agenzia, deve aver pensato: "Meglio pochi maledetti e subito". E, se sono preoccupati, un motivo ci sarà.
Il quadro generale dell’eurozona è infatti decisamente fosco, ma nonostante tutto l'Italia pensa di essere al sicuro con il suo rapporto deficit/Pil inferiore a quello dei suoi partner europei . Purtroppo però è solo un gioco di specchi: le banche d'investimento comprano titoli italiani per mitigare il rischio dell'esposizione al ribasso su Portogallo e Spagna: sembra stiano seguendo un ordine ben preciso di vittime predestinate.
L'andamento della spesa pubblica e la diminuzione delle entrate fiscali non aiuta ad uscire dalla lista nera. Tremonti sa bene che gli scogli sono pericolosamente vicini e i passeggeri pare non sappiano neanche nuotare. Entro l'estate il governo dovrà infatti decidere quale segnale vorrà dare ai mercati e il ministro del Tesoro sta cercando di mitigare l'entità delle manovre da attuare nei prossimi anni con una grande svendita di immobili pubblici: come se una famiglia vendesse il proprio patrimonio per pagare le bollette. Se si considera che il patrimonio pubblico é la garanzia per il nostro debito, ben si comprende il perché non sia catastrofismo, ma realismo, il sostenere che l’Italia sia praticamente già alla canna del gas.
Basterà questo a calmare i mercati e a tenere unita la maggioranza del paese? Chi vivrà vedrà. Quello che è certo, però, è che la mancanza di trasparenza sui mercati avrà un prezzo in termini di compromessi da dover raggiungere tra forze politiche e sociali, in una gigantesca commedia degli errori in cui si dice che tutto va bene nello stesso tempo in cui si stringe la cinghia.
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di Luca Mazzucato
New York. La più grande banca d'affari americana è sotto inchiesta da qualche settimana per la madre di tutte le frodi. Il Senato americano ha rese pubbliche le email nelle quali i dirigenti della banca discutevano come fare il pacco e il doppio pacco ai loro investitori. Goldman Sachs avrebbe creato titoli tossici dai mutui spazzatura e, mentre con una mano li vendeva ai consumatori, con l'altra scommetteva sul loro crollo, guadagnando miliardi e facendo scoccare la scintilla della crisi. Le agenzie di rating erano parte integrante di quel sistema di corruzione.
Il santuario della finanza globale è oramai un fortino sotto assedio. L'accusa dell'autorità di vigilanza di Wall Street è estremamente grave perché cancella in un istante il mantra che ha fatto la fortuna di Goldman Sachs: “il cliente prima di tutto.” Un danno d'immagine difficile da recuperare, anche perché gli esperti del settore fanno capire che si tratta solo dell'inizio.
Finalmente si comincia a capire come facesse la banca d'affari a macinare utili quando tutto il mondo sprofondava insieme ai mutui subprime. “Ecco, con parole loro, Goldman Sachs mentre prende the big short, mentre scommette tutto contro il mercato dei mutui,” dice il Senatore Levin, presidente della commissione d'inchiesta del Senato USA che sta investigando sulle responsabilità delle banche nella crisi.
“Banche d'investimento come Goldman Sachs,” prosegue Levin, “non erano semplicemente i creatori del mercato dei mutui, ma anche i promotori di schemi che, mentre producevano utili per le banche, allo stesso tempo facevano esplodere la crisi. Hanno impacchettato mutui tossici all'interno di complessi strumenti finanziari, hanno ottenuto dalle agenzie di rating compiacenti il marchio AAA di totale affidabilità, li hanno venduti agli investitori, amplificando e allargando il rischio a tutto il mercato finanziario, tutto questo mentre scommettevano contro gli stessi titoli che vendevano, mietendo profitti alle spese dei loro clienti.”
Il Senato americano ha reso pubbliche le email scambiate tra i dirigenti della banca durante il periodo caldo del crollo dei mutui subprime nel 2007. Questa corrispondenza elettronica apre uno spaccato sul vero modus operandi del mondo della finanza, di cui Goldman è il santuario per eccellenza. Vediamo alcuni estratti delle conversazioni.
“Brutte notizie,” scrive un impiegato della Goldman il 17 Maggio 2007, quando un titolo che la Goldman aveva appena creato e venduto in calo fa perdere alla banca 2,5 milioni di dollari. La riposta del secondo impiegato è “Buone notizie... siamo protetti per 10 milioni... abbiamo guadagnato 5 milioni.” L'azienda ha preso 5 milioni scommettendo contro il titolo che aveva appena creato e venduto. In poche parole, la Goldman Sachs si assicurava (grazie all'AIG, il gigante assicurativo ora fallito proprio a causa di queste polizze stipulate con Goldman) contro il crollo dei titoli subprime che essa stessa vendeva.
Il 25 Luglio successivo, il capo delle operazioni della banca scrive di aver appena perso 322 milioni di dollari sui mutui residenziali – ma guadagnato 373 milioni scommettendo sul loro crollo. Venticinque minuti dopo la risposta del collega: “Questo ti mostra cosa sta succedendo a quelli che non hanno the big short,” ovvero quelli che non stavano scommettendo sul crollo dei mutui. Soltanto in quella transazione Goldman Sachs ha guadagnato 51 milioni di dollari. La voluminosa raccolta di tutte le email è aperta al pubblico sul sito del Senato americano.
La banca è sotto il doppio fuoco del Senato e della Security and Exchange Commission, che si gioca tutta la sua credibilità con questa inchiesta. I controllori devono far dimenticare di aver chiuso entrambi gli occhi per anni di fronte alle pratiche predatorie delle banche d'affari e soprattutto devono rifarsi della cantonata colossale presa con l'affare Bernie Madoff.
Il tempismo con cui è stata aperta l'inchiesta è favorevole all'Amministrazione Obama, che ha cominciato la discussione sulla riforma del sistema finanziario. Prima della Goldman Sachs, la fallita Lehman Brothers è stata passata ai raggi X e altre frodi finanziarie sono state portate alla ribalta delle cronache. La speranza è che queste inchieste servano a ricreare un momento favorevole alla riforma, che era altissimo nel 2008, all'apice della crisi, ma va scemando mentre l'economia americana riprende a viaggiare. Obama ha dichiarato che non firmerà la riforma se non conterrà regole precise per gli strumenti derivati.
Fa una certa impressione accorgersi come la Goldman Sachs abbia infiltrato il sistema politico e finanziario dell'intero pianeta. Solo alcuni esempi. In America, l'ultimo segretario del tesoro dell'Amministrazione Bush Hank Paulson e il precedente governatore del New Jersey Jon Corzine sono entrambi ex-amministratori delegati della banca. La Goldman Sachs è diretta responsabile, grazie ad un prestito, del disastro finanziario del governo greco e anche Romani Prodi si è rivolto alla banca americana durante il suo primo governo, per un enorme prestito ponte che ci permise di entrare nell'euro. Anche l'attuale governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha lavorato per Goldman per tre anni a partire dal 2002.
Secondo il premio Nobel per l'economia Paul Krugman, la parte più scandalosa delle email rese pubbliche riguarda non le banche ma le agenzie di rating Moody's e Standard & Poor's senza le quali niente di tutto questo sarebbe potuto accadere. Il 93% dei titoli finanziari, tutti basati sui mutui subprime, che ottennero nel 2006 il massimo dei voti, l'ambito AAA, sono stati declassati a titoli spazzature due anni dopo. Nelle email dei dipendenti delle agenzie di rating si ripete spesso la necessità di “massaggiare i subprime e i numeri AAA per mantenere le quote di mercato,” e “discutere criteri di aggiustamento” per decidere il valore di quei titoli “a causa della minaccia continua di perdere affari.” Un vero e proprio manuale su come falsificare il rating per massimizzare i profitti dei clienti delle agenzie.
Krugman, dalle pagine del New York Times, ha dichiarato che “una parte troppo grande della ricchezza e del talento degli Stati Uniti è stata usata per escogitare e vendere complessi sistemi finanziari – sistemi che hanno la tendenza a far saltare l'intera economia. Mettere fine questo stato di cose farà sicuramente male all'industria della finanza. E allora?”
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di Ilvio Pannullo
Lo si potrebbe definire il diario di un tracollo: quanto sta accadendo in questi giorni in Grecia pare infatti confermare gli scenari peggiori circa la possibilità per il governo di rifinanziare il proprio debito. Il mercato dei titoli di Stato della Grecia, molto semplicemente, non esiste più. I grossi investitori che vogliono vendere non trovano nessuno che voglia acquistare. E nessuno compra, nonostante la nuova manovra lacrime e sangue annunciata recentemente dal governo.
L’attuale situazione è il frutto di un accordo a livello europeo dissennato, che trasferisce ricchezza da Atene a Berlino e non viceversa. È il risultato di una politica europea dei paesi periferici (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia) che scompare di fronte alle obiezioni della Germania, vera potenza dominante all’interno dell’eurozona, a conferma che l’Unione Economica Monetaria altro non è se non una maschera a difesa degli interessi tedeschi.
Le affermazioni perentorie della Cancelliera tedesca Angela Merkel sulla necessità che alle inefficienze di un governo in campo economico debba seguire anche, se non soprattutto, una sanzione politica, sembrano infatti piegare anche Nicolas Sarkozy, indebolito dalle recenti elezioni regionali, dai sondaggi che lo descrivono in perenne calo di popolarità e, non ultimo, da inutili gossip.
Giovedì scorso, all'apice della crisi, il primo ministro greco George Papandreu ha chiamato il suo collega spagnolo Josè Luis Zapatero per convincerlo a chiamare il Presidente francese. Insieme hanno poi convinto la Merkel a mandare il direttore generale del ministero dell'economia tedesco ad un incontro "tecnico" a Bruxelles. Da quell'incontro è uscito fuori un pessimo accordo: tassi troppo alti per essere considerati dai mercati un aiuto e nessuna garanzia di pagamento ai detentori di Bond greci a più lunga scadenza.
In questa cornice, martedì 13 aprile la Grecia poteva collocare solo 1,2 miliardi di titoli a brevissima scadenza, ossia a sei mesi, massimo un anno, dalla data dell'emissione; titoli per lo più sottoscritti da banche greche. L’idea pare dunque quella di lavare i panni sporchi in casa, ma i numeri del deficit greco e la scarsa solidità patrimoniale del suo sistema bancario escludono che questa possa essere una soluzione per evitare il default.
Il mercato ha punito il pasticcio, riportando il rendimento dei titoli greci con scadenza 2012 al 6,5%. Una situazione - per l’appunto - da paese prossimo al crack finanziario. Stando così le cose, la Grecia non può pensare che una nuova emissione a lunga scadenza possa essere sottoscritta dagli investitori. Il rischio sarebbe quello di mandare deserta la vendita all’asta dei titoli, cristallizzando la totale mancanza di credibilità nelle istituzioni elleniche. La data salvifica pare essere quella del 10 maggio quando, passate le elezioni regionali tedesche, Angela Merkel potrebbe convincersi a elargizioni maggiori verso i partner europei più deboli. Ma l'ortodossia economica tedesca vuole che tutti paesi facciano i conti con i propri eccessi di spesa e di debito e, se necessario procedano ad una cura da cavallo per calmare i mercati.
I popoli del nord Europa, infatti, non sopportano di doversi far carico delle inefficienti capacità tecniche e gestionali del c.d. ClubMed, degli stati cioè rappresentativi del sud dell’Europa. La vicenda viene percepita dai tedeschi come paradigmatica: s’interpreta infatti come una chiusura ideologica il netto rifiuto tedesco al salvataggio dell’economia ellenica. Numeri alla mano, la crisi della Grecia potrebbe essere risolta molto rapidamente, rappresentando il Pil greco neanche l’1% dell’intero Pil europeo. Tuttavia passano i giorni e la situazione non accenna a migliorare, perché le posizioni politiche rimangono le medesime.
Manca una vera volontà da parte di Francia e Germania di salvare la Grecia, essendo la situazione contingente letta con una chiave interpretativa culturale prima che economica. Semplicemente non si ritiene ammissibile che la cicala scialacquatrice trovi conforto alla mensa della parsimoniosa formica. E questo anche se dalla morte della cicala potrebbe derivare un forte pregiudizio per la stessa sopravvivenza della formica.
L'ombra della Grecia offusca infatti il futuro dell’intera ripresa europea. A lanciare l'allarme è il Fondo Monetario Internazionale secondo cui "l'Europa sta uscendo dalla recessione più lentamente di altre regioni" e ci sono "varie forze che frenano la ripresa". Tra queste, una di rilievo è la Grecia. La "sfida chiave" sarà dunque quella di prevedere "piani di consolidamento credibili". Nell'ultima bozza del World Economic Outlook, si legge che nel Vecchio Continente le prospettive di ripresa variano considerevolmente da paese a paese. "Un sostanziale stimolo macroeconomico ha sostenuto la ripresa nei paesi avanzati dell'Europa, anche se la domanda privata non si è ancora solidificata. Al tempo stesso, ampi squilibri di bilancio minacciano la ripresa in alcuni paesi più piccoli, con potenziali effetti dannosi per il resto della regione". "Certamente - mette in guardia il Fmi - i timori per la solvibilità del debito sovrano e per la liquidità della Grecia (e per i possibili effetti di contagio in altri paesi vulnerabili dell'area euro) hanno minacciato la normalizzazione dei mercati finanziari".
I mercati temono infatti, secondo il Fmi, che i problemi d’insolvenza di Atene si traducano in una vera e propria crisi del debito sovrano, che porterebbe a casi di contagio. Proprio per questo "sarà molto importante che le autorità greche ristabiliscano la credibilità della loro politica fiscale e che le autorità europee assicurino che la paura per la situazione greca non porti a un'instabilità finanziaria o a ripercussioni significative sui bilanci e sulle banche in Europa". La ripresa, secondo il Fmi, sarà dunque "graduale e diseguale" tra i paesi di Eurolandia.
Se non intervengono investimenti politici, investimenti cioè assolutamente impensabili perché fuori da una logica strettamente economica, la Grecia non riuscirà rifinanziare il suo debito sui mercati e utilizzerà la linea di credito messa a disposizione dall'Europa molto presto. A quel punto chi detiene i Bond greci non resterà che sperare che i debiti pregressi vengano pagati, anche se magari in un futuro lontano.
Ma il mercato ha già scelto le sue prossime vittime: Portogallo e Spagna. Il rendimento dei Bond a due anni di Lisbona sono al 1% sull’Euribor; Madrid invece iniziò ad avvertire il pericolo da quando le grandi banche e gli Hedge Funds americani hanno iniziato a vendere allo scoperto i titoli spagnoli. Le banche private spagnole continuano a comprare titoli del governo di Madrid controbilanciando l'offerta, ma questa strategia non potrà durare in eterno. L'articolo apparso il 15 aprile sul Sole24ore, che indicava la Spagna come prossima vittima dell’insicurezza dei mercati ha poi convinto molti gestori di fondi italiani a non acquistare.
Si attende dunque un segnale dalla Germania, dall'Europa o da entrambe, che rassicuri sul fatto che la situazione sia migliore di come la dipingono gli economisti più accreditati e i giornali di settore. La gestione della finanza europea appare sempre più un deserto senza leader in cui ognuno tira acqua al proprio mulino non capendo che il fiume rischia di prosciugarsi. Delle due l’una: o l’Europa saprà costruire un coerente e credibile governo politico della propria economia o, se lo scenario futuro è quello di un’Eurozona che cresce di un misero 1% per i prossimi dieci anni, a causa di una vera e propria crisi del debito sovrano, l’intero progetto politico di una Comunità Europea federale, iniziato con la firma dei trattati di Roma il 25 marzo del 1957, rischia di collassare.
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di Michele Paris
All’indomani dell’esplosione della crisi finanziaria, nell’autunno del 2008, la banca d’affari Goldman Sachs diventò immediatamente - e a ragione - il simbolo delle pratiche speculative e dell’avidità di Wall Street che stavano per condurre l’economia americana sull’orlo del baratro. A macchiare ulteriormente l’immagine del colosso, fondato nel 1869 dall’immigrato tedesco Marcus Goldman, e a provocare una nuova ondata di rabbia tra i cittadini comuni colpiti dalla crisi, è giunto qualche giorno fa l’annuncio di una causa civile per “condotta fraudolenta” avviata dalla Commissione per i Titoli e gli Scambi (Securities and Exchange Commission, S.E.C.), l’ente governativo incaricato di vigilare sulle attività della borsa statunitense.
Secondo la S.E.C., nell’aprile del 2007 Goldman Sachs avrebbe ricevuto un input da parte del banchiere d’affari John Paulson per predisporre un pacchetto di CDO (collateralized debt obligation), obbligazioni ad alto rischio che hanno un debito come garanzia, costituito da mutui sub-prime. Il prodotto finanziario in questione, chiamato ABACUS 2007-AC1, era stato venduto ai clienti di Goldman nonostante fosse ben noto ai suoi dirigenti che fosse destinato a crollare di lì a poco. Scommettendo sulla caduta dello stesso titolo, Goldman Sachs e Paulson riuscirono ad incassare profitti enormi al momento dell’esplosione della bolla finanziaria.
A confondere gli investitori ci si sarebbero messe anche le ben note agenzie di rating Moody’s e Standard & Poor, le quali (verosimilmente dietro pressioni di Goldman Sachs) avrebbero attribuito al titolo la tripla A, stimandolo così come un investimento con rischio praticamente pari a zero. Le perdite per gli investitori sono alla fine ammontate complessivamente a un miliardo di dollari, anche se la transazione relativa ai titoli ABACUS faceva parte di una serie di titoli dello stesso genere - almeno 25 a detta della S.E.C. - del valore di quasi 11 miliardi.
Come se non bastasse, il gigante delle assicurazioni A.I.G., salvato dal collasso grazie a qualcosa come 180 miliardi di dollari provenienti dalle casse pubbliche, aveva garantito i titoli ABACUS emessi da Goldman Sachs per 6 miliardi. Una polizza molto gravosa per A.I.G che dichiarò per questa operazione una perdita di 2 miliardi al momento dell’intervento di salvataggio del governo federale. Un coinvolgimento di denaro pubblico che ha spinto due deputati democratici a chiedere un’indagine più approfondita sulle pratiche di Goldman Sachs.
Per quanto questa condotta possa risultare a dir poco riprovevole, essa risulta in gran parte legale. L’indagine federale, infatti, non verte sulla vendita in sé dei titoli sul cui tracollo la banca aveva scommesso per ottenere profitti, bensì sulla creazione deliberata di un prodotto finanziario destinato a crollare per poter appunto raccogliere i conseguenti profitti. Come hanno rivelato svariate indagini dei media d’oltreoceano, d’altra parte, Goldman Sachs non appare l’unica istituzione finanziaria distintasi per tali manovre. Molte altre banche d’investimenti di Wall Street nel corso del boom immobiliare avevano predisposto titoli-spazzatura che, una volta, precipitati hanno consentito ad hedge funds (fondi speculativi) ad esse collegati di portare a casa miliardi di dollari.
La vicenda in corso negli Stati Uniti permette in ogni caso di gettare uno sguardo piuttosto approfondito su di un sistema finanziario distorto, fondato su pratiche speculative al limite della criminalità che hanno causato la più grave crisi economica mondiale dal secondo dopoguerra. La gigantesca truffa legalizzata, permessa dal progressivo allentamento dei vincoli normativi istituiti con il New Deal, che avevano garantito uno sviluppo economico relativamente stabile fino agli anni Ottanta, ha prodotto devastanti conseguenze sociali per le quali hanno sofferto e continuano a soffrire decine di milioni di cittadini americani che hanno perso casa, lavoro, risparmi o copertura sanitaria.
Se pure, come appare evidente, i vertici di Goldman Sachs e degli hedge funds coinvolti nella truffa erano a conoscenza dei sistemi adottati per ingannare gli investitori, l’indagine federale per ora non ha toccato nessun top manager. Nemmeno nominati nei documenti dell’inchiesta sono, ad esempio, l’amministratore delegato di Goldman, Lloyd Blankfein - beneficiario di un compenso di circa 100 milioni di dollari nel 2007 - o lo stesso architetto dell’operazione ABACUS, John Paulson, la cui compagnia ha riscosso quasi 3 miliardi di dollari nel 2007 e 2 miliardi nell’anno successivo, quando la crisi sarebbe scoppiata in tutta la sua gravità.
Immediatamente dopo l’apertura della causa ai danni di Goldman Sachs negli USA, i governi di Gran Bretagna e Germania hanno fatto sapere di volere a loro volta intraprendere azioni legali. The Royal Bank of Scotland e IKB Industriebank, entrambe salvate dal fallimento dai rispettivi governi, avevano infatti anch’esse subito pesanti perdite - circa un miliardo di dollari - in seguito all’acquisto dei titoli ABACUS originati dalla banca d’affari di Wall Street.
Le polemiche che imperversano negli Stati Uniti in questi giorni attorno a Goldman Sachs, intanto, stanno già per essere sfruttate negli ambienti politici, soprattutto democratici, in vista della stretta finale al Senato sulla riforma del sistema finanziario. Alla legge che la Camera dei Rappresentanti aveva approvato lo scorso anno si oppone in maniera pressoché totale l’opposizione repubblicana, per scalfire la quale viene allora strumentalizzata l’irritazione diffusa tra i cittadini americani nei confronti degli ambienti bancari. Per Obama e la sua amministrazione, l’intera vicenda appare insomma come una ghiotta occasione per incassare un secondo successo legislativo, dopo la recente approvazione della riforma sanitaria, nonostante la legge in discussione risulti ben lontana dal creare una regolamentazione efficace del sistema finanziario.
Per quanto riguarda il procedimento avviato dalla S.E.C., invece, molto difficilmente ci saranno conseguenze significative. Come già anticipato, i piani alti di Goldman Sachs non verranno sfiorati dall’inchiesta, la quale si risolverà, nella migliore delle ipotesi, in una multa di qualche milione di dollari, un importo irrisorio per una compagnia che ha fatto segnare utili per oltre 13 miliardi nel solo 2009. I legami di Goldman Sachs con la politica di Washington, e con la stessa Casa Bianca, sono d’altronde ben documentati. Un legame talmente saldo, al di là di qualche polemica pubblica, che garantirà a Wall Street di continuare a fare affari con ben pochi vincoli o regolamentazioni e senza dover rendere conto dei propri eccessi.
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di Ilvio Pannullo
Mentre dall’altra parte dell’Atlantico già si parla di primi, timidi segnali di ripresa, nella vecchia Europa si continua a navigare a vista, nel mare delle conseguenze portate in dote dalla crisi. Negli Stati Uniti l’aumento dell’8% della compravendita di abitazioni - il migliore risultato da tre anni - e l’incremento di fatturato che le società di servizi stanno registrando, in percentuali che non ricordavano dal lontano 2001, fanno ben sperare. Anche l’occupazione cresce: ultimamente si sono registrati qualcosa più di 100 mila nuovi posti di lavoro.
Ovviamente non è molto rispetto al totale di quanti il lavoro l’hanno perso o continuano ad arrancare facendo lavori occasionali e sottopagati, ma è certamente un segnale di inversione di tendenza. Il presidente Obama, infatti, ha usato quest’ultimo dato per indicare la classica luce in fondo al tunnel, la metafora di una situazione ancora drammatica ma prossima alla fine. Anche se, volendo essere realisti, confrontando queste speranze con i dati macroeconomici da sempre legati all’analisi dell’economia americana, si potrebbe interpretarli più coerentemente come una boccata di ossigeno che salva dall’ipossia, piuttosto che il segno di una nuova fase di espansione economica. Più grave è la situazione dell’Europa.
Purtroppo per noi, infatti, le cose al di qua dell’oceano non lasciano neanche la speranza di poter, un giorno, tornare a sperare. In questi ultimi giorni stampa e televisioni “scoprono” improvvisamente ciò che si poteva agevolmente pronosticare oltre un anno fa. L’economia italiana, seconda solo a quella greca, è la peggiore dei paesi dell'Eurozona. L'inceppato meccanismo produttivo non riesce a sbloccarsi, “si è arenato soprattutto il Made in Italy”, ed arretra anche l’industria del turismo.
Rispetto ai numeri degli anni passati, solo fra i nostri connazionali oltre sei milioni hanno saltato la villeggiatura. Alla crisi dell’apparato produttivo si accoda pesantemente dunque anche quella del settore turistico con contrazioni ancora più marcate nei flussi esteri. La dubbia e timidissima ripresa economica che si cerca ora di accreditare ad ogni costo e strombazzata a ogni stormir di fronda, per ammissione delle stesse fonti ufficiali risulta in ogni caso molto al di sotto di quella avviata nei Paesi europei nostri concorrenti e questo contribuisce ancor più a divaricare la forbice delle rispettive velocità economiche.
In questi ultimi anni i blasonati economisti sia di area governativa che d'opposizione hanno fatto dunque cilecca. La progressiva rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro, la sistematica e prolungata riduzione del TUS americano - che ha preceduto di molto quella dell'Euro - la sistematica riduzione della circolazione monetaria nel mercato nazionale interno e nel pur vasto mercato europeo, la forsennata liberalizzazione dei mercati internazionali, doveva far comprendere immediatamente ai nostri fini politici e ai loro brillanti consiglieri economici, che il nostro paese sarebbe stato esposto ad una pressione costante e crescente, che non sarà in grado di sopportare ancora per molto.
Gli effetti di questa terapia, si sono infatti puntualmente verificati: improvvisa perdita di competitività sui mercati internazionali, Made in Italy in particolare, crollo dei flussi turistici internazionali, fuga delle aziende produttive dal nostro territorio. La manovra è stata assecondata con il fattivo apporto della BCE, l'unica ad avere competenza e capacità decisionali in materia monetaria a causa dell'insipienza/connivenza delle forze politiche europee e nostrane, colposamente responsabili della sottoscrizione del trattato di Maastricht. In questo scenario le aziende vanno, si de-localizzano, si trasferiscono all’estero e le nostre maestranze restano a guardare, a casa.
Il tutto in silenzio assordante da parte di associazioni di categoria, sindacati, partiti di governo e d'opposizione: nessuno deve parlare o affrontare simili spiacevoli argomenti. Le schiene incurvate dei media sono ovviamente allineate su queste posizioni. Il motivo ufficiale e ricorrente è, come al solito, solo quello economico: abbattere i costi con ogni mezzo per essere competitivi. Tutto risulta lecito: sacrificare per continuare a far incassare ai banchieri il pizzo sugli artificiosi indebitamenti, sia pubblici che privati, e le loro tangenti imposte al mercato su ogni movimento e su tutte le operazioni bancarie, divenute tra le più care al mondo. Disperazione per perdita di posti di lavoro, fallimenti a catena, suicidi per insolvenza, sono solo considerazioni fastidiose e conseguenze fisiologiche necessarie per fare avanzare globalizzazione e omologazione a tutti i costi. Dobbiamo essere tutti uguali, come in nuova visione, più eccentrica e sottile, dell’egualitarismo sovietico, ma del tutto priva di poesia e di speranza.
Pensare al futuro dell’Italia, potendo peraltro osservare quanto accade alla vicina Grecia, aggiunge nubi ad uno scenario già di per sé già tetro. Come già scritto precedentemente, osservare la Grecia di oggi aiuterà a capire l’Italia di domani, vista l’identità dei problemi e la triste somiglianza delle stesse soluzioni utilizzate. Pare, infatti, che alla fine l'Europa troverà un accordo su come salvare la Grecia dalla bancarotta. Anche se le istituzioni comunitarie continuano a muoversi in ordine sparso, con la sola Germania fare da guida.
Il consiglio europeo del 25 marzo, dove si sono riuniti i capi di Stato e di governo dei paesi membri (tra cui anche Silvio Berlusconi), ha raggiunto l'intesa su una bozza di piano di salvataggio. Si parla di un pacchetto di aiuti da 23 miliardi di Euro che dovrebbero prendere la forma di "prestiti bilaterali coordinati involontari" e a tasso agevolato (cioè da uno stato all'altro, senza mediazione comunitaria e senza alcun obbligo). Un piano di emergenza pronta scattare nel caso le aste del debito pubblico greco previste per maggio andassero deserte. Meno chiaro è cosa succederà se il governo di Atene fallisse nel tentativo di imporre un dimagrimento del deficit dal 12 all'8% in un anno che sta già causando tensioni sociali difficili da gestire.
Tutto a posto, quindi? Per nulla. Perché l'ipotesi che nel salvataggio sia coinvolto il Fondo Monetario Internazionale - istituzione considerata di matrice americana, anche se diretta da un francese - ha fatto perdere a Jean-Claude Trichet il suo abituale aplomb da presidente della Banca centrale europea. Il ricorso alla FMI, dice Trichet, è "molto, molto negativo". Sottinteso: la Banca Centrale Europea ha già dimostrato di saper gestire le crisi interne all'eurozona e può essere più efficace degli americani, per esempio annunciando (come ha recentemente affermato pubblicamente) che continuerà ad accettare come garanzia i declassati titoli del debito greco.
Ma questa non è la sola cosa che ha fatto infuriare Trichet. Non è una sorpresa che la cancelleria tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy abbiano ipotizzato di trasformare il consiglio europeo in un "governo economico" dell'Unione, che eserciti un ruolo maggiore nella "sorveglianza economica". Adesso però l’idea viene ripresa anche da altri - non ultimo il nostro Giuliano Amato - e la cosa certo non fa piacere al comandante in capo del Sistema Europeo di Banche Centrali. Una simile iniziativa significa, infatti, quasi soltanto maggiori pressioni sulla BCE, che vedrà ridursi il proprio spazio di autonomia, visto che per ora non c'è alcuna intenzione di elevare a livello europeo la politica fiscale o emettere quegli euroBond, titoli di debito europeo, che da anni invoca il ministro Giulio Tremonti.
Rimane quindi la speranza che da questa crisi esca un Europa più politica e più coordinata nella gestione del governo dell’economia, più forte dunque nell’affermare la propria voce sui desiderata dei banchieri. Forse è vero che non tutti i mali vengono per nuocere.