di Ilvio Pannullo

Ogni volta che gliene viene data la possibilità, il Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è pronto nel ribadire quanto grande sia stata l’abilità del governo nel gestire la crisi, ancora molto lontana dall’essersi conclusa. In effetti al Ministro spetta il riconoscimento del merito di aver impedito un peggioramento eccessivo dei nostri saldi di finanza pubblica, garantendone livelli meno problematici rispetto a diversi paesi europei che aderiscono alla moneta unica. E poiché paesi solitamente più virtuosi di noi nei conti pubblici ne hanno accettato un consistente deterioramento per affrontare la crisi, l'Italia, che non l’ha fatto, è riuscita a trasformarsi in un paese, almeno in termini relativi - o semplicemente statistici se si è amanti della precisione - virtuoso. Ma da qui a sostenere che i nostri problemi di finanza pubblica siano scomparsi o che siano stati notevolmente attenuati vi è un gran salto; semplicemente si notano di meno in un mondo rapidamente peggiorato nei suoi conti pubblici.

Il presidente della Banca Centrale Europea, Trichet, insieme al Financial Times e ai mercati finanziari internazionali hanno, o per il momento fingono di avere, una buona opinione della finanza pubblica italiana perché, osservandola attraverso gli occhiali del trattato di Maastricht, guardano ai saldi di bilancio in rapporto al Pil e non alle grandezze che quei saldi li determinano, senza cioè osservare entrate e spesa pubblica in rapporto al prodotto interno lordo, per avere un'idea sicuramente più chiara delle dinamiche economiche che interessano il nostro paese.

Lo farebbero, se fosse nel loro interesse analizzare più compiutamente lo stato della nostra economia, ma non lo fanno semplicemente perché in questo periodo sono altri i problemi, Grecia in testa. Dal punto di vista del disavanzo pubblico rispetto al Pil - ossia la differenza tra quanto si è speso e quanto si è prodotto - l'Italia nel 2009 è andata meglio della media dell'area Euro e si è tenuta molto distante dai valori di paesi in cui il deficit è letteralmente esploso come la Grecia, l’Irlanda, la Spagna; e, fuori dall'area Euro, la Gran Bretagna. Il nostro rapporto deficit/Pil é infatti solo raddoppiato nel 2009 rispetto al 2008, passando dal 2,7% al 5,3% mentre nell'intera area Euro è più che triplicato, passando dal 2% al 6,2%, e si colloca ora un punto di Pil al di sopra del valore italiano.

È esattamente questo differenziale che ci sta coprendo rispetto alla speculazione internazionale, notoriamente aggressiva con chi versa in posizione di maggior debolezza. Le istituzioni economiche europee sembrano, inoltre, non dare grande peso all'altro rilevante parametro di finanza pubblica alla base del trattato di Maastricht, cioè il rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo. L'Italia, che ha il terzo maggiore debito pubblico del mondo, senza avere contemporaneamente la terza economia del mondo, (come giustamente ricorda ogniqualvolta gli si chieda conto di qualcosa il Ministro Tremonti) detiene anche il record del peggior rapporto europeo debito/Pil, battendo persino la Grecia. Ma sino a quando riuscirà a tenere il suo rapporto deficit/Pil tra quello dei paesi virtuosi, e s’impegnerà nei prossimi anni a migliorarlo più rapidamente degli altri, nessuno farà troppe storie.

Tutto da vedere se vi riuscirà o meno e, per valutarlo, è necessario per l’appunto estendere l'analisi dal deficit alle due grandezze che lo determinano, la spesa e le entrate pubbliche. In relazione ad esse le dinamiche sono tuttavia molto sfavorevoli: nel 2009, anno di profonda recessione, la spesa pubblica complessiva ha nettamente sforato il valore del 50% rispetto al Pil, anzi ha quasi toccato il 52%, più di tre punti percentuali al di sopra del dato del 2008 e questo nonostante il risparmio di mezzo punto  conseguito alla voce degli interessi sul debito. Si tratta del valore europeo più elevato dopo quello dei paesi che hanno rilevanti ed efficienti sistemi di welfare, come la Svezia e la Danimarca.

Indicativo è anche il fatto che, per ritrovare indietro nel tempo un dato simile, bisogna tornare al 1996. Ma in quell'anno, se togliamo dalla spesa pubblica la voce degli interessi sul debito, che pesò allora per 11,5 punti di Pil trattandosi ancora della vecchia lira, se guardiamo quindi alla spesa pubblica primaria, scendiamo ad un valore pari solo al 41%. Se ripetiamo l'operazione del 2009 e togliamo i 4,6 punti di spesa per interessi sul debito, scendiamo invece poco al di sotto del 48%, un valore di quasi sette punti più elevato rispetto a quello del 1996.

Nelle cifre precedenti sta tutto il dramma della nostra spesa pubblica: al netto degli interessi è la più elevata in rapporto al Pil mai raggiunta nella storia d'Italia; inoltre tutto il risparmio conseguito attraverso il cosiddetto "dividendo di Maastricht", cioè il vantaggio derivante dalla conversione degli alti tassi di interesse che gravano sul debito espresso in lire rispetto i bassi tassi del debito espresso in una valuta forte quale è l’Euro, è stato interamente dilapidato. Dal 1996 al 2009 abbiamo risparmiato grazie all'Euro sette punti di Pil di spesa per interessi, ma nonostante tutto i vari governi che si sono succeduti sono riusciti nel miracolo di rendere un simile vantaggio invisibile agli occhi dei cittadini, che dall’introduzione dell’euro hanno ricavato solo una pesantissima perdita di potere d’acquisto.

A parità di pressione fiscale avremmo potuto portare il bilancio pubblico in attivo, oppure avremmo potuto migliorare il disavanzo e ridurre le tasse; invece abbiamo integralmente utilizzato il beneficio per spendere di più sull'insieme delle altre voci. Cosa accadrà quando i tassi di interesse, e con essi il costo del debito, riprenderanno a salire dagli attuali bassissimi valori, è facile immaginarlo.

In questo scenario la Banca d'Italia ha recentemente sancito che il debito italiano è aumentato di 15 miliardi nei primi due mesi dell'anno, mentre le entrate fiscali sono in diminuzione. Nella disperazione generale (negata per ordine di scuderia) si fa filtrare la notizia che l'agenzia delle entrate sta per acquisire una lista di 10.000 nomi di depositari italiani che hanno conti bancari in Svizzera; questi evasori potranno avvalersi dello scudo fiscale pagando un'aliquota del 7% prima che il fisco metta loro le mani addosso. Attilio Befera, direttore generale dell’Agenzia, deve aver pensato: "Meglio pochi maledetti e subito". E, se sono preoccupati, un motivo ci sarà.

Il quadro generale dell’eurozona è infatti decisamente fosco, ma nonostante tutto l'Italia pensa di essere al sicuro con il suo rapporto deficit/Pil inferiore a quello dei suoi partner europei . Purtroppo però è solo un gioco di specchi: le banche d'investimento comprano titoli italiani per mitigare il rischio dell'esposizione al ribasso su Portogallo e Spagna: sembra stiano seguendo un ordine ben preciso di vittime predestinate.

L'andamento della spesa pubblica e la diminuzione delle entrate fiscali non aiuta ad uscire dalla lista nera. Tremonti sa bene che gli scogli sono pericolosamente vicini e i passeggeri pare non sappiano neanche nuotare. Entro l'estate il governo dovrà infatti decidere quale segnale vorrà dare ai mercati e il ministro del Tesoro sta cercando di mitigare l'entità delle manovre da attuare nei prossimi anni con una grande svendita di immobili pubblici: come se una famiglia vendesse il proprio patrimonio per pagare le bollette. Se si considera che il patrimonio pubblico é la garanzia per il nostro debito, ben si comprende il perché non sia catastrofismo, ma realismo, il sostenere che l’Italia sia praticamente già alla canna del gas.

Basterà questo a calmare i mercati e a tenere unita la maggioranza del paese? Chi vivrà vedrà.  Quello che è certo, però, è che la mancanza di trasparenza sui mercati avrà un prezzo in termini di compromessi da dover raggiungere tra forze politiche e sociali, in una gigantesca commedia degli errori in cui si dice che tutto va bene nello stesso tempo in cui si stringe la cinghia.

 

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