di Mario Braconi

Come scrive nel suo op-ed sul New York Times, Bethany Mc. Lean, collaboratrice di Vanity Fair USA e Fortune ed esperta del caso Enron, a provocare la spaventosa crisi globale non fu una serie di sfortunate circostanze, quanto piuttosto la condotta apertamente criminale di diversi attori del mercato finanziario. In complice sequenza ci sono le banche, la Federal reserve e il Congresso USA.

Le prime hanno venduto immondizia facendola pagare per oro; i “garanti”, applicati nel formidabile gioco di pompare profitti a breve, assumendo rischi che non erano in grado di coprire (e che spesso non erano nemmeno in grado di stimare). Poi la Federal Reserve, colpevole di non aver spento l'euforia creditizia; quindi il Congresso, che non ha mai  legiferato seriamente sui derivati oltre ad aver alimentato in tutti i cittadini, anche in chi mai avrebbe mai potuto permettersela, la speranza di poter avere una casa di proprietà. E, naturalmente, le agenzie di rating, che hanno benedetto con bollini di eccellenza investimenti chiaramente destinati a fallire.

Se si escludono la recente azione della SEC contro Goldman Sachs e l'indagine lanciata dal procuratore generale di New York, Andrew Cuomo, contro otto banche (Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank, Crédit Agricole e Merrill Lynch), fino a poco fa l'unica azione penale contro manager di banche d'affari coinvolte nella crisi finanziaria è stata quella a carico di Ralph Cioffi e di Matthew Tannin, trader della Bear Stearns, fallita ed acquistata da JP Morgan grazie ad un sostanziale contributo governativo - i quali peraltro sono andati assolti a novembre dello scorso anno. Mentre la SEC sta analizzando i rapporti (perversi) tra originator e clienti dei titoli tossici, Cuomo si sta concentrando sulle interazioni (altrettanto inquietanti) tra banche e agenzie di rating.

Già nell'ottobre del 2008, nel corso delle audizioni davanti al Comitato governativo per la Vigilanza e la Riforma (dei mercati finanziari) erano stati resi pubblici edificanti documenti interni delle rating agency: illuminante in tal senso lo scambio di SMS tra due funzionari di Standard & Poor's: "A proposito, quell'emissione è ridicola", scrive uno - "lo so bene, non c'è dubbio che il nostro modello a malapena cattura la metà del rischio reale", risponde l’altro. E ancora: "Non dovremmo emettere il rating", "noi emettiamo rating su qualsiasi operazione. Potrebbero anche essere delle vacche a strutturarlo, noi il rating glielo diamo".

Utile anche prendere atto di quello che Chris Meyer, responsabile del settore CDO (Collateralized Debt Obligation), pensava dei prodotti cui la sua azienda assegnava il massimo dei voti. "Le agenzie di rating contribuiscono alla creazione di un nuovo mostro, il mercato dei CDO. Speriamo di essere tutti ricchi ed in pensione quando questo castello di carte crollerà". A testimonianza del fatto che le agenzie erano di fatto assediate, basta leggere la mail che il capo dei Rischi della società inviò all'amministratore delegato di Moody’s Raymond McDaniel nell’ottobre del 2007: "Gli analisti e i direttori sono continuamente tampinati da banchieri, emittenti e investitori - tutti con argomenti ragionevoli - le cui opinioni finiscono per influire sulle valutazioni, qualche volta in positivo, talora in negativo".

Come spiega Salomon Hughes, sul quotidiano socialista britannico, Morning Star, McDaniel voleva dire che le agenzie erano le “cocche” delle banche. E poiché sono banche a pagare le commissioni, se esse desiderano un buono (o un cattivo) rating, c’è da scommettere che lo otterranno.

L'intreccio perverso banche-agenzie di rating era noto da tempo, tanto è vero che a giugno del 2008, queste ultime erano state costrette a siglare con Cuomo un accordo che prevedeva: un meccanismo per impedire il conflitto di interesse causato dal fatto di fare profitti fatturando gli stessi soggetti valutati (pagamento delle fee in quattro rate e non solo a valutazione completata); l'obbligo per gli emittenti di titoli di rendere noto se avessero chiesto il rating a qualche altra agenzia senza poi utilizzarlo (cosa che avrebbe dovuto evitare che l'emittente facesse shopping tra le rating agency per poi rendere nota solo la valutazione più benevola); la pubblicazione online delle metodologie di valutazione del debitore ceduto.

La prima misura si è rivelata inutile, la terza controproducente. Infatti, rendendo pubblico il metodo con cui viene effettuata la valutazione, le agenzie di rating hanno finito per offrire ai banchieri d'affari uno strumento per assemblare, lavorando a ritroso, portafogli formalmente in linea con i requisiti necessari ad ottenere un "top notch" (AAA), anche se infarciti di elementi tossici: la versione finanziaria della proverbiale situazione di “operazione perfettamente riuscita ma paziente deceduto.”

Non solo: i modelli delle agenzie di rating erano basati su ipotesi ridicole e dogmatiche, tra cui la fede incondizionata nelle magnifiche sorti e progressive del mercato immobiliare e la credenza, altrettanto ridicola, secondo cui il fatto che i debitori ceduti provenissero da aree diverse del paese diversificasse il rischio in modo tale da evitare guai. Ma alle banche non bastava essere prese per mano dalle agenzie di rating e condotte a confezionare in scatole luccicanti l'immondizia che raccoglievano al solo scopo di scommetterci contro: volevano stringere nei loro tentacoli dorati attorno al capitale umano delle agenzie.

Le banche finite sotto lo scrutinio di Cuomo ad un certo punto hanno cominciato ad assumere uomini delle rating agency: portando in casa il know-how e il canale privilegiato con i loro ex colleghi, la possibilità di truffare il mercato aveva come unici limiti quelli imposti dalla fantasia degli "ingeneri finanziari". Come al solito, la palma criminale spetta a Goldman: nel febbraio del 2005, quando la banca d'affari stava ideando un nuovo CDO (Collateralized Debt Obligation) altamente strutturato, Shin Yukawa, un manager della Fitch, partecipò ad un convegno moderato da un dipendente Goldman Sachs, Jonathan M. Egol. Il mese successivo, Yukava era già stato assunto da Goldman Sachs, dove, come raccontano i documenti interni della banca, ha dato un contributo determinante alla costruzione di Abacus 2007-AC1, forse il capolavoro della banca d'affari americana.

Abacus era un CDO (obbligazione basata su un'attività sottostante): il riferimento dello strumento non erano mutui "impacchettati", ma un portafoglio di Credit Default Swap (contratti assicurativi contro il fallimento) su strumenti strutturati. Tra il 2004 e il 2008 Goldman Sachs ha effettuato ben 25 emissioni di Abacus, per un totale di quasi 11 miliardi di dollari, consentendo agli investitori di scommettere sul rialzo o il ribasso del mercato immobiliare: chi era lungo (aveva comprato) titoli Abacus avrebbe realizzato perdite in caso di caduta dei valori immobiliari e viceversa.

Di solito Goldman si dava da fare per mandare lunghi i clienti su Abacus, tenendo le posizioni corte per sé e per alcuni amici fidati: John Paulson, fondatore della Paulson & Company, il fondo Magnetar e il fondo di George Soros. Abacus era una bella macchina per fare profitti sul crollo del mercato immobiliare, al punto che nel 2007 e nel 2008, con il collasso dei subprime aveva cominciato a macinare profitti per Goldman e per i suoi colleghi speculatori globali.

Ma l'apoteosi si ebbe quando Fabrice Tourre (giovane dirigente francese della Goldman londinese) costruì Abacus 2007-AC1, un prodotto di fatto strutturato da Paulson, anche se i documenti ufficiali sostenevano che fosse una società indipendente, la ACA Management LLC a scegliere i titoli. In breve, secondo la ricostruzione della SEC, Paulson pagò 15 milioni di dollari alla Goldman per la strutturazione di Abacus 2007-AC1, costruito su derivati su titoli strutturati quasi tutti downgradati nel giro di due anni dalla sua istituzione. Un buon investimento, a giudicare dei risultati: 1 miliardo di perdite per gli investitori di Abacus 2007-AC1 e un miliardo di utili per Paulson, il quale, guarda caso, era anche lo strutturatore.

Si noti come le rating agency, così generose con gli amici delle banche (ed in particolare di Goldman Sachs), si sono rivelate inflessibili quando si è trattato di declassare il debito della Grecia a "junk" (spazzatura): alla luce degli standard tecnici e morali da esse dimostrate in questi anni terribili per il capitalismo finanziario, la decisione della BCE di ignorare il downgrading, di fatto riducendo all'irrilevanza le agenzie di rating, sembra un passo nella giusta direzione.

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