di Giuliano Luongo

Tutte le istituzioni internazionali, di livello più o meno alto, dalla maggiore o dalla minore consacrazione governativa, condividono una caratteristica peculiare: la rigidità, la scarsa adattabilità alle nuove sfide che si frappongono tra l’istituzione in questione ed i suoi scopi. Strano a dirsi, proprio il Fondo Monetario Internazionale, una di quelle meno reattive alle esigenze dei paesi che dovrebbe aiutare, ha recentemente cercato di invertire questo trend, almeno sulla carta, accettando la proposta di modifica dei poteri di voto all’interno della sua principale sede decisionale, l’Executive Board.

Il processo che pochi giorni fa è arrivato a questa tappa fondamentale è stato lungo e spesso apparentemente senza vere e proprie speranze. Il Fondo, erede della vecchia sovrastruttura del sistema di Bretton Woods, sentiva il bisogno di un cambiamento nei rapporti di forza interna da tempo immemore, a partire dal crollo del sistema che l’aveva visto nascere nel lontano 1976.

Sin dall’anno della sua istituzione, l’ancor più lontano 1944 (iniziò i lavori ufficialmente a dicembre ’45), il Fondo prende le sue decisioni tramite il citato Executive Board, composto da 24 membri, di cui cinque nominati dai cinque paesi membri con le quote di partecipazione più cospicue ed i restanti nominati dall’altro organo decisionale, il Consiglio dei Governatori, composto dai rappresentanti di tutti i paesi membri.

Per comprendere le dinamiche interne al Fondo, si ricordi che le decisioni vengono prese esclusivamente a maggioranza molto elevata (di solito all’85%) e che il voto è ponderato in base alla quota versata per la partecipazione all’organizzazione. In breve, decide il più “generoso”, che casualmente è anche il più ricco, che ancor più casualmente sono gli Stati Uniti. Il gruppo dei “grandi cinque” è stato sempre composto, accanto agli americani, da Francia, Gran Bretagna, Giappone e Germania: viste le quote, gli Stati Uniti hanno avuto sempre la possibilità di poter imporre un veto oggettivo ad una qualsiasi decisione prendibile dal Board, con il 16,74% dei voti ottenibili.

Accanto ad essi, l’Europa, in teoria, con un’azione coordinata, ha avuto per lungo tempo la possibilità di imporsi come secondo “membro” con potere di veto (32,07% dei voti totali in caso di intesa): ipotesi comunque alquanto difficile da raggiungere, salvo situazioni di grosso rischio per ampi interessi condivisi.

Il Fondo è stato dunque per larghissima parte della sua storia un ente diretto non solo formalmente dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati, che sotto la maschera di guardiano della stabilità economica mondiale si è reso di fatto il garante di noti equilibri geopolitici mantenuti a suon di dollari e finanziamenti a politici poco raccomandabili: inutile dire che una tale struttura di controllo non fosse assolutamente interessata a rivedere il proprio ruolo e soprattutto il proprio sistema di funzionamento. Un cedimento in tal senso avrebbe significato far retrocedere il sistema di controllo economico internazionale che con tanta fatica si era imposto.

L’arrivo degli anni ’90 ed i terremoti nelle relazioni internazionali con essi venuti, parvero segnare una nuova era nell’espansione del Fondo: l’accettazione delle politiche di liberalizzazione estrema per i paesi più poveri voluta dal Washington Consensus e le linee guida stilate sulla medesima falsariga consigliate ad i paesi usciti dal blocco sovietico, parvero consacrare l’influenza del FMI. Ed è proprio dal momento del suo apice apparente che l’ideologia liberista espansionistica dei cervelloni di Washington iniziò a perdere colpi: l’impoverimento progressivo dei paesi che avevano seguito i suoi consigli, lo sfascio economico della Russia e dei suoi (non troppo) ex-satelliti mostrarono la fragilità delle sue teorie.

Accanto a questo, l’esistenza stessa della Cina continuava a dare colpi alla struttura creata dal Fondo: il fenomeno delle economie asiatiche in crescita faceva capire come la balance of power interna all’organizzazione non era più efficace nel mostrare i rapporti di forza economici del mondo. Il crack dell’Argentina del 2001, grande pupillo dell’economia neo-con, è stato uno delle ulteriori prove del fiasco sia politico che teorico del Fondo. La recente ascesa dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) come leaders del movimento dei paesi di nuova industrializzazione, ha fatto capire che l’organizzazione doveva seguire una strada diversa.

Da metà degli anni 2000, sono state numerose le richieste giunte dal movimento più o meno organizzato dei paesi emergenti per una generale riforma della governance dell’istituzione: il Gruppo dei 20 ha fatto da navigatore in questo senso, grazie anche alla progressiva affermazione dei quattro BRIC come nuovo ago della bilancia dell’economia mondiale.

E’ dunque dall’ultima riunione dei G-20 tenutasi lo scorso anno a Pittsburgh che i paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione hanno progettato una riforma del sistema decisionale del Fondo, per far sì che la propria voce avesse più peso: la richiesta più importante era quella di ottenere lo spostamento del 5% dei voti nelle mani delle nuove economie. Questo avrebbe dovuto far sì che gli equilibri di forza interni all’organizzazione rispecchiassero maggiormente la realtà dei fatti economici.

Il lungo percorso delle trattative è giunto ad una svolta nelle ultime due settimane: l’Executive Board, infatti, ha dato il via libera alle richieste del sud del mondo. Evento definito come epocale dal Direttore Generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, il quale, sin dal momento del suo insediamento nel 2007, si è sempre mostrato favorevole ad una certa inversione di tendenza nella direzione dell’organizzazione. Sincero o meno, questo interesse verso una maggiore responsività alle esigenze della situazione economica internazionale ha finalmente trovato uno sbocco pratico.

Il gruppo dei “grandi cinque” è stato di fatto abolito: dieci seggi del board sono garantiti a Stati Uniti, Giappone, Brasile, India, Russia, Cina, più Germania, Regno Unito, Francia e Italia. Il Vecchio Continente vede fissato il numero dei suoi paesi a sette rispetto ai nove precedenti. Si concede il trasferimento del 6% dei diritti di voto dalle economie industriali a quelle dinamiche, tutelando i diritti di voto dei paesi meno abbienti (quelli con un reddito pro capite inferiore a 1135 dollari l’anno). Passa inoltre la riforma delle quote, che saranno raddoppiate (anche questo supera le iniziali richieste dei G-20). La Cina diviene il terzo paese per potere di voto all’interno dell’organizzazione.

L’operazione di riforma non sarà breve: si pensa alla metà del 2012 per l’ultimazione di tutti i dettagli, data in cui l’Europa dovrà decidere a chi sarà sottratta la sedia tra i suoi membri (si pensa ad esempio ad una rotazione tra Belgio ed Olanda).

Se è troppo presto per dire quanto questi cambiamenti saranno efficaci, bisogna comunque riconoscere la portata dell’evento: la vecchia élite ha accettato dei nuovi membri nelle sue file, ha fatto un passo indietro rispetto al nuovo mondo che avanza. Bisognerà di certo vedere in che misura questa evoluzione gioverà davvero alle “pedine” dell’economia mondiale o se, invece, ci troviamo davanti solo ad un parziale cambiamento di élite, utile solo ai diretti interessati. Di certo, non è tanto la liberalità europea a colpire. Colpisce che i BRIC siano riconosciuti finalmente come le nuove potenze economiche. E che le nuove potenze siano due economie pianificate, più una neo-socialista ed una in fervente ri-sovietizzazione.

 

 

 

 

 

di Mario Braconi

Quando si tratta di fare quattrini la fantasia umana sembra non conoscere limiti. Da questo punto di vista l’ultima frontiera è rappresentata dai sistemi di trading automatizzati conosciuti come “arbitraggi meccanici”: in parole povere, si tratta di un software che compra e vende sfruttando in modo automatico ogni minimo disallineamento dei corsi dei titoli sulle varie Borse.

Il concetto è sempre lo stesso: si tratta di scandagliare il mercato alla ricerca di qualche cosa (azioni, obbligazioni, derivati) che costi un po’ meno di quello che dovrebbe, per poi venderlo un secondo dopo tenendo un piccolo margine per sé. E’ una cosa che una macchina, molto più veloce a scovare possibili arbitraggi e immune alle defaillances emotive degli esseri umani, è in grado di fare molto meglio di una persona, che dovrebbe restare inchiodata davanti ad una serie di schermi a scrutare ogni minima variazione di prezzo per poi cliccare abbassare l’indice sul mouse per validare un “buy” o un “sell”.

Spesso i disallineamenti di prezzo sono irrisori, ma con questa metodologia, lavorando sulle numeriche (ovvero moltiplicando all’infinito il numero delle transazioni vantaggiose) si riescono a portare a casa milioni di Euro praticamente senza alzare un dito (o meglio senza collegare due sinapsi) e per di più facendo “del bene” al mercato, poiché - sostengono i fan dei mercati perfetti - grazie agli speculatori seriali i valori vengono riportati in equilibrio.

La variabile critica, qui, è il tempo: quando si comprano azioni o commodities per tenerle qualche secondo per poi rivenderle, un vantaggio anche solo di pochi decimi di secondo sui “competitor” fa davvero la differenza. A tutti coloro che hanno vissuto o subito il salto quantico tra il sano (e lento) mondo analogico e l’orgia di “digitalismo” nel quale viviamo immersi volenti o nolenti, viene naturale pensare, oggi, che grazie ai nostri giocattoli elettronici tutto avvenga in tempo reale. Ma, come sanno benissimo i fisici, la velocità alla quale viaggiano l’informazione e le transazioni che di essa si nutrono è limitata dalla velocità della luce. Insomma, esistono limiti fisici alla velocità di reazione di un sistema di trading automatizzato.

Una delle conseguenze di questo vincolo è che il concetto d’inevitabile contiguità fisica tra interlocutori (imprescindibile solo fino a qualche decennio fa, apparentemente obsoleto oggi) si impone di nuovo, e prepotentemente, alla nostra attenzione. Molti intermediari finanziari, infatti, proprio per ridurre i tempi di trasmissione degli ordini, spesso sistemano i propri server molto vicini a quelli della Borsa Valori sulla quale vogliono scambiare titoli - in alcuni casi, direttamente negli stessi locali (co-locazione delle macchine). Si noti, per inciso, come il libero mercato consenta ad alcuni operatori di essere “più uguali degli altri”, pagando qualche cosa per il disturbo, s’intende...

Quando però si parla di titoli trattati da più di un mercato regolamentato, è necessario trovare una collocazione fisica delle macchine che minimizzi la dispersione di tempo causata dalla trasmissione dei dati. E’ questo il senso della ricerca effettuata dal fisico Alex Wissener-Gross e dal matematico Cameron Freer (entrambi del MIT di Boston) e pubblicata sulla Physical Review E. I due scienziati hanno analizzato una cinquantina di borse valori mondiali, tracciando una mappa delle “zone” ideali dai quali si potrebbe operare in modo ottimale: si va da un punto nel bel mezzo dell’Oceano Indiano alle foreste remote del Canada o della Russia.

“Anche solo fatto di avere la sovranità su un particolare punto della terra, per quanto apparentemente sterile o inutilizzabile, insomma, potrebbe rivelarsi un asso nella manica” argomenta Wissener-Gross, “benché, riconosce, la gran parte dei punti ottimali siano in luoghi remoti e dunque non dotati delle infrastrutture necessarie a connettersi. Vi sono certo anche eccezioni, come ad esempio Los Angeles, in posizione strategica per ottimizzare le operazioni che transitano tanto su Tokio che su New York (sarebbe questo un modo per dare un senso a quella specie di città...).
 
Benché Wissener-Gross e Freer si dicano sicuri del fatto loro, al punto da affermare di essere già in contatto con numerosi intermediari finanziari per vendere loro la metodologia quantitativa alla base della pubblicazione del loro lavoro, non mancano voci critiche: come quella di Michael Kearns, esperto di finanza computazionale presso l’università della Pennsylvania di Philadelphia. Kearns ricorda che i punti ottimali costituiscono un eccellente esercizio teorico, che però ha il limite notevole di basarsi sull’ipotesi, invero molto irreale, che le informazioni circolino alla velocità della luce.

In verità, a meno che si disponga di un collegamento punto-punto in fibra ottica dalla postazione al trading floor della banca, i dati normalmente rimbalzano da un router all’altro viaggiando a velocità molto più basse anche nei casi più fortunati. Senza contare che la ricerca parla di un mondo perfetto (per la finanza) privo anche delle più elementari forme di regolamentazione - cosa che non accade nemmeno negli Stati Uniti, che dopo le batoste degli anni scorsi hanno per lo meno cercato di darsi qualche regola un po’ più seria. Insomma, sembra proprio che Wissener-Gross e Freer non abbiano (ancora?) trovato la pietra filosofale del trader.

di Giuliano Luongo

Tra le tante e costanti critiche che il cittadino comune - spesso chiamato con dispregiativa arroganza “uomo della strada” dalla letteratura economica - sferra alle istituzioni europee ed a tutto il loro entourage, c’è quella della incommensurabile lentezza decisionale, che le fa percepire come una banda di cialtroni bravi solo a rimandare.

Di certo, nonostante i passi avanti, l’ultimo rinvio (stavolta a Dicembre) delle decisioni definitive sulle modifiche al Patto di Stabilità e sulle conseguenti variazioni del Trattato di Lisbona non gioveranno alla reputazione dell’Unione nei confronti del grande pubblico. Ma di certo, anche gli analisti più attenti avranno qualcosa da dire (se non ridire) riguardo gli ultimi avvenimenti del vertice UE del 28 ottobre.

Com’è noto, i lavori iniziavano sotto l’egida dell’intesa franco-tedesca sulle modifiche al Patto ed il pollice verso di Trichet a tali variazioni. Il clima della vigilia sembrava alquanto favorevole solo all’immobilità: non era solo il numero uno della Banca Centrale Europea ad essere foriero di dubbi, ma anche i rappresentanti di Stati di peso come la Gran Bretagna non sembravano avvezzi ad un esito positivo delle trattative. Così stranamente non è stato: l’inguardabile Cancelliera tedesca ha saputo sfoggiare inaspettate doti diplomatiche, riuscendo ad allargare il fronte dei riformatori per portare il vertice ad un esito relativamente positivo riguardo i cambiamenti annunciati.

“Relativamente”, perché le riforme saranno rese note solo nel prossimo vertice di Dicembre, ma “positivo” perché ormai la riforma del Patto è stata accettata dai 27. Le modifiche alle norme contenute nel Patto, discusse una decina di giorni fa durante l’incontro Ecofin, sono state gradite alla coscienza politica dell’Unione, che ha affidato alla task force del Presidente del Consiglio Van Rompuy il compito di elaborarle in dettaglio ed esporle fra poco più di un mese. Come sempre, un rinvio pur nell’accettazione.

Non di poco conto il punto sul quale l’iniziativa tedesca ha dovuto cedere, ossia quello del ritiro del diritto di voto ai paesi che violino le disposizioni sui conti pubblici: il Presidente della Commissione Barroso è arrivato a dire che “una misura del genere è inaccettabile, irrealistica e contraria allo spirito del Trattato”, nonostante la ferma convinzione della Merkel sulla validità di questa disposizione. E’ passata inoltre l’ipotesi di modifiche ai Trattati, seppur in maniera minima (ancora una volta, la Germania voleva di più). Sfuma invece la possibilità di un’intesa sul tipo di fondo anti-crisi da varare: i tedeschi volevano non solo un sistema di salvataggio, ma anche la previsione di un sistema di gestione “ordinata” del default di uno stato. Nessun altro paese ha appoggiato questa posizione.

Riportiamo l’ultima decisione di rilievo per poi avviare alcune riflessioni d’obbligo: è passata l’idea che il fondo anticrisi riguarderà solo i paesi dell’area Euro. E di questo è stata molto felice l’Inghilterra, guarda caso. Non è stata brava diplomaticamente, la Merkel: ha in effetti fatto concessioni molto grandi al sentimento anti europeista britannico. Per avere il loro appoggio, ha fatto passare quest’ultima disposizione, togliendo così l’onere al più grande paese non-Euro dell’Unione di dover collaborare al fondo di soccorso per i Paesi che potrebbero andare in crisi economica. In secondo luogo, il “potente” asse franco-tedesco ha fatto passare la proposta Cameron di non far alzare i contributi nazionali al budget UE al 6% nel 2011, mettendo invece un tetto al 2,91%.

Queste intese costituiscono uno spunto interessante per analizzare i rapporti di forza all’interno dei paesi “di peso” dell’Unione. Ad essere passate, in fondo, sono state solo le modifiche vaghe ed esistenti solo in teoria alle disposizione “tecniche” del Patto di Stabilità, come il criterio numerico da adottare per il taglio del debito e l’impatto del debito privato, mentre i tentativi più rivoluzionari sono rimasti al palo.

L’idea di grande modifica dei Trattati per introdurre riforme economiche (e non) è stata ampiamente ridimensionata perché vista come rischiosa da gran parte dei rappresentanti presenti al meeting. Il concetto di modifica “light”, come definito dal capo dell’eurogruppo Juncker, al fine di introdurre un meccanismo anticrisi permanente, deve passare perché aiuterà la sopravvivenza della UE stessa, ma non si deve andare oltre: aprire la porta ad ulteriori modifiche potrebbe innescare una nuova spirale di divisioni che vanificherebbe la lunga e difficile strada che ci ha portato a Lisbona.

Il vero fiasco della proposta Merkel può essere identificato con il “no” secco dei leader alla sospensione del diritto di voto. Si noti come la Merkel lo abbia giustificato tirando in ballo l’art.7 del Trattato di Lisbona, che prevede la sospensione per i paesi che “violino i principi fondamentali dell’Unione”: cercava di estendere una misura di principio legata prettamente all’ambito politico e sociale e a quello economico, creando un loop che di fatto avrebbe affermato il primato dell’economia sulla politica. Si nota semplicemente come la lettura dello scopo ultimo dell’Unione Europea è ancora quello di una comunità economica, non di una comunità di cittadini europei.

A più di cinquant’anni dalla nascita del primo nucleo dell’Unione, risulta evidente come sia ancora l’economia il motore primario delle sue dinamiche interne: dal punto di vista dell’integrazione, le trattative tra i potenti dimostrano ancora come la via verso un’Europa politica sia ancora molto lunga. E mentre le definitive decisioni più o meno prettamente “contabili” vanno ancora elaborate e discusse, si nota come le spinte euroscettiche - per l’ennesima volta da parte inglese - abbiano peso nella definizione delle strategie comunitarie. Sullo sfondo, rimane una potenza franco-tedesca leggermente sminuita, sia dal rivale britannico sia dal resto dell’Unione stessa.

Non ci resta quindi che rimandare di un mese ulteriori considerazioni prettamente tecniche e di bilancio, non meno importanti per valutare lo stato di salute comunitario. Per ora si può solo constatare che l’Unione Europea politica e sociale nata a Lisbona, quella che dall’anno scorso sostituisce la comunità “solo economica”, non ha mostrato un volto all’altezza del suo ruolo.

 

di Giuliano Luongo

A pochi giorni dalla tanto sospirata intesa tra membri dell’Ecofin sulle modifiche al Patto di Stabilità e Crescita, arriva fresco di giornata il primo stop da parte del numero uno della BCE, Jean Claude Trichet, il quale ha dichiarato di non voler appoggiare il nuovo pacchetto di norme deciso dai Ministri. Il filo conduttore degli ultimi eventi che hanno ruotato attorno al discusso Patto che dovrebbe tenere in regola i conti europei, può essere quello dell’incoerenza, caratteristica che ha sempre descritto impeccabilmente promotori e aderenti al Patto stesso. Pertanto, è opportuna una brevissima retrospettiva sulla vicenda per comprendere bene - nei limiti del possibile - gli attuali sviluppi della vicenda.

Il Patto di Stabilità e Crescita ha visto la luce nel 1997 come strumento per il mantenimento della disciplina fiscale. Esso imponeva due criteri fondamentali: deficit pubblico non superiore al 3% del PIL e debito pubblico inferiore al 60% del PIL. In caso di violazione, erano previste sanzioni nella maniera orribilmente macchinosa alla quale l’Unione ci ha saputo abituare nel corso degli anni.

Il paese il cui deficit si avvicinava al tetto del 3% riceveva un primo avvertimento (“early warning”) proposto dalla Commissione ed approvato dal Consiglio in sede Ecofin: questo provvedimento si tramutava in una raccomandazione quando la soglia veniva superata. In caso di mancata adozione di misure per migliorare la situazione economica a seguito della detta raccomandazione, lo Stato riceveva una sanzione, sotto forma di deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di permanenza del deficit. Cristallino, no? Inoltre, prendere misure correttive per tempo interrompe l’innesco della sanzione, che però si riattiva in caso d’inadeguatezza delle misure correttive stesse. In parole povere, una vera e propria mostruosità burocratica.

Prima della critica economica, una nota a margine: il Patto è stato promosso dalla Germania, seguita a ruota dalla Francia. In sede di applicazione delle sanzioni, i due “grandi” dell’Unione hanno saputo agevolmente evitarle, vista la natura non obbligatoria delle stesse (dettaglio di non poco conto ribadito anche dalla Corte Europea nel 2004). Al contrario, l’Irlanda nel 2001 e l’Italia nel 2005 hanno subito eccome i provvedimenti comunitari.

Tali basi hanno saputo dare più vigore al nutrito coro di critiche che già dal 2002 accompagna questo accordo. Esso risulta fragile sia dal punto di vista della flessibilità delle disposizioni che da quello della rigidità delle sanzioni. Ne deriva, in primo luogo, l’impossibilità di considerare un’espansione momentanea dei deficit per favorire una ripresa a lungo termine: uno degli effetti più visibili del Patto è quello di reprimere i trend di investimento. In secondo luogo, il problema dell’applicazione delle suddette sanzioni: la lettura giurisprudenziale della Corte confermava la vuotezza della procedura d’infrazione, atta solamente a rafforzare la posizione di due soggetti già imponenti all’interno dell’Unione.

Arrivarono già quasi dieci anni or sono - e sono state anche riprese di recente - critiche dall’ala più liberale del pensiero economico, per le quali il Patto pecca di una sorta di “eccesso di flessibilità”. Voci dal circuito Atlas notavano, infatti, che il Patto non poneva misure adeguate per contrastare manovre di cosiddetta “finanza creativa” per mantenere i paesi all’interno dei limiti di deficit previsti. Questo insieme di amenità ha fatto sì che il nome del Patto venisse mutato da alcuni noti politici italiani in “Patto di Stupidità”, in un’epoca serena in cui le barzellette con nazisti e bestemmie erano ancora lontane.

Il primo tentativo di riforma di questo accordo è arrivato nel 2005: sono stati mantenuti i tetti massimi del 3 e 60%, ma in compenso sono state aggiunte delle condizioni in presenza delle quali la procedura di infrazione può non venir avviata immediatamente, in quanto il paese non si considera in situazione di “deficit/debito eccessivo”. Viene pesato il livello totale del debito, la possibilità di un indebitamento dovuto a procedure per potenziare la produzione, a riaggiustamenti ciclici del budget.

Il ruolo di Germania e Francia è stato determinante nel fare pressione sull’Ecofin, al tempo, per queste modifiche: la loro pressione si è fatta di nuovo sentire nel 2008 di fronte alla crisi finanziaria. Durante il crac greco del corrente anno, la Germania ha mostrato nuovamente il suo lato “regolatore”, chiedendo ulteriori modifiche per l’introduzione di pene severe per chi non rispettasse i parametri del Patto.

Individuiamo questa linea: decidono francesi e tedeschi. Qualsiasi cosa. Quando serve flessibilità - perché loro hanno sforato più o meno brutalmente dai parametri - appoggiano la flessibilità. Quando bisogna agire con una mentalità restrittiva - e in particolare quando ad essere deboli sono gli altri - si ricordano casualmente del bisogno di una migliore applicazione delle regole, o meglio di regole che abbiano un senso. Su queste basi ci siamo avviati all’ultima serie di lavori Ecofin per la seconda riforma del Patto, iniziata a maggio di quest’anno: ogni forma di ottimismo sui risultati sembrava oggettivamente superflua.

Dall’ultimo meeting dei Signori Ministri, chiusosi il 18 ottobre dopo tredici ore di trattative (numero variabile di 2/3 ore a seconda della testata che leggiamo) è venuto fuori un accordo politico quadro, frutto della mediazione tra il blocco tedesco del rigore (con Rep. Ceca e Slovacchia) e quello franco-italiano. I rappresentanti di Francia e Germania hanno sottolineato come solo grazie alla loro azione si sia raggiunto un risultato. Cerchiamo ora di delinearne i contenuti.

Le sanzioni scatteranno dopo 6 mesi dal superamento dei parametri solo se nel frattempo non siano state prese misure correttive. Alla Commissione il compito di sanzionare, al Consiglio UE quello di respingerle a maggioranza qualificata. Tra i cosiddetti fattori rilevanti nel calcolo ponderato del debito, figurerà il debito privato, dettaglio tanto caro al nostro Tremonti.

Non appaiono riferimenti precisi al taglio annuale di 1/20 del debito dei paesi irrispettosi dei parametri. Si gettano le basi per un lungo percorso di riforma dei Trattati che culminerà nel 2013, volto ad introdurre un meccanismo anti-crisi permanente. I ritmi comunitari permettono un aggiornamento sul tema al vertice UE di marzo 2011. Ricordiamo che tali intenti sono finora teoria, visto che dovranno essere aggiornati al prossimo vertice UE del 28-29 ottobre, fra una sola settimana.

La tensione tra la posizione apparentemente ultrarigida dei tedeschi e quella francese è stata dunque risolta, non fosse che un personaggio leggermente in vista come Trichet abbia leggermente sconsacrato queste intese: intese che, ripetiamo, sono soltanto di principio e, come sempre, sono vacue di qualsivoglia dettagli tecnici che le rendono meritevoli di essere commentate più approfonditamente. Sulle sanzioni, il Presidente Jean-Claude Juncker ha ricordato come “non siamo in possesso di tutti gli elementi per dire dove il Patto verrà migliorato”. E se verrà migliorato, pare doveroso aggiungere.

Adesso non rimane che attendere il prossimo vertice e vedere quanto di ciò che è stato detto prenderà più o meno una connotazione pratica. Per ora ci limitiamo ad aver conferma del ruolo dominante di francesi e tedeschi e ad aspettare. Una settimana non è poi tanto, l’Europa ci ha abituato a ben altro.

di Ilvio Pannullo

Finalmente qualcosa torna a muoversi sotto i cieli d’Europa. E i francesi ne sanno qualcosa: il loro presidente Nicolas Sarkozy ha infatti ribadito che la riforma delle pensioni "andrà avanti", nonostante le forti contestazioni. "La porterò a termine perché il mio dovere in quanto capo dello Stato è di garantire ai francesi che loro stessi e i loro figli potranno contare sulle pensioni", ha dichiarato il capo dello Stato in un comunicato diramato dall'Eliseo.

Peccato che lo stesso risultato possa essere ottenuto utilizzando diverso strategie e quella scelta dal numero uno francese non va proprio giù a gran parte dei suoi concittadini. Proprio ieri si è svolta l'ultima giornata di manifestazioni prima del voto definitivo della legge sulla riforma in Senato, a cui secondo i sindacati hanno partecipato tre milioni e mezzo di persone.

Numeri enormi, specie se si considera che con quella di ieri è la sesta volta in poco più di un mese  che i sindacati riescono a riempire le piazze di tutta Francia. Sarkozy ha anche deplorato i "disordini" generati dal blocco dei depositi di carburante, sostenendo che costituivano "una ingiustizia" verso "la maggioranza dei francesi che vuole continuare a circolare liberamente". A quale maggioranza faccia però riferimento ancora nessuno l’ha capito.

E che qualcosa si muove non lo certifica solo la rivolta francese. Accade di rivedere in ogni dove di Europa agitazioni sociali, scioperi generali e lavoratori finalmente in strada a rivendicare con forza quei diritti dati per acquisiti e adesso unilateralmente rimessi in discussione. Quella organizzata dalla Fiom a Roma lo scorso sabato, é stata una manifestazione imponente con al centro il tema della difesa della democrazia e dei princìpi costituzionali nell'organizzazione del lavoro. Ma non é stata la prima e non sarà l'ultima, in una Europa che propone un modello di profitti per le imprese da primo mondo a fronte di un'organizzazione del lavoro e salari da terzo mondo.

I paesi P.I.I.G.S. (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sentendo aria di macelleria sociale, sembrano infatti aver ritrovato una dimenticata dignità, registrando al loro interno movimenti sociali di ampie dimensioni, tutti indistintamente uniti nel chiedere che i danni della crisi siano sostenuti da chi quei danni li ha oggettivamente creati.

Stessa faccia, stessa razza verrebbe da dire. Ad essere uguali sono invece i problemi e le possibili soluzioni da mettere in campo per evitare una desertificazione non solo e non tanto economica, quanto soprattutto produttiva. Ma andiamo con ordine. Il Portogallo ha recentemente provato a convincere i mercati finanziari che i suoi titoli di Stato sono ancora degni di fiducia. Negli ultimi giorni di settembre le ultime operazioni di risanamento hanno previsto un taglio agli stipendi degli statali del 5% per contenere la spesa pubblica a partire dal 2011. Il governo di Lisbona è poi intervenuto sul lato delle entrate, con un aumento dell'Iva dal 21 al 23%. Ma gli spread - cioè i rendimenti pretesi dai mercati per sottoscrivere il debito di nuova emissione - dei titoli di Stato restano ancora su livelli record.

Così come quelli dell'Irlanda, la cui situazione appare sempre più compromessa. A peggiorare le cose per l’Eire ci si è messa la crisi della Anglo Irish Bank. Il piano di salvataggio potrebbe costare al governo di Dublino fino a 30 miliardi di Euro, una cifra che non può permettersi in questo momento. In questo periodo si potrà capire meglio anche quanto gli investitori si fidano dell'Italia. La crisi politica, che fino a ieri mattina ha animato la vita del Belpaese, pare essere già rientrata (sarà vero?); aveva fatto recentemente aumentare in modo significativo il differenziale di rendimento tra Bot e Bund tedeschi, segno che i mercati temevano l'apertura di una lunga fase di instabilità.

Anche la Grecia - di cui ci siamo interessati più volte su Altrenotizie - è di nuovo semiparalizzata per via delle proteste contro l'austerity e le riforme del governo di Giorgio Papandreu. Ai camionisti, che hanno deciso il proseguimento per la terza settimana consecutiva della protesta, si sono recentemente aggiunti i lavoratori dei trasporti ferroviari e stradali urbani ed extraurbani, dei portuali e dei medici, mentre manifestazioni sono state convocate da tutti i sindacati nel quadro di una scesa in campo a livello europeo. Non pare vero che finalmente i lavoratori di tutto il continente si stiano unendo nella lotta contro politiche di bilancio imposte da un’Europa guidata più dalle banche che dai popoli.

Ma è forse la Spagna il paese che meglio sintetizza il momento storico contingente. E? proprio nella terra della corrida che i trasporti pubblici sono stati semplicemente bloccati, intere città sono andate in tilt per il primo sciopero generale negli otto anni dell'era Zapatero, il settimo da quando c'è la democrazia. La domanda di elettricità nella capitale si è ridotta di un quinto rispetto al livello abituale di un giorno feriale. Ferme le industrie, in particolare il settore metallurgico e quello delle costruzioni.

Io "vado a lavorare", pare abbia detto Josè Luis Zapatero, con una battuta poco felice, mentre varcava il portone d'ingresso delle Cortes - il Parlamento spagnolo - nella giornata del primo sciopero generale in sei anni e mezzo di governo socialista. Apparentemente sicuro di sé, come sempre, non è da escludere che con il passare delle ore il premier spagnolo abbia perso in parte la sua tradizionale pacatezza. Non solo perché il livello straordinariamente alto di adesione alla protesta ha permesso ai sindacati di parlare di un "successo indiscutibile". Ma soprattutto perché è probabile che sia stato proprio lo sciopero a convincere gli analisti di Moody's a tagliare - la notizia è stata ufficializzata il 30 settembre quindi il giorno successivo alla mobilitazione - il rating sul debito della Spagna da AAA a AA1, con outlook stabile, spiegando di prevedere deboli prospettive di crescita economica per il paese iberico.

Moody's si aspetta che l'economia cresca in media dell'1% l'anno per diversi anni. Ha inoltre aggiunto che la Spagna raggiungerà gli obiettivi di bilancio che si é proposta per l'anno in corso e per il prossimo, ma saranno necessarie altre misure per ridurre il deficit dopo il 2011. Il riequilibrio dell'economia spagnola, aldilà del settore costruzioni, richiederà dunque diversi anni secondo Moody's, ma l'impegno del governo nella riduzione del debito - vista anche la forte risposta delle classi sociali colpite dai piani di riforma - è tra le ragioni principali che hanno portato a rivedere il rating al ribasso. Va rilevato, poi, che anche Ficht aveva tagliato il rating della Spagna con un outlook negativo ad aprile.

L’alta adesione allo sciopero ha preoccupato non poco il leader spagnolo e lo dimostra in modo chiaro soprattutto il suo tentativo realizzato in extremis - proprio alla vigilia della manifestazione - di tendere una mano ai sindacati con la proposta di aprire un tavolo negoziale sui regolamenti applicativi della riforma del mercato del lavoro, varata pochi giorni prima dal Parlamento. Un'apertura così timida che i leader delle due principali organizzazioni dei lavoratori - la Ugt e la Comissiones Obreras  - l’hanno subito rispedita al mittente.

Qualcuno in Italia potrebbe prendere appunti e  imparare. Per i sindacati spagnoli è l'intera legge a dover essere rimessa in discussione: oltre che inadeguata, la ritengono lesiva dei diritti dei lavoratori. In fondo, per una volta, concordano con la destra parlamentare del partito popolare, secondo cui si tratta di una riforma che "non serve né a generare fiducia, né ad aumentare i consumi, né a favorire la produzione e la creazione di posti di lavoro".

Solo su un punto la legge è chiara: d'ora in poi, per le aziende, sarà più facile licenziare, oltretutto con costi nettamente più bassi (appena 20 giorni di indennizzo per anno lavorato) con la semplice giustificazione di "perdite attuali o previste" o per la "diminuzione persistente del livello di entrate". Inoltre, si autorizza l'interruzione del rapporto di lavoro per assenteismo. Un attacco ai lavoratori e ai diritti sociali in pieno stile Marchionne; segno che se da una parte gli operai faticano a fare fronte comune contro le politiche dei governi europei, dall’altra i padroni non hanno certo perso tempo nel pressare i rispettivi esecutivi con la minaccia della delocalizzazione.

Ma veniamo alla protesta. Con la scelta di portare al centro dell'attenzione, in questa giornata di sciopero generale, il tema della reforma laboral i sindacati hanno cercato di allontanare il sospetto di una protesta "inutile e tardiva", com'è stata definita da alcuni settori della destra politica e mediatica, che sono arrivati a ipotizzare una sorta di gioco delle parti concordato con il governo per non perdere la faccia dopo anni di assoluta pace sociale. E in effetti, lo sciopero arriva solo quattro mesi dopo l'annuncio del durissimo pacchetto di misure di austerità varato dall'esecutivo, in seguito alle pressioni determinanti esercitate dall'Unione Europea nei giorni più drammatici della crisi finanziaria.

Fu quello il momento in cui la società spagnola si rese conto all'improvviso - con il taglio degli stipendi dei funzionari pubblici, il blocco delle pensioni e la drastica riduzione degli investimenti in infrastrutture - che Zapatero si stava rimangiano d'un colpo sei anni di politica tutta basata sul mantenimento dello stato sociale e sul rispetto delle garanzie fondamentali per i lavoratori. I sindacati hanno tuttavia consentito al premier di superare indenne un'estate in cui, solo grazie al tradizionale andamento favorevole dell'occupazione stagionale, per un paio di mesi si è diffusa l'impressione che le cose potessero cominciare a migliorare. Una situazione in tutto e per tutto uguale a quella dei fratelli greci impegnati nella resistenza ad oltranza contro le politiche varate dal governo Papandreu.

Riforme varate e difese dai governi ma decise e immaginate nei consigli di amministrazione delle banche creditrici dello Stato. Alla ripresa autunnale, in Grecia come in Spagna é tutto come prima: l'ultimo dato statistico parla di un nuovo incremento dei senza lavoro nel paese iberico, con 60.000 disoccupati in più ad agosto. In totale sono sempre circa 4 milioni, quasi il 20%, ovvero il doppio della media europea.

Nel frattempo, come se non bastasse, Zapatero ha anche insistito sulla necessità di portare a 67 anni l'età pensionabile (un’altra riforma sulla quale i sindacati si dicono intenzionati a dare battaglia) e, appena pochi giorni fa, ha presentato in Consiglio dei Ministri il progetto di bilancio per il 2011, per il quale si è assicurato il decisivo appoggio parlamentare del partito nazionalista basco, in cambio di nuove concessioni a favore della già vasta autonomia regionale.

Manco a dirlo, una nuova legge "lacrime e sangue", dove neppure l'annuncio di una stangata fiscale per i più ricchi (è previsto un aumento dell'Irpef dal 43 al 44% per i redditi superiori ai € 120.000 e al 45% per chi raggiunge il € 175.000 l’anno) gli è servito a raccogliere consensi tra i  gruppi di sinistra.

Anche perché l'esigenza di riportare il deficit entro i limiti del 3% nel 2013 ha costretto il governo a confermare uno ad uno tutti i tagli di spesa previsti. È per questo che, mentre i sondaggi continuano a sancire - ormai da mesi - un vantaggio netto dei popolari sui socialisti, un protagonista storico della politica spagnola, il vecchio leader comunista Santiago Carrillo, paragona la solitudine di Zapatero a quella che soffrì il primo presidente della democrazia, Adolfo Suarez, nei mesi tragici che precedettero il golpe del 23 febbraio 1981.

Un punto è quindi importante da sottolineare: indipendentemente dal colore politico del governo in carica, il costo della crisi finanziaria, in tutta Europa, viene scaricato sui lavoratori e sull’economia reale. Di fronte a ciò, in controtendenza rispetto chi vede solamente depressione e senso d’impotenza, questa crisi potrebbe rappresentare paradossalmente una fonte d’ispirazione: generare speranza al posto del senso di colpa in chi si vede negati i propri diritti, ottimismo in un futuro diverso invece della rassegnazione davanti un presente tropo brutto per essere vero. Costruire una resistenza comunitaria, europea, finalmente post-ideologica, all’interno delle nostre comunità alla fine dell’era della finanza e delle banche, potrebbe rappresentare la via per la transizione verso un futuro più localistico, naturale, umano, condivisibile e partecipato.  


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