di Ilvio Pannullo

Sono state diverse, ultimamente, le giornate difficili per i mercati. Piazza Affari di umore nero, perde nettamente più delle altre Borse continentali, complici alcuni spunti negativi e la debacle del comparto bancario, afflitto da alcune trimestrali non entusiasmanti e da rinnovati timori sul debito sovrano di alcuni paesi periferici. L'indice Ftse Mib cede il 2,41%, l'All Share il 2,15%. Ad innescare nuovamente la speculazione è la sua eccezionale redditività: sparare a zero sugli Stati e scommettere sul disastro è troppo vantaggioso. Chi può specula e vince, mentre il resto del mondo assiste impotente a questo gioco al massacro.

La storia è sempre la stessa: i mercati sono stati scoraggiati dalla speculazione sui titoli di Stato di alcuni paesi il cui debito pubblico è considerato troppo alto, come Portogallo, Grecia e Irlanda. A contribuire al clima da fine impero sono le politiche monetarie statunitensi. Le parole, infatti, sono importanti, soprattutto quando a pronunciarle sono i banchieri centrali.

La Federal Reserve americana ha deciso mercoledì 3 novembre di dare il via alla seconda ondata di “ quantitative easing". Il termine - di origine ovviamente anglosassone - si traduce in italiano con alleggerimento quantitativo ed indica la creazione di moneta da parte della banca centrale e la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto, cioè effettuate direttamente in borsa, nel sistema finanziario ed economico. È essenzialmente il processo attraverso il quale un istituto monetario aumenta la base monetaria attraverso la stampa (termine non esatto, dato che oggi l'immissione avviene in forma elettronica) di nuova moneta. I tecnocrati la considerano una politica monetaria non convenzionale. Nella realtà l’operazione rende esplicito il problema del cosiddetto reddito monetario, ossia il guadagno che un istituto autorizzato per legge ad emettere moneta può ottenere dalla mera stampa di banconote.

L'espressione, all'apparenza freddamente scientifica, nasconde l'ultima mossa disperata dell’establishment americano: la Fed comprerà i titoli del debito pubblico americano semplicemente stampando denaro, ossia attraverso lo sfruttamento grossolano del cosiddetto signoraggio bancario. Gli Stati Uniti potranno così mantenere il rapporto deficit/Pil al 13% (superiore a quello della Grecia) confidando nel fatto di potersi comunque indebitare a bassi tassi attraverso l'emissione di obbligazioni. Perché ci sarà sempre la Federal Reserve pronta a comprare. Non viene creata ricchezza con la produzione industriale, con l'edilizia o la fornitura di servizi. Si crea solo moneta per comprare debito. Un debito che non avrebbe ragione d’esistere se l’istituto di emissione fosse controllato dallo stesso governo, ma di questo problema si è già discusso in abbondanza e non interessa qui riaprire la questione.

Ciò che invece è opportuno sottolineare è che la Federal Reserve aveva già acquistato 1700 miliardi di dollari in titoli immettendo nel sistema altrettanta liquidità e si appresta ora a comprarne altri per un valore pari a 600 miliardi di dollari. Se ne deduce che in meno di tre anni negli USA si è stampato denaro per un ammontare superiore al Pil dell'Italia nell’anno contabile 2010. Una creazione di moneta che non ha precedenti nella storia, una misura "unconventional” come dice con un eufemismo il presidente della Fed Ben Bernake. La verità è che una simile misura non è mai stata testata e gli effetti che provocherà sono tutti da verificare. La cavia ovviamente siamo noi, le economie del resto del mondo.

Per ora la stampa eccessiva di biglietti verdi ha già portato il dollaro ai minimi rispetto alle altre valute, compreso l'euro. Sulla scacchiera i vari giocatori preparano le loro contromisure. La Corea del Sud si appresta a seguire Thailandia e Brasile nell'introduzione di misure che contengano il forte afflusso di moneta americana verso il proprio paese, cosa che provoca una valorizzazione eccessiva delle monete nazionali. I paesi emergenti sono in subbuglio.

Nella prima intervista pubblica, la neo eletta presidentessa brasiliana, Dilma Rousseff, ha detto quanto da molti pensato: "Non possiamo pensare che gli Stati Uniti facciano pagare i loro problemi a tutto il mondo attraverso la svalutazione del dollaro". Il prossimo G20 a Seul si annuncia dunque tempestoso, preludio di un ritorno a misure protezionistiche dagli esiti imprevedibili. L'Europa per il momento tace. Gli economisti tedeschi e inglesi sono molto più preoccupati dell'inflazione che questa massa di denaro può provocare piuttosto che dell'impatto immediato sui tassi di cambio.

Germania e Inghilterra hanno infatti inaugurato l'era dell'austerità estrema: hanno la fondata paura che questa massa incredibile di cartamoneta che si sta riversando nell'economia mondiale possa causare uno tsumami finanziario senza precedenti, che potrebbe scuotere dalle fondamenta la fiducia non solo nei governi ma nel sistema internazionale monetario. E’ dunque proprio per questo motivo che i tedeschi vogliono far passare a Bruxelles il principio che se un paese chiede un aiuto finanziario, i detentori dei titoli obbligazionari di quel paese "devono sopportare un sacrificio". Il riferimento alla Grecia è fin troppo esplicito: tutti sanno che nei prossimi tre anni il governo di Atene sarà costretto a ristrutturare il proprio debito e la Germania non intende offrire una garanzia in bianco ai creditori.

Inutile dire che nel giro di poche ore i titoli di Stato greci hanno perso il 20% del loro valore, ricacciando Atene nella quasi certezza del declino finanziario finale. L’Irlanda non gode di una salute molto migliore e deve pagare ai propri creditori un tasso quattro volte maggiore di quello tedesco, seguita a ruota dal Portogallo. Ma fino a quando questa situazione sarà sostenibile? I più pessimisti ritengono che fra poco più di un anno si vedranno gli effetti di queste politiche monetarie a dir poco spericolate e che ci troveremo di nuovo al centro della tempesta perfetta: crisi della fiducia negli stati, crisi della fiducia nella moneta ed inflazione alle stelle.

Insomma sembra già di sentire le sette trombe dell’apocalisse. Non sappiamo però se questo succederà davvero, ma il semplice rischio della catastrofe dovrebbe essere sufficiente per osservare più attentamente le politiche economiche di tedeschi e inglesi che, a differenza di altri, stanno prendendo la situazione molto sul serio.

E noi? L'Italia come sempre è ferma. In questo momento siamo bloccati sulla manovra finanziaria di luglio che appare sempre più insufficiente e inadeguata a fronteggiare i rischi che ci riserva il futuro. Il ministro dell'economia Giulio Tremonti, per ora, sembra non poter fare altro che arginare le richieste di spesa che gli arrivano dai colleghi di governo. Purtroppo per noi sembra non riesca neanche a delineare un piano strutturale che metta definitivamente al sicuro i nostri conti pubblici e ci preservi dai "rischi fatali" - per citare un suo libro di qualche anno fa - della globalizzazione economica e finanziaria. Appare semmai più preoccupato dell’ombra di Draghi, le cui proposte di regolarizzazione dei precari e di rilancio della domanda interna vengono insultate dal ministro con la proverbiale stizza da ragioniere isterico che lo contraddistingue.

L'inevitabilità della catastrofe la si può osservare cristallizzata nell'esito delle elezioni di medio termine recentemente perse dalla Presidente Obama. Con quel voto gli americani hanno lanciato al mondo il messaggio peggiore che potessero lanciare. Quello che ci comunicano è che loro vogliono continuare a fare come hanno sempre fatto e che non sono disposti ad indietreggiare dalla loro posizione di dominazione e dunque accettare una loro diversa collocazione nel mondo. Gli americani vogliono cioè continuare a scaricare i loro problemi sulle spalle del resto del pianeta, ma quello che l'America vuole non lo può più ottenere e questo, semplicemente, perché non sono più il centro del mondo. La grande questione aperta rimane questa: chi riuscirà a far capire agli americani che non è più possibile continuare su questa strada? L’impero sta raschiando il fondo del barile.

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