di Giuliano Luongo

Tutte le istituzioni internazionali, di livello più o meno alto, dalla maggiore o dalla minore consacrazione governativa, condividono una caratteristica peculiare: la rigidità, la scarsa adattabilità alle nuove sfide che si frappongono tra l’istituzione in questione ed i suoi scopi. Strano a dirsi, proprio il Fondo Monetario Internazionale, una di quelle meno reattive alle esigenze dei paesi che dovrebbe aiutare, ha recentemente cercato di invertire questo trend, almeno sulla carta, accettando la proposta di modifica dei poteri di voto all’interno della sua principale sede decisionale, l’Executive Board.

Il processo che pochi giorni fa è arrivato a questa tappa fondamentale è stato lungo e spesso apparentemente senza vere e proprie speranze. Il Fondo, erede della vecchia sovrastruttura del sistema di Bretton Woods, sentiva il bisogno di un cambiamento nei rapporti di forza interna da tempo immemore, a partire dal crollo del sistema che l’aveva visto nascere nel lontano 1976.

Sin dall’anno della sua istituzione, l’ancor più lontano 1944 (iniziò i lavori ufficialmente a dicembre ’45), il Fondo prende le sue decisioni tramite il citato Executive Board, composto da 24 membri, di cui cinque nominati dai cinque paesi membri con le quote di partecipazione più cospicue ed i restanti nominati dall’altro organo decisionale, il Consiglio dei Governatori, composto dai rappresentanti di tutti i paesi membri.

Per comprendere le dinamiche interne al Fondo, si ricordi che le decisioni vengono prese esclusivamente a maggioranza molto elevata (di solito all’85%) e che il voto è ponderato in base alla quota versata per la partecipazione all’organizzazione. In breve, decide il più “generoso”, che casualmente è anche il più ricco, che ancor più casualmente sono gli Stati Uniti. Il gruppo dei “grandi cinque” è stato sempre composto, accanto agli americani, da Francia, Gran Bretagna, Giappone e Germania: viste le quote, gli Stati Uniti hanno avuto sempre la possibilità di poter imporre un veto oggettivo ad una qualsiasi decisione prendibile dal Board, con il 16,74% dei voti ottenibili.

Accanto ad essi, l’Europa, in teoria, con un’azione coordinata, ha avuto per lungo tempo la possibilità di imporsi come secondo “membro” con potere di veto (32,07% dei voti totali in caso di intesa): ipotesi comunque alquanto difficile da raggiungere, salvo situazioni di grosso rischio per ampi interessi condivisi.

Il Fondo è stato dunque per larghissima parte della sua storia un ente diretto non solo formalmente dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati, che sotto la maschera di guardiano della stabilità economica mondiale si è reso di fatto il garante di noti equilibri geopolitici mantenuti a suon di dollari e finanziamenti a politici poco raccomandabili: inutile dire che una tale struttura di controllo non fosse assolutamente interessata a rivedere il proprio ruolo e soprattutto il proprio sistema di funzionamento. Un cedimento in tal senso avrebbe significato far retrocedere il sistema di controllo economico internazionale che con tanta fatica si era imposto.

L’arrivo degli anni ’90 ed i terremoti nelle relazioni internazionali con essi venuti, parvero segnare una nuova era nell’espansione del Fondo: l’accettazione delle politiche di liberalizzazione estrema per i paesi più poveri voluta dal Washington Consensus e le linee guida stilate sulla medesima falsariga consigliate ad i paesi usciti dal blocco sovietico, parvero consacrare l’influenza del FMI. Ed è proprio dal momento del suo apice apparente che l’ideologia liberista espansionistica dei cervelloni di Washington iniziò a perdere colpi: l’impoverimento progressivo dei paesi che avevano seguito i suoi consigli, lo sfascio economico della Russia e dei suoi (non troppo) ex-satelliti mostrarono la fragilità delle sue teorie.

Accanto a questo, l’esistenza stessa della Cina continuava a dare colpi alla struttura creata dal Fondo: il fenomeno delle economie asiatiche in crescita faceva capire come la balance of power interna all’organizzazione non era più efficace nel mostrare i rapporti di forza economici del mondo. Il crack dell’Argentina del 2001, grande pupillo dell’economia neo-con, è stato uno delle ulteriori prove del fiasco sia politico che teorico del Fondo. La recente ascesa dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) come leaders del movimento dei paesi di nuova industrializzazione, ha fatto capire che l’organizzazione doveva seguire una strada diversa.

Da metà degli anni 2000, sono state numerose le richieste giunte dal movimento più o meno organizzato dei paesi emergenti per una generale riforma della governance dell’istituzione: il Gruppo dei 20 ha fatto da navigatore in questo senso, grazie anche alla progressiva affermazione dei quattro BRIC come nuovo ago della bilancia dell’economia mondiale.

E’ dunque dall’ultima riunione dei G-20 tenutasi lo scorso anno a Pittsburgh che i paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione hanno progettato una riforma del sistema decisionale del Fondo, per far sì che la propria voce avesse più peso: la richiesta più importante era quella di ottenere lo spostamento del 5% dei voti nelle mani delle nuove economie. Questo avrebbe dovuto far sì che gli equilibri di forza interni all’organizzazione rispecchiassero maggiormente la realtà dei fatti economici.

Il lungo percorso delle trattative è giunto ad una svolta nelle ultime due settimane: l’Executive Board, infatti, ha dato il via libera alle richieste del sud del mondo. Evento definito come epocale dal Direttore Generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, il quale, sin dal momento del suo insediamento nel 2007, si è sempre mostrato favorevole ad una certa inversione di tendenza nella direzione dell’organizzazione. Sincero o meno, questo interesse verso una maggiore responsività alle esigenze della situazione economica internazionale ha finalmente trovato uno sbocco pratico.

Il gruppo dei “grandi cinque” è stato di fatto abolito: dieci seggi del board sono garantiti a Stati Uniti, Giappone, Brasile, India, Russia, Cina, più Germania, Regno Unito, Francia e Italia. Il Vecchio Continente vede fissato il numero dei suoi paesi a sette rispetto ai nove precedenti. Si concede il trasferimento del 6% dei diritti di voto dalle economie industriali a quelle dinamiche, tutelando i diritti di voto dei paesi meno abbienti (quelli con un reddito pro capite inferiore a 1135 dollari l’anno). Passa inoltre la riforma delle quote, che saranno raddoppiate (anche questo supera le iniziali richieste dei G-20). La Cina diviene il terzo paese per potere di voto all’interno dell’organizzazione.

L’operazione di riforma non sarà breve: si pensa alla metà del 2012 per l’ultimazione di tutti i dettagli, data in cui l’Europa dovrà decidere a chi sarà sottratta la sedia tra i suoi membri (si pensa ad esempio ad una rotazione tra Belgio ed Olanda).

Se è troppo presto per dire quanto questi cambiamenti saranno efficaci, bisogna comunque riconoscere la portata dell’evento: la vecchia élite ha accettato dei nuovi membri nelle sue file, ha fatto un passo indietro rispetto al nuovo mondo che avanza. Bisognerà di certo vedere in che misura questa evoluzione gioverà davvero alle “pedine” dell’economia mondiale o se, invece, ci troviamo davanti solo ad un parziale cambiamento di élite, utile solo ai diretti interessati. Di certo, non è tanto la liberalità europea a colpire. Colpisce che i BRIC siano riconosciuti finalmente come le nuove potenze economiche. E che le nuove potenze siano due economie pianificate, più una neo-socialista ed una in fervente ri-sovietizzazione.

 

 

 

 

 

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