di Ilvio Pannullo

La sintesi dell'ambiguità italiana è tutta nell’ "errore" del Financial Times del 12 novembre. Quando, sulle pagine del giornale cartaceo più letto da Wall Street, viene pubblicato un articolo dove si sostiene che i mercati obbligazionari stanno già scommettendo sulla bancarotta "delle tre economie più deboli della zona euro: la Grecia, l'Italia e il Portogallo". C'è anche il grafico che evidenzia i picchi di rendimento dei Btp decennali italiani rispetto ai Bund tedeschi, cioè quanto il debito pubblico italiano sia percepito come più rischioso di quello tedesco. Poi lo stesso articolo viene pubblicato sull'edizione on-line e, sorpresa, le tre economie europee più deboli sono indicate (correttamente) come Irlanda, Portogallo e Grecia. Niente Italia quindi.

Si tratta di un errore dunque o forse c'è qualcosa di più? Appare infatti ai più maliziosi qualcosa di più di un refuso; assomiglia a un lapsus freudiano. Perché l'Italia non sarà tra le tre economie più fragili, ma in molti cominciano a pensare che arrivi subito dopo. Anche ieri il differenziale di rendimento tra Btp e Bund ha toccato un nuovo record da quando esiste l'euro e, quindi, da quando i diversi debiti pubblici sono apprezzati nella stessa valuta, eliminando gli effetti del cambio di valuta: 1,91%, poi sceso di poco.

Segno che gli investitori sono un po' nervosi riguardo l'Italia che, sei mesi dopo il panico finanziario innescato dalla Grecia, sembra molto più fragile: nel mezzo di una crisi politica, con stime di crescita del Pil dimezzate rispetto a un anno fa (all'1% annuo, se tutto va bene) e che si scopre più fragile del previsto, tutta protesa nel decidere come spendere miliardi di euro con la correzione al maxi-emendamento alla finanziaria mentre gli altri paesi insistono con ulteriori risanamenti.

Un segnale concreto è arrivato dall'asta del 12 novembre dei titoli di Stato italiani. La domanda degli investitori è rimasta alta, ma è stato alto anche il prezzo di vendita: per i Btp a 15 anni, per esempio, i tassi da riconoscere ai sottoscrittori sono saliti dal 3,98% al 4,81%. Conseguenza: il macigno del debito pubblico da ieri è un po' più pesante da portare per l'economia italiana. Lato positivo: secondo le stime degli analisti di Unicredit, nel 2010 restano soltanto altri 10 miliardi di euro di debito da piazzare sul mercato. Quindi, almeno per ora, non ci sono grossi rischi. Ma è solo una tregua.

Il fondo europeo di salvataggio per gli Stati, come la Grecia ieri e l'Irlanda oggi, che faticano troppo a trovare credito a prezzi accettabili, scatterà solo per il debito emesso a partire dal 2013. La notizia è arrivata ieri a Bruxelles dal G20 di Seoul, dal quale la linea tedesca di rigidità estrema è uscita sconfitta ed ha riportato un po' di normalità: per ora sembra archiviata l'ipotesi del cosiddetto haircut, cioè l'idea che i detentori del debito pubblico di uno Stato in bancarotta vengano risarciti solo in parte dagli interventi di salvataggio, pagando quindi comunque un prezzo per aver sostenuto uno Stato sovrano attraverso l'acquisto dei suoi titoli pubblici.

In compenso, la Germania di Angela Merkel è riuscita a moderare un po' la linea americana al G20: dal comunicato finale del vertice sono scomparsi i riferimenti ai tetti ai surplus commerciali. Tradotto: visto che Washington vuole che la Cina esporti di meno ma non riesce a convincerla a rivalutare drasticamente lo yuan, la sua moneta sovrana, per rendere le sue merci più costose rispetto quelle americane, sperava di ottenere l'impegno a limitare volontariamente l'export. Invece niente: la Repubblica Popolare Cinese rimane l’unico soggetto a poter determinare la propria politica economica e monetaria.

Il G20 s'impegna solo a vigilare sugli eccessi di volatilità delle monete e a condannare le svalutazioni competitive. In pratica una disapprovazione ufficiale della politica monetaria degli Stati Uniti che continuano a stampare dollari per sostenere la propria economia, mettendo però a soqquadro il mercato delle materie prime che è (ovviamente) quotato in dollari e danneggiando le economie emergenti come il Brasile che vedono le loro monete rafforzarsi indebitamente rispetto al dollaro, così che i loro prodotti da esportazione diventano meno competitivi.

L'Italia, in tutto questo, si limita a fare da spettatore. E il Ministro degli Esteri Franco Frattini deve constatare: "L'impegno italiano di molti altri paesi contro le speculazioni internazionali è serio, ma c'è il problema sul regime dei cambi e come si è visto né gli Stati Uniti né la Cina sono in condizioni di risolverlo ora". L’unica sicurezza concreta per l'Italia è che l'Euro resta forte, scambiato a $ 1,37, nonostante le difficoltà di molti Stati dell'euro zona. Le esportazioni italiane, quindi, non vengono aiutate dal tasso di cambio, che le rende più costose sui mercati mondiali.

Il problema principale per l'Italia, infatti, resta quello della bassa crescita che, in prospettiva, rende più difficile sostenere il peso del debito. I parametri in base ai quali si decide oggi della vita e della morte delle nazioni sovrane sono infatti i rapporti debito/Pil (in Italia al 116%) e deficit/Pil (in Italia al 5,1%). Quindi se il Pil va giù il rapporto schizza alle stelle ed il nostro paese entra nel mirino degli speculatori.

Il Pil, dice l’Istat con gli ultimi dati, non crescerà più dell'1% nel 2010. E mentre il debito continua a crescere, le entrate si confermano in calo: -1,8%, dice Bankitalia nell’ultimo bollettino con il Tesoro che cerca come sempre di ridimensionare. Se a questo si aggiunge che dopo le prime analisi i tecnici della Camera stanno già mettendo in dubbio l'esistenza reale dei soldi che il governo vuole spendere con la finanziaria e che, elezioni o meno, c'è il rischio che la politica economica italiana resti congelata per molti mesi, si capisce perché, forse, quello  del Financial Times più che un refuso, somigli ad un'anticipazione.

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