di Giuliano Luongo

La chiusura del vertice dei G20 a Seul la scorsa settimana ha portato con sé il prevedibile carico di osservazioni, aspettative deluse e soprattutto di tentate previsioni per il futuro dei principali attori economico-politici coinvolti. Al centro delle attenzioni di analisti più o meno competenti, ci sono stati come da copione gli Stati Uniti e la Cina e le loro relazioni politiche ed economiche.

Prima di entrare nel vivo delle trattative non dobbiamo dimenticare che, come accade durante il più elitario G8, i partecipanti al meeting sono stati accolti dalla folla prevedibilmente non festante: ben diecimila manifestanti (ridotti a tremila nelle stime della pubblica sicurezza, che mostra un modus operandi comune dal Manzanarre al Reno) hanno espresso il loro dissenso nei confronti dei leader mondiali. Tra le loro fila hanno marciato studenti, rappresentanti di ONG, sindacalisti e privati cittadini in maggioranza sudcoreani, uniti al grido di “le persone non devono pagare per la crisi”.

Abbandonando questa parentesi sociale, si può tentare di dare uno sguardo al tentato progresso fatto nelle relazioni economiche est-ovest. Il primo accordo, che doveva andare in porto con relativa facilità, era quello tra i governi di Washington e Seul, intenzionati a portare avanti l’intesa commerciale nei settori automobilistico ed alimentare del 2007 per poi trasformarla in un accordo di libero scambio: i rispettivi ministri del commercio hanno percepito lo stallo in quanto incapaci di produrre un impegno reciproco che non danneggiasse troppo i rispettivi mercati interni del lavoro. La titubanza statunitense ha pesantemente contribuito a far impantanare il dialogo.

E veniamo alla Cina. Hu Jintao ha aperto il vertice cercando di creare un clima di generale benevolenza, aprendo ad una “nuova era di cooperazione con gli Stati Uniti”: questo si è tradotto nel semplice desiderio di un incontro “faccia a faccia” per discutere la pesante questione dell’ancoraggio della valuta cinese a quella americana ed i problemi che ne derivano direttamente. Come noto, non si tratta di una questione risolvibile senza il pieno consenso delle autorità cinesi, unici soggetti in grado di dare ordini alla Banca Centrale di questo paese.

La politica dello yuan debole è stata essenziale per favorire le esportazioni e per contenere allo stesso tempo la domanda privata per beni di consumo, in particolare quelli da importazione. Le critiche statunitensi si sono concretizzate in un generico invito ad un sistema dei cambi internazionalmente più liberista ed orientato al mercato, abbandonando questo sistema di cambi fissi autogestiti. Obama non è riuscito ad ottenere nulla di tangibile alla fine del meeting, se non la promessa per un incontro successivo sul tema in territorio americano per l’anno venturo.

Il secondo punto d’interesse ha riguardato il ruolo internazionale del dollaro: i rappresentanti dei paesi BRIC (Brasile in primis, stavolta) hanno fatto pressione per intavolare discussioni sul tema della sostituzione (almeno parziale) della valuta americana come unico intermediario degli scambi. Il discorso è caduto nel vuoto per l’ennesima volta, con l’interlocutore a stelle e strisce ben più preoccupato di risolvere esclusivamente la questione cinese.

Va comunque segnalato che il movimento congiunto dei BRIC verso questa decisione è comunque un evento d’interesse per misurare la compattezza del fronte delle nuove economie: sarà poi ancor più interessante vedere su quale nuova valuta di riserva internazionale convergeranno gli interessi dei BRIC, visto che nessuno di essi ha un moneta così forte ed universalmente accettata. Solo la Cina parrebbe avere aspirazioni simili, fondabili sul peso internazionale della sua politica monetaria: sono noti da tempo i progetti di una alternativa al dollaro da proporre, ad uno stato iniziale, limitatamente ai mercati asiatici, ma in ogni caso non sono stati ancora fatti progressi tangibili.

Ha fatto discutere la nuova proposta di controllo economico internazionale degli USA, che consisteva in un accordo per fissare il tasso annuo di crescita delle economie al 4%: una misura di protezionismo internazionale a dir poco assurda, che per avvantaggiare paesi incapaci di competere nel campo produttivo taglierebbe le gambe ai nuovi arrivati. Non pensiamo solo alla vertiginosa crescita in doppia cifra dei cinesi, ma anche un paese come la Germania, che ha risultati di poco superiori a questa soglia ipotizzata, subirebbe danni enormi: ne risentirebbe di conseguenza tutta la stagnante regione europea, che continua ad essere trainata dai tedeschi. La proposta non è stata comunque bocciata in toto, ma solo rimandata al prossimo meeting G20 l’anno venturo.

Tra i pochissimi punti d’intesa raggiunti a Seul, va segnalato l’affidamento al FMI di compiti di controllo sulla stabilità finanziaria dei paesi per lottare meglio contro gli squilibri internazionali assieme ad una magra promessa fatta dagli stati volta all’impedimento delle svalutazioni competitive.

Tirando le somme, non dobbiamo bollare il summit come il solito incontro di “transizione” che ha solo rimandato la soluzione di pesanti problematiche, ma possiamo vederlo come un primo banco di prova delle rinnovate relazioni economiche internazionali dopo il recente terremoto interno al FMI. A Seul gli Stati Uniti sono apparsi abbastanza grintosi, con proposte oggettivamente inapplicabili e pronti ad esigere pacatamente un dietrofront dei cinesi i quali, forti proprio delle conquiste in seno al Fondo (e del fatto di avere tuttora la morsa stretta sul debito americano), sanno di poter condurre il gioco in maniera più attiva della loro principale controparte.

Bisogna vedere come la Cina (e gli altri tre BRIC al seguito) riuscirà a gestire questo nuovo prestigio nei successivi incontri con gli Stati Uniti e gli altri partner: di fronte ad un governo di Washington che cerca ancora di esercitare un’influenza che va sfaldandosi, Pechino dovrà lavorare molto su alleanze nuove e vecchie per spostare con decisione l’ago della bilancia degli equilibri internazionali sul proprio territorio. I nuovi banchi di prova saranno i prossimi incontri APEC e le nuove dinamiche interne al FMI, in particolare riguardo le proposte di ricalcolo dei DSP.

 

 

 

 

 

 

 

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