di Ilvio Pannullo

Ci sono forse dei problemi nel sistema bancario italiano? Se si, quali problemi? A sentire gli stessi uomini che erano in sella quando la macchina della finanza rischiava di travolgere l’intero sistema economico, anticipando la fine del mondo, va tutto bene. L’economia sta tornando a crescere, a tratti saltella. Nelle parole dei banchieri, il presente e il futuro prossimo sono tornati a dipingersi di rosa. Donde la domanda: sicumera, tracotanza o malafede?

Perché, spiega il manager, i lunghi mesi dell'uragano finanziario il sistema creditizio italiano ha dimostrato grande solidità e ora è pronto per una nuova stagione di crescita. Nei giorni scorsi, non commentando i risultati del terzo trimestre dell'anno, i capi delle grandi banche nazionali hanno fatto sfoggio di ottimismo. Gli utili crescono di nuovo. I costi sono sotto controllo. Aumentano i prestiti alla clientela mentre calano le rettifiche sui crediti a rischio. E anche le commissioni hanno ripreso a correre.

Perché preoccuparsi, allora? I conti delle banche tengono. Di più: migliorano. "Risultati incoraggianti", ha commentato il numero uno di Intesa San Paolo, Corrado Passera, sottolineando la validità di un modello di business "che c'ha fatto attraversare la crisi". E neppure Federico Ghizzoni, da poche settimane al comando di Unicredit dopo l'uscita traumatica di Alessandro Profumo, ha rinunciato a seminare parole di speranza: "Siamo nella situazione giusta per migliorare i nostri risultati". Insomma, forse non è ancora il migliore dei mondi possibili, ma siamo sulla buona strada a voler credere ai banchieri.

Questo, in sintesi, il messaggio che i padroni dei mercati si sono sforzati di mandare agli investitori grandi e piccoli. Sforzo encomiabile, dal loro punto di vista. Peccato che in borsa ci abbiano creduto in pochi. Lo dimostra l'andamento dei titoli bancari nelle ultime due settimane, in concomitanza con la presentazione dei conti trimestrali. Tempo brutto, anzi pessimo, con le quotazioni che hanno messo a segno forti ribassi, solo parzialmente recuperati con il mini rimbalzo che ha segnato la fine della scorsa settimana. In una ventina di giorni Unicredit ha perso il 10%, mentre Monte Paschi è arretrata del 12% circa, per citare solo le banche a maggior capitalizzazione. Tutte performance peggiori rispetto all'andamento di borsa nel suo complesso in ribasso del 4% in quello stesso arco di tempo.

Sui titoli finanziari in genere ha pesato l'effetto del debito sovrano, innescato dal possibile crack dell'Irlanda. Non sfugge il fatto che il sistema bancario italiano abbia sofferto in misura maggiore rispetto quello di altri paesi. Cosa è successo, dunque? Il fatto è che una lettura attenta dei conti fa cadere almeno in parte alcune delle rassicuranti certezze diffuse dai banchieri nostrani in questi giorni.

È vero, nell'ultimo trimestre i profitti sono tornati a crescere, ma la redditività è comunque ancora molto lontana da quella degli anni d'oro del boom della finanza (fino cioè al 2007). Se poi si prendono in considerazione i conti dei primi nove mesi dell'anno si scopre che il dato sui profitti risulta ancora inferiore a quello dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2008, quando cioè la crisi dell'economia era già conclamata.

Per effetto del basso livello dei tassi, continua inoltre a calare il cosiddetto margine di interesse (mark-down), cioè la differenza tra i proventi dei prestiti alla clientela e gli interessi pagati ai depositanti. E allora, a sostenere il conto economico, sono soprattutto le commissioni, in particolare quelle sull'attività d’intermediazione e gestione patrimoniale. In altre parole si tratta dei costi che gravano sui risparmiatori che si affidano alla banca per i propri investimenti. Unicredit, per esempio, ha visto aumentare questa voce dai 5,6 miliardi incassati nei primi nove mesi del 2009 ai 6,4 miliardi dello stesso periodo di quest'anno.

C'è poi il capitolo forse più scottante. Quello dei crediti a rischio e delle rettifiche che vanno a coprire eventuali insoluti, cioè quei prestiti che vanno in sofferenza e non vengono più ripagati. Le ultime statistiche dell’ABI, l'associazione bancaria italiana, indicano un forte aumento delle sofferenze, cioè la categoria di prestiti con le maggiori probabilità di non essere restituiti. Non potrebbe essere altrimenti visto che l'economia stenta a ripartire e aumentano le aziende in difficoltà. I crediti deteriorati di Intesa San Paolo ammontano a 20,8 miliardi. A metà del 2009 si aggiravano sui 16,6 miliardi. La Monte Paschi nello stesso periodo è passata da 9,8 a 11,6 miliardi.

Tuttavia, quasi tutte le maggiori banche italiane segnalano un calo delle rettifiche, cioè le perdite conclamate legate ai crediti a rischio. Quello che prima, cioè, era registrato nella contabilità dell’istituto come un credito viene “rettificato” e non conteggiato più fra gli attivi della banca. Intesa per esempio parla di un "significativo calo" di questa voce nei primi mesi del 2010. Com'è possibile?

L'impressione, confermata anche da alcuni dati di bilancio, è che da mesi ormai le banche siano un po' meno prudenti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da loro in periodo come quello che stiamo vivendo. In pratica evitano di premere sull'acceleratore delle rettifiche, anche se i crediti a rischio aumentano. E tutto questo, ovviamente, serve a fare il lifting al conto economico, aumentando gli utili. L'unica cosa che veramente interessa ai banchieri.

Bilancio alla mano si scopre così che il grado di copertura delle sofferenze è passato in nove mesi dalla 63 al 61% per Unicredit e dal 67 al 65% nel caso di Intesa. Sono ancora margini rassicuranti, ma ci sono banche come la Popolare Milano che sono scese a quota 53% mentre il Monte Paschi naviga intorno al 56%. Come dire che in futuro sarà sempre più difficile per le banche far leva su questa voce di bilancio per migliorare gli utili. Prima o poi dovrà essere il business bancario e non i giochetti contabili a far crescere la redditività. E questo può essere un problema.

Lungi dal sostenere una ripresa che non c’è le banche italiane infatti, in questa fase, hanno limitato la loro offerta di credito a quanto richiesto dalle imprese che, con gli ordinativi in calo ed i crediti sempre in perenne sofferenza, stentano a vedere la fine di questa crisi. Figurarsi dunque chiedere nuovi prestiti. Le condizioni dei mercati internazionali e soprattutto il bassissimo ed artificiale livello dei tassi di sconto incentivano, così, a trovare sempre nella speculazione la strada per guadagnare soldi facili e veloci.

Una strada pericolosa che ha già mostrato ai mercati di tutto il mondo verso quali disastri è in grado di condurre. C’è tuttavia da scommettere che per la proverbiale avidità dei banchieri questo non rappresenti un problema. Dopotutto sempre questa crisi ha dimostrato che nonostante siano loro a sbagliare, le perdite e i debiti eventualmente accumulati nel folle gioco di una finanza creativa, deregolamenta e completamente scollegata da una vera e lungimirante logica produttiva, sono sempre puntualmente scaricati sulle spalle degli Stati.

Spalle larghe perché sostenute da milioni di cittadini sempre pronti a farsi mungere dalla classe politica, ogniqualvolta questa si presenti con conti resi troppo amari dalla consueta pratica - si potrebbe dire quasi fisiologica - di socializzare le perdite accumulate dal sistema. Un sistema che di certo non può essere messo in discussione da quanti, giocando con queste regole, hanno guadagnato fortune incalcolabili. Bisognerà dunque sperare nella capacità di tutti i players internazionali di fare squadra e imporre non nuove regole (applicate peraltro dagli stessi istituti economici internazionali che hanno reso possibile il disastro in cui ci troviamo ora) ma un nuovo sistema.

Le nuove regole di contabilità stabilite dal Basilea 3 non possono essere certo la risposta a questa crisi. Fino ad ora ci hanno raccontato che le carte del gioco erano regolari, ma perché è il tavolo di gioco a essere truccato. Bisogna dunque cambiare il tavolo e rimettere in discussione alcuni dogmi dell’economia moderna, da troppo tempo inchiodata sulle tesi liberiste dei vari Friedman e dei suoi Chicago boys. A cominciare dalla centralità del dollaro negli scambi commerciali internazionali, magari iniziando a vendere tutte le materie prime (petrolio in testa) in mercati valutari aperti, quotati cioè tanto in dollari quanto in euro o in altre divise. Insomma scuotere le fondamenta dell’impero.  

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