di Ilvio Pannullo

I 27 paesi dell’Unione Europea hanno recentemente raggiunto un'intesa su un fondo permanente per i paesi dell’area euro. Viene così solo parzialmente soddisfatta la richiesta della cancelliera tedesca Merkel: il presidente dell’eurogruppo Van Rompuy dovrà preparare un rapporto sulla "eventuale revisione" del Patto di Lisbona, un accordo nato già superato. Il momento è di quelli decisivi: si dovrà infatti sperare che i gruppi dirigenti degli Stati membri riescano a trovare la quadra per assicurare all’economia europea una comune ed equa gestione.

Davanti alla sempre più evidente crescita, in termini tanto economici quanto politici e militari, di paesi come il Brasile, la Federazione Russa, l’India e la Repubblica Popolare Cinese, con l’impero angloamericano in piena crisi di credibilità, un’Europa divisa da inutili ed anacronistici nazionalismi, non potrà infatti che crollare sotto il peso di una competizione ingiusta e brutale. Una sfida che, se giocata con le regole attuali, non potrà che essere persa.

La crisi americana, nata dallo scoppio dell’ultima bolla speculativa che ha travolto la credibilità di tutte le istituzioni finanziarie, nessuna esclusa, ha innescato un cambiamento negli assetti e nei rapporti internazionali oramai inarrestabile e per certi aspetti anche auspicabile.

Per recuperare la fiducia dei consumatori e dei mercati, chi ha potuto - quegli stati cioè che sono ancora nelle condizioni di poter controllare politicamente il settore bancario e la leva monetaria - è  intervenuto stampando carta e massimizzando l’incidenza del debito sull’economia reale. In poche parole si è deciso, per salvare la faccia e il salvabile, di scaricare le disastrose conseguenze della scellerata gestione dell’economia sulle spalle di quelle giovani generazioni, che domani dovranno pagare con le proprie pensioni e i propri diritti sociali colpe di altri.

Recentemente, dopo il primo QE (quantitative easying) la Federal Reserve Bank ha deciso di stampare altri 600 miliardi di dollari da iniettare direttamente nella pancia di quegli istituti bancari ancora pieni di titoli strutturati, passando prima per l’acquisto di titoli del debito pubblico statunitense: quegli strumenti finanziari derivati che prima della crisi erano guardati dagli esperti del settore come l’ultima grande invenzione per la ripartizione del rischio, ora valgono meno della carta straccia. L’ennesima illusione.

Se i problemi sono comuni, purtroppo però non si può dire lo stesso delle soluzioni. Se l’impero può sopperire al crollo della credibilità del proprio sistema bancario e finanziario con la violenta credibilità delle proprie forze armate dislocate in tutti gli angoli del mondo, altrettanto non si può dire dell’Europa. Da qui la preoccupazione franco-tedesca a mantenere alta la reputazione della divisa europea, garante di quel complesso economico produttivo che ha fatto la fortuna del nostro continente e che adesso è a rischio delocalizzazione.

Gli Stati Uniti hanno appena iniziato le pratiche di quello che, inevitabilmente, sarà il loro fallimento. Basta qualche cifra per poter comprendere l'entità del problema: nel 2007 la Cina comprava circa la metà dei titoli del debito pubblico americano di nuova emissione; nel 2008, nel pieno dell'ultima crisi finanziaria ne ha acquistato circa il 20% ; nel 2009, cioè l'anno scorso, ne ha acquistato solamente il 5%. La politica economica cinese è dunque chiarissima: il dragone rosso si ritira dal mercato dei titoli del debito pubblico americano.

Dal momento che la Repubblica Popolare Cinese copriva da sola, sostenendolo attraverso il suo titanico disavanzo primario, la gran parte del debito pubblico americano, si impone una domanda fondamentale: chi paga adesso? Chi riequilibrerà la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti d'America? La risposta deve essere chiara: nessuno. In queste condizioni non ci sarà nessuno disposto a sostenere l'economia americana.

La situazione è drammatica, in quanto gli Stati Uniti d'America rimangono pur sempre la prima superpotenza militare al mondo ed è dunque fuori discussione l'idea che si limitino semplicemente a prendere atto del cambiamento dello status quo. In questo sono sempre stati molto coerenti, l’hanno sempre detto: il tenore di vita degli americani non è in discussione né potrà mai esserlo.

La situazione è molto più grave di quella che sembrano descrivere gli economisti tedeschi e inglesi quando pensano a piani di rigore e a misure di feroce austerità per ridare alle proprie divise una dignità e una credibilità spendibili sui mercati mondiali. Il problema, infatti, non è solo ravvisabile nella sicura inflazione che questa enorme emissione di moneta creerà; il punto centrale è comprendere chi farà presente agli americani che il loro livello di consumi non è più sostenibile.

La situazione cui stiamo per assistere potrebbe essere l'inizio della catastrofe: quella che si potrebbe definire - mutuando un termine dalla fisica classica e trasportandolo in un ragionamento macroeconomico - una transizione di fase. Come quando l'acqua viene fatta bollire prima che si trasformi in vapore acqueo, evaporando non appena raggiunge la temperatura limite. Se per l'acqua è un cambiamento di stato, in termini economici e sociali rappresenta il collasso del sistema. In questo momento l’acqua sta iniziando a bollire. Si guardi alla Grecia per una conferma.

Qua e là si sentono voci che sostengono che l’Europa imploderà e che la Grecia, nonostante l’adozione del piano di austerità, sarà la prima a cadere, seguita da Spagna, Portogallo e Irlanda. C’è tuttavia anche chi sostiene che questo non si verificherà, perché tutti i paesi europei sono legati fra loro in un immenso domino finanziario di debiti. E questo corrisponde sicuramente a verità. Inoltre, le grandi banche europee si trovano direttamente esposte in Grecia, come ad esempio la Crédit Agricole che, secondo il Wall Street Job Report, è la banca più colpita dalla crisi.

Secondo le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali, se si aggiungono Spagna e Portogallo, l’esposizione delle banche francesi salirebbe ad un ammontare di 306 miliardi di dollari, un vero e proprio suicidio per i galli cisalpini se si abbandonassero questi paesi alla loro sorte. L’unica soluzione si trova nella creazione di una struttura che metta in atto delle condizioni risolutive e che consenta di sanare i crediti a rischio: un’Agenzia Europea del Tesoro che presti in nome dell’Europa.

Le ipotesi sul tavolo sono diverse. Un Cers, cioè un comitato europeo del rischio sistemico, verrà presto messo in opera, così come un Fondo Monetario Europeo (FME), associato ad un sistema europeo di sorveglianza finanziaria (SESF). Per convincersene, basta leggere le recenti dichiarazioni dei maggiori protagonisti di questa crisi sistemica. Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del FMI, nel marzo 2010 ha dichiarato: «Necessitiamo di un’autorità europea per la risoluzione delle crisi, dotata di potere e di strumenti per gestire nel miglior modo il caso di cedimenti di banche transfrontaliere».

Jacques Attali, famoso economista, nel suo articolo «Dirigeants de l’Europe, agissez!» il 4 maggio 2010 ha scritto: «Deve essere decisa, già da domani, la creazione di un’Agenzia europea del Tesoro, immediatamente autorizzata al prestito in nome dell’Unione, e di un fondo budgetario che abbia mandato di controllo sulle spese dei paesi il cui debito supera l’ 80% del PIL» .

A queste dichiarazioni si aggiunga la posizione del ministro dell’economia tedesco, Rainer Brüderle, che in un articolo del 10 marzo 2010 su Reuters scriveva: «Qualsiasi fondo europeo che fosse creato per salvare economie in difficoltà dell’area euro, non dovrebbe intervenire che nel caso in cui fosse l’intera regione ad essere minacciata dal rischio insolvibilità di uno Stato membro». Segno evidente questo che anche i rigidi crucchi hanno iniziato ad essere sensibili rispetto ad un argomento che tempo fa li vedeva assolutamente contrari.

La verità è che siamo di fronte ad una crisi del debito. Un debito che è sistemico ed esponenziale, vista la natura intrinsecamente fraudolenta del sistema a riserva frazionaria in cui ci ostiniamo a vivere. Osservando infatti le economie teoricamente più avanzate, Inghilterra e Stati Uniti in testa, si può osservare da una parte un debito privato in costante crescita, con cittadini che non riescono più a rimborsare i loro crediti (vedi caso suprime); dall’altra, il debito degli stati, che iniettano migliaia di miliardi nelle banche e nell’economia per mantenere a galla il sistema, appare fuori controllo e paradossalmente espone gli stessi Stati al rischio della speculazione.

Secondo il Fmi, entro la fine del 2010 la Grecia sarà indebitata per il 123% del suo PIL, la Spagna per il 68%, il Portogallo per il 91 %, e l’ Italia per il 130%. Vista l’evoluzione dei tassi, queste cifre sono destinate ad esplodere. Occorrerà andare a cercare il denaro altrove, in una struttura sovranazionale. Una struttura che sicuramente non dovrà essere etero diretta dagli americani, ma realizzata attraverso una cooperazione politica tra i gruppi dirigenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Una gigantesca fuga in avanti, vista la conclamata insostenibilità dell’attuale sistema economico fondato sulla base di un trittico privo di senso: dal debito il consumo, dal consumo il lavoro.

Peggio di ogni altra cosa, ad essere spezzato è il patto sociale, perché è il popolo che sta per passare alla cassa, per una crisi causata dal gotha della finanza. Ammortizzatori e aiuti sociali si riducono al minimo, le pensioni non saranno più che un ricordo, mentre aumenta in modo esponenziale il numero di persone che perde il proprio impiego. La creazione di un Fondo Monetario Europeo, di un CERS, o di un qualsiasi altro organismo, non potrà che ritardare una scadenza che si rivelerà fatale e la disoccupazione, in qualsiasi modo venga affrontata, seguirà il modello della Spagna, che ha superato attualmente il 20 % di disoccupati.

Il patto sociale e il sistema di ammortizzatori e regole è in effetti spezzato, perché le nostre élites sono ormai incapaci di garantire il minimo, vale a dire il lavoro. Le leggi si stanno inasprendo ovunque e la democrazia è oggi in pericolo. Le sommosse in Grecia potrebbero essere solo il segnale d´inizio.

 

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