di Giuliano Luongo

Le fondamenta economiche dell’Europa tremano. Ancora profondamente scosse dal crack greco, che ha messo a nudo molti difetti strutturali e ruggini politiche all’interno dell’Unione, il colpo inferto dall’esplosione della bolla immobiliare irlandese ha innescato una reazione a catena che potrebbe infliggere danni molto seri all’intero sistema euro. Molte sono le speculazioni in corso provenienti dagli addetti ai lavori, dai capi di stato agli analisti, passando per i dirigenti del FMI: il nodo focale della discussione, arricchita dal non sorprendente sensazionalismo giornalistico più o meno politicamente interessato, verte sul rischio contagio e sulle possibili conseguenze. Tra queste, il possibile abbandono dell’euro, uno spettro già avvistato da alcuni durante “la tragedia greca”.

E’ dunque interessante ripassare le origini di questo terremoto per poterne comprendere l’entità e le conseguenze future e soprattutto per pesare la veridicità delle considerazioni delle Cassandre. La debolezza del sistema irlandese non è storia nuova: dopo un’apparente crescita - che le valse l’appellativo di “tigre celtica” - l’economia dell’isola iniziò a mostrare la sua fragilità, a causa di una ricchezza fondata sul mix di bolle immobiliari, di mercato ed alti stipendi (senza dimenticare la corporate tax più vantaggiosa al mondo), con il solo turismo a fornire una componente “sicura” di entrate.

Questa miscela è esplosa già agli albori della crisi internazionale: l’Irlanda è stato il primo paese dell’eurozona a sentirne gli effetti. Il governo guidato da Brian Cowen cercò di reagire, al 30 settembre 2008, con un pacchetto di salvataggio di 400 miliardi di euro per coprire il debito di sei banche irlandesi: tale misura fu ampliata di altri 85 miliardi per aiutare anche delle banche straniere con numerose attività sul territorio irlandese.

Il crack della Anglo Irish Bank (terza banca del paese), causato non solo dalla congiuntura ma anche dalla corruzione di alcuni dei suoi dirigenti, diede un altro brutto colpo all’economia del paese: il 31 dicembre 2008 il governo nazionalizzò l’istituto, in un’operazione di rifinanziamento di 5,5 miliardi di euro in soccorso anche di altre due banche. Questa instabilità portò, nel primo trimestre 2009, al declassamento del credito irlandese da parte di S&P e Fitch da AAA a AA+, con prospettive di ulteriore downgrading. La risposta governativa alla crisi si concentrò soprattutto sui tagli della spesa sociale, assieme ad un incremento della tassazione ed al taglio del 25% degli stipendi dei manager delle banche nazionalizzate.

Calcolando anche gli ulteriori tagli al budget 2010 (comunicati a dicembre 2009), l’economia irlandese non riuscì a trarne giovamento, con una crescita costante del deficit ed il continuo marcire del sistema bancario: elementi più che sufficienti per confermare, a luglio di quest’anno, il nuovo declassamento, stavolta da parte di Moody’s. Nonostante le proteste dell’agenzia irlandese per la gestione del debito, sia S&P che Fitch hanno confermato l’outlook negativo sull’economia irlandese, abbassando il rating ad A-. L’unica risposta pratica da parte del governo irlandese, dai primi di novembre è stata la preparazione di un piano economico quadriennale per la stabilità, volto a restaurare la fiducia degli investitori.

A margine di questo, ricordiamo come il commissario economico UE Olli Rehn, durante una visita in Irlanda, confermava che il paese non avesse bisogno di alcun supporto dall’Unione. E’ stato smentito il 16 di questo mese, quando i ministri europei delle finanze hanno gettato le basi per un bailout, vista l’apertura dei rischi di contagio per le banche continentali con attività oltremanica e l’instabilità crescente del valore dell’euro.

E veniamo così agli eventi più recenti. L’Irlanda ha esposto il piano quadriennale di austerità, che consiste in una manovra da 15 miliardi di euro tra tagli alla spesa pubblica (compresi licenziamenti) ed incremento della tassazione (diretta ed indiretta). Scopo ultimo: risanare l’economia quanto basta per poter ottenere il bailout congiunto da FMI ed Unione Europea per circa 85 miliardi di euro.

Dovrebbero chiudersi per la sera del 28 novembre gli incontri dei membri dell’Eurogruppo e dell’Ecofin per stabilire i dettagli del prestito. Molto probabilmente si opterà per dare 35 miliardi alle banche e lasciare il resto al risanamento del debito estero. Sono in via di discussione anche ulteriori prestiti bilaterali con Gran Bretagna e Svezia. 

Tutto questo ovviamente avendo una crisi circoscritta al territorio irlandese, cosa attualmente non certa. Parlando dei rischi per le banche, i “dirimpettai” britannici sono esposti tramite la Royal Bank of Scotland ed il gruppo Lloyds, che hanno perso rispettivamente il 5,3 ed il 4,4%; segue la spagnola Santander con 3,7% e la belga KBC col 3,3%. Tra le prossime vittime potenziali dell’ascia delle agenzie di rating vi sono anche le sussidiarie irlandesi dei gruppi tedeschi Allianz e Aviva.
E’ stato aperto inoltre il tema degli altri “paesi deboli”, le cui finanze sarebbero in condizioni simili a quelle irlandesi e pertanto foriere di ulteriori crack in altre zone d’Europa.

Il Portogallo è il primo sulla lista, per lo più a causa del deficit crescente (+2,8% year-on-year) e dei dubbi delle agenzie di rating, anche se dai vertici dell’Unione si tende a minimizzare facendo riferimento ad un’economia generalmente stabile con un sistema bancario solido e non tarlato dalla corruzione come quello irlandese. Segue a ruota la Spagna, paese il cui debito non ha esattamente uno stuolo di fan all’estero: Zapatero in persona si è attivato per rassicurare gli investitori pronti a vendere all’impazzata titoli spagnoli. Può sembrare strano, ma l’Italia non pare essere tra le principali preoccupazioni dell’Unione, in quanto paese non ancora a rischio contaminazione.

L’ultimo grande allarme è quello dell’abbandono dell’euro. Dubbi gravi sulla moneta unica erano trasparsi dalle dichiarazioni della Merkel, di certo non famosa per la qualità delle sue esternazioni durante momenti di tensione. Va però sottolineato da dove sia partito il gioco al rialzo sul possibile e prossimo decesso dell’euro, ossia dagli analisti britannici e da quelli americani, da sempre contrari all’esistenza stessa della moneta unica e pronti ad attacchi selvaggi in ogni occasione.

Da Bruxelles sono già partite voci rassicuranti, ma non è tanto nelle dichiarazioni politiche che va letta la quasi impossibilità della dissoluzione dell’eurozona, quanto nella vera realtà economica dei fatti: allo stato attuale, la crisi riguarda i paesi di “periferia” dell’Unione e non il centro dell’eurozona. Inoltre, smantellare il sistema euro porterebbe ad una serie di costi aggiuntivi che non solo danneggerebbero seriamente i paesi “stabili”, ma che affosserebbero definitivamente le economie di quelli più deboli, rendendoli praticamente nulli sul piano economico internazionale.

Non deve rimanere inascoltata la voce del popolo di fronte all’ennesimo disastro innescato dagli istituti di credito: visto il contenuto del piano di austerità, il grosso della crisi sarà pagato dai privati cittadini in moneta contante. A prescindere dalle idee geniali dei vari policy-makers, pare che non ci sarà mai uno strumento per evitare che le crisi danneggino chi non ne sia stato responsabile. Non resta quindi che osservare l’applicazione dei vari piani di risanamento e prestito, con gli occhi aperti su Bruxelles come sulla penisola iberica.

 

 

 

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