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di Mario Braconi
La situazione dei conti pubblici del Regno Unito è disastrosa: al netto del passivo provocato dagli interventi a sostegno degli istituti di credito in bancarotta, il debito è arrivato a sfiorare il 50% del PIL (era 35% circa nel 2007); se invece si considerano gli effetti del salvataggio obbligato di Royal Bank of Scotland e del Lloyd’s Group, il debito della Gran Bretagna si attesta appena sotto il 155% del prodotto interno lordo.
Lo scenario è quello caratterizzato da “lacrime e sangue”, impudicamente reclamati dal Governo ai cittadini del Regno. I quali ora sono costretti a fare esperienza diretta dei “vantaggi” di un’economia intossicata dall’ipertrofismo finanziario: non solamente i soldi delle loro tasse sono stati utilizzati (bruciati?) per rimediare agli errori catastrofici di manager incompetenti e irresponsabili, ma dovranno abituarsi all’idea che lo stato sociale, pure con tutti i suoi difetti e le sue inefficienze, è solo un ricordo del passato, mutilato com’è da tagli per miliardi di sterline l’anno.
In questo difficile contesto, gli spin doctor del partito conservatore hanno pensato bene di rianimare un concetto che nel corso della campagna elettorale aveva avuto ben poca visibilità: quello di “Big Society” (“Società Forte”, inteso come società autosufficiente, concetto opposto al “Big State”, ovvero “Stato Forte”). In effetti, dal punto di vista della comunicazione, è molto meglio parlare alla gente di uno Stato che dà loro gli strumenti di crescita e di sviluppo, anziché invitarla brutalmente ad arrangiarsi da sola: anche se il concetto è solo vagamente diverso, il primo funziona molto meglio. Al di là di tale ovvia considerazione, il concetto stesso della Grande Società di Cameron è molto vago.
In termini generali, l’idea del governo è quella di cancellare, in modo più o meno drastico e veloce, una serie di servizi normalmente forniti dallo Stato (scuola, trasporti, posta, supporto alle categorie svantaggiate) riallocandoli contestualmente ad associazioni di cittadini.
A dare supporto finanziario, una banca pubblica (la Big Society Bank, appunto) che avrebbe la “mission” di prestatore all’ingrosso: fornirebbe risorse ad altri soggetti, che a loro volta investirebbero nelle attività sociali. Secondo le stime contenute nel documento che illustra la “vision” del futuro ente finanziario, esso potrebbe contare su risorse per circa 10 miliardi di sterline (circa 12 miliardi di Euro).
Nicholas Timmins, che dalle colonne del Financial Times si è messo a far le pulci ai numeri del governo, ha tirato fuori numeri assai meno entusiastici: nel primo anno di operatività la banca della Società Forte potrebbe contare, infatti, su circa 300 milioni di sterline, di cui 200 erogati (“a condizioni di mercato”) dalle prime quattro banche del Regno Unito.
Queste però, a quanto pare, si riservano di studiare ed approvare preventivamente il “business plan” della banca di stato (ebbene sì, le stesse banche che sopravvivono grazie al governo fanno le difficili quando si tratta di dare qualche spicciolo in attività socialmente utili).
Circa 60 milioni potrebbero venire dai conti correnti cosiddetti dormienti, ovvero dai saldi di conti correnti bancari mai reclamati per un certo periodo di tempo (un fenomeno che “vale” complessivamente 400 milioni di sterline); i rimanenti 40 milioni sarebbero invece prelevati dai flussi prodotti dalla lotteria pubblica. Insomma un bilancio tenuto insieme con lo sputo, per così dire, per un’istituzione investita di notevoli responsabilità sociali. Il tutto senza considerare, nota ancora Timmins, che i 10 miliardi promessi dalla Big Society Bank si confrontano con l’attuale mercato degli investimenti in attività socialmente utili effettuati da fondazioni e da privati ricchi, attualmente stimato attorno ai 200 milioni.
Anche lasciando da parte le considerazioni di tipo strettamente quantitativo, è il concetto in sé di Società Forte a suscitare non poche perplessità, anche in campo conservatore: alcune delle contraddizioni intrinseche nel progetto di Cameron vengono messe a fuoco da Danny Krueger, un suo ex consigliere, sempre sul Financial Times: come dovremmo interpretare il progetto della Big Society? “Un’agenda morale (basata sul senso di responsabilità) o un’agenda di liberalizzazioni (basata sull’empowerment)?”.
Secondo Krueger, il successo del progetto Big Society è fortemente ipotecato dalle sue contraddizioni intrinseche: si tratta infatti di “una iniziativa del governo centrale che identifica il suo nemico nel… governo centrale; di un’organizzazione di base nata a Whitehall (ovvero, in seno al governo, n.d.r.)”.
Ed Miliband, sull’Indipendent, sottolinea come l’atteggiamento di Cameron, e soprattutto la sua fretta, dimostrino un approccio fortemente ideologico: secondo Miliband, il primo ministro sembra davvero convinto del fatto che una presenza minimale dello Stato produca una società forte. Il dibattito su Stato forte o debole, secondo il leader laburista, è però illusorio: “Qui si tratta di avere un governo che sia semplicemente in grado di operare in modo armonioso con le sue comunità e con la società civile.”
A dispetto dei paludamenti impiegati dal partito conservatore per confondere gli elettori (si è parlato di “conservatori rossi”, di “svolta verde”, di “conservatorismo compassionevole”) ora viene fuori il volto vero del partito di Cameron: profondamente determinato a perseguire i suoi obiettivi anche a costo di lesionare in modo irreversibile il tessuto sociale del paese. Un film già visto, ad inizio degli anni 80, con i governi Thatcher e il drammatico pessimismo sul futuro collettivo che ne è stato uno degli elementi distintivi.
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di Emenuela Pessina
BERLINO. Un lungo e travagliato corteggiamento per un matrimonio finale di portata storica: la Borsa di Francoforte (Germania del Sud) e la New York Stock Exchange (NYSE) Euronext statunitense si sono finalmente unite nel conglomerato azionario più grosso del mondo. E ora tutti gli occhi della finanza internazionale sono rivolti all’operazione; un affare che va a stravolgere l’assetto globale del mondo della finanza e che, indirettamente, potrebbe aiutare a cambiare le regole del gioco.
L’assimilazione tra Deutsche Boerse di Francoforte e NYSE Euronext va a produrre un mostruoso complesso economico del valore combinato di 25.7 miliardi di dollari statunitensi: una cifra, inutile dirlo, che già di per sé garantisce al neogruppo un ruolo di predominanza nel panorama globale del mercato azionario. Anche perché, quando si parla di economia e denaro, ancor’oggi è valido il buon vecchio proverbio secondo cui “piove sempre sul bagnato”: più le Borse sono grandi, più attraggono gli investitori, in una spirale infinita e viziosa.
Inoltre, il nuovo complesso va ad ampliare fisicamente la portata delle due parti e le potenzialità che ne derivano. Deutsche Boerse e NYSE Euronext insieme avranno una base sulle piazze di Francoforte, Parigi, Amsterdam, Londra e New York, assicurandosi così la priorità sui principali appuntamenti economici di società europei e nordamericani. Senza dimenticare che l’operazione comporta una riorganizzazione della struttura interna delle parti, portando a licenziamenti strategici e a grandi risparmi per entrambe: si stima un risparmio di oltre 300 milioni di dollari.
Ulteriori tentativi di fusione tra Francoforte e New York erano già stati fatti qualche anno fa, più in particolare nel 2008 e nel 2009, ma si risolsero in un nulla di fatto: preoccupata di diventare una succursale europea di NYSE, la Borsa di Francoforte avrebbe interrotto le trattative perché in possesso di meno capitale rispetto alla corrispondente statunitense. In realtà, qualcuno già sospettava che le trattative non fossero mai state interrotte e che avessero portato lentamente, e per vie tortuose, al momento del deal vero e proprio, all’operazione di portata storica conclusasi ieri.
E, in effetti, questa volta i rumors erano molto più energici che in passato: per la prima volta, Francoforte e New York avevavo confermato esplicitamente lo “stato avanzato delle contrattazioni”. Senza dimenticare che le indiscrezioni sono arrivate alla stampa più autorevole di tutto il mondo già settimana scorsa, nonostante il carattere segreto delle trattative, tanto confidenziale da essere degno delle più misteriose cospirazioni.
Certo, com’è d’uso, il mondo della finanza avrebbe preferito lasciar trapelare la notizia a cose fatte. L’accordo ancora non c’è, si affrettavano a spiegare a New York, dove la preoccupazione degli operatori di Borsa è ora soprattutto di natura politica. Deutsche Boerse e NYSE Euronext volevano unirsi in una nuova società paritaria in cui i due partner hanno lo stesso potere decisionale. Di fatto, però, i tedeschi possiedono il 60% del capitale di mercato e vanno a rappresentare la maggioranza, assumendosi così il ruolo predominante.
In poche parole, l’affare significa per gli Stati Uniti il naufragio di una bandiera, perché NYSE Euronext rappresenta il simbolo del capitalismo nordamericano e già la prospettiva della fusione aveva suscitato il panico tra gli investitori della Big Board. “Se come americani crediamo nel mercato libero - aveva provato a giustificare Ron Paul, deputato conservatore della House of Representatives degli Stati Uniti - non possiamo essere contrari all’assimilazione”. Eppure la tensione c’è, e si sente.
La stampa tedesca aveva già fatto notare che, da sola, la Borsa di NYSE Euronext non aveva futuro perché il suo mercato va contraendosi sempre di più. Per il quarto trimestre 2010, NYSE ha registrato un guadagno in calo del 21% rispetto allo stesso trimestre dell’anno prima, soprattutto a causa del rafforzamento del dollaro sulle altre monete e alla diminuzione del volume d’affari sui due continenti. E i bilanci, per l’economia, significano più di ogni dichiarazione, anche oltreoceano.
Ma, soprattutto, l’operazione costringe ora il mondo a focalizzare l’attenzione su una nuova tendenza del mercato globale. Le tradizionali piazze nazionali sembrano destinate a un’esistenza difficile causa la crudele concorrenza delle piattaforme virtuali: le multinazionali dei mercati finanziari - di cui Francoforte e NYSE unite sono il più mastodontico esempio - potrebbero rappresentare per loro l’unica via di sopravvivenza. Tant’è vero che il matrimonio tra Francoforte e NYSE Euonext fa passare in secondo piano, per la sua grandezza, tutte le precedenti unioni di questo tipo. Come nelle ere più arcaiche, è la grandezza a fare paura ai nemici e a dare fiducia ai cortigiani.
La fusione internazionale di diverse piazze nazionali, inoltre, potrebbe aiutare garantire una maggiore trasparenza nelle operazioni. Durante la crisi si è manifestato uno dei punti deboli fondamentali della finanza, e cioè un sistema di mercato globale e interdipendente costretto a regole nazionali spesso in disaccordo tra loro.
Come in un domino, i problemi di ogni singola nazione sono diventati i problemi delle altre: un controllo più severo è però stato impedito dalle divergenze tra i singoli Governi. La fusione tra Francoforte e NYSE potrebbe costringere i due mercati ad approvare un regolamento comune di là degli interessi singoli. E così per eventuali altre fusioni, magari quelle delle piazze asiatiche. Il matrimonio è ormai cosa fatta: tutto il resto, forse, è fantafinanza. O forse l’inizio di una sua nuova fase..
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di Giuliano Luongo
L’Unione Europea e l’Eurozona, tanto per cambiare, sono in un momento critico. L'ennesimo, tenendo a mente solo le ultime due settimane. Ma tralasciando la facile quanto dovuta ironia, non rimane che attenersi ai fatti: il recente summit europeo mirante a lanciare una strategia comune per la messa in opera di una revisione del fondo europeo di salvataggio da 440 miliardi di euro (per potenziarne il potere prestatorio per combattere la crisi) nell’ottica di un generale piano per potenziare la competitività dell’UE è stato tutto fuorché un successo.
La revisione, che sulla carta doveva essere guidata da Francia e Germania, è stata frenata in potenza da numerose reticenze degli amici crucchi, per poi impantanarsi in maniera evidente una volta arrivata al confronto con gli altri paesi europei. La spinta riformatrice congiunta franco-tedesca, apparente motore di tutto il meeting, puntava all’importante quanto complesso obiettivo di rafforzare e rendere più compatto il “governo economico” dell’Unione.
Tale cosiddetto “patto per la competitività” concerneva una cooperazione rafforzata limitata ai 17 paesi dell’eurozona, onde lavorare principalmente sui paesi euro esposti ai rischi principali, e poi eventualmente coinvolgere gli altri membri dell’Unione dalla bandiera gialloblu.
Già riguardo a questa idea, di paternità francese, i tedeschi avevano mostrato tutte le loro perplessità. Da Berlino, infatti, oltre alla solita fuffa riguardo una maggiore enfasi su crescita e competitività, nonché disciplina finanziaria, è stato posto l’accento sulla possibilità di sviluppare un sistema di risoluzione delle crisi bancarie per ogni nazione, accanto all’adozione di emendamenti costituzionali volti a limitare l’indebitamento pubblico (il cosiddetto “debt brake”, presente proprio nell’ordinamento tedesco ed in quello austriaco).
I tedeschi inoltre chiedono l’innalzamento, paese per paese, dell’età pensionabile ed una maggiore integrazione nel riconoscimento di diplomi e titoli di studio tecnici ottenuti in altri paesi dell’Unione. Idee come l’armonizzazione fiscale e la sospensione degli accordi ravvicinabili alla fattispecie della “scala mobile” sono altri temi cari a Berlino, sui quali però non v’è accordo sul come introdurli non solo sul piano del dialogo con i francesi, ma anche nella stessa casa tedesca.
Nonostante la mancanza di coordinamento e di coerenza tra le posizioni francese e tedesca si fosse fatta notare ancor di più proprio a 24 ore dall’inizio dell’incontro (la Merkel aveva proposto un approccio intergovernativo all’integrazione economica, opposto a quello centralista suggerito da Delors), i leaders dei due paesi hanno cercato di fingere convergenza una volta giunti di fronte agli esimi colleghi una volta al summit.
La Francia ha proposto una maggiore flessibilità del Fondo di stabilità, senza il bisogno di incrementarne il volume, mentre tedeschi hanno proposto le loro idee annunciate al mondo già prima dell’incontro: questa proposizione “bicefala” ricca di posizioni contrastanti è stata presentata tramite un documento - dagli stessi definito come “lista informale” - di misure, misure le quali hanno fatto scattare le numerose obiezioni tra i presenti. Notare come gli ufficiali francesi e tedeschi abbiano poi candidamente ammesso la presenza di scarso accordo tra i loro stessi governi su cosa inserire nella lista.
Il meeting si è svolto all’insegna delle perplessità di tutti i paesi europei di fronte al progetto dei franco-tedeschi. In primo luogo, la vaghezza delle misure da prendere ha reso il tutto poco chiaro, mentre i pochi punti comprensibili sono stati ulteriore strumento di divisione. In primo luogo, l’idea di tagliare fuori buona parte dell’Unione restringendo la cooperazione rafforzata alla UE-17, ha fatto storcere il naso a molti, non solo tra gli esclusi. In secondo luogo, le incertezze del motore riformatore hanno spinto gli altri paesi a un freno. Molte perplessità sono scaturite in seguito alle richieste tedesche di austerità, sia riguardo le misure stesse, sia sul fatto che mentre la Germania le proponeva come obbligatorie, la Francia non pareva dello stesso avviso.
Alcuni leader sono stati poco favorevoli a stabilire un nuovo accordo vincolante riguardo pensioni, tasse e politiche pubbliche che potrebbe finire per essere applicate in tutta l’Unione Europea. Il Primo Ministro belga Yves Leterme si è definito in “totale disaccordo” con il piano: il Belgio è uno dei paesi dell’eurozona che usano la scala mobile, e non vuole rinunciare ad una misura economica largamente affermata nel suo paese. Il Financial Times riporta inoltre che, stando ad alcune voci interne, il Primo Ministro polacco Donald Tusk è stato uno dei più critici delle idee “riformatrici” presentate all’incontro, specie sulla decisione di applicare le riforme a solo parte dell’Unione.
Persino Austria ed Olanda, paesi considerati come alleati tradizionali della Germania in tema di decisioni concertate, si sono uniti al coro di obiezioni che ha accomunato più della metà dei 27 paesi comunitari: il problema viene visto proprio nell’idea di entrare in maniera così invasiva in aree decisionali riservate ai parlamenti nazionali, aree in cui essi debbono decidere in maniera autonoma
Di fronte alla forte opposizione al piano franco-tedesco, Sarkozy ha dichiarato che Parigi e Berlino hanno incaricato Herman Van Rompuy, di sondare il terreno al fine di trovare un possibile accordo finale. Nonostante tutto, la Merkel non si è mostrata delusa una volta chiuso il meeting, dimostrando ancora una volta di avere problemi gravi a capire cosa le succeda intorno.
Nel comunicato conclusivo del summit, i leader europei hanno dichiarato l’impegno a dare nuovi strumenti al fondo per supportare le economie periferiche, garantendone la “effettiva funzionalità”: non un grande passo avanti, tenendo a mente che, proprio prima della fine dell’incontro, si pensava di proporre una sorta di azione di acquisti concertati del debito dei paesi comunitari in maggiore crisi. In chiusura, i leaders europei confermano un aggiornamento a Marzo, con data oscillante dal 7 al 24, mostrando ancora una volta l’alcoolismo generale che regna in quel di Bruxelles.
Gli eventi della scorsa settimana non devono stupire, in quanto sono specchio dello stato di salute politico-economico del Vecchio Continente: divisione interne, mala politica, tendenze atomistiche di alcuni e accentratrici di altri. Rimane da sperare in una sorta di rinsavimento in vista del prossimo incontro, con l’augurio di un tentativo di convergenza e mediazione sui punti caldi lanciati sul piatto dai franco-tedeschi. Sullo sfondo, alcuni dei primi risultati dell’incontro: euro giù dopo un record positivo trimestrale, bonds nuovamente a rischio. Andiamo bene.
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di Giuliano Luongo
Dopo le diatribe politiche di qualche mese fa riguardo il rinnovo del Trattato di Bengasi - discussa intesa fortemente voluta dal magico duo Berlusconi e Gheddafi in tema di immigrazione e soprattutto di economia - da circa una settimana si parla nuovamente di Libia, stavolta strettamente a livello di imprese: il fondo sovrano LIA (Libyan Investment Authority) ha comunicato l’acquisto del 2,01% della nostra Finmeccanica, facendo un nuovo passo avanti nella colonizzazione inversa da parte di Tripoli negli affari italiani.
Non che questo debba stupire, specie tenendo a mente i precedenti non solo al livello delle relazioni internazionali tra i due paesi, ma proprio in tema di accordi tra le due imprese: è già dai tempi del lancio del Trattato di Bengasi nel 2008 che i libici hanno provato interesse per il gruppo di piazza Monte Grappa, ed è dalla metà del 2009 che è stata ventilata questa acquisizione.
Come riportava il Sole 24 Ore il 5 luglio 2009, il LIA puntava all’acquisizione di circa il 2% di Finmeccanica, tramite un’operazione per il valore di “appena” 112 milioni di Euro. All’epoca dei fatti, da Finmeccanica ci fu una secca negazione della potenziale vendita, nonostante già da qualche tempo aleggiasse dai palazzi di governo l’idea di qualche intesa più forte a livelli di imprese, sull’onda di quanto reciprocamente accordato in quel di Bengasi l’anno prima. Lo stesso Ministro Frattini prospettava numerose intese con la Libia, vista come un partner affidabile da non ostracizzare a causa delle sue “abitudini politiche”.
In ogni caso, l’accordo non si concretizzò in una compravendita, ma in un più generale memorandum of understanding, che gettava le basi per la costituzione - nell’arco di un anno - di una joint venture 50/50 formata da Finmeccanica e LAP, altro fondo libico controllato dalla Libyan Investment Authority. Naturalmente, non ci si è fermati qui. La Finmeccanica, infatti, ha imposto la propria presenza in Libia attraverso sue società come la Selex Sistemi Integrati - società che produce sistemi e radar per la difesa aerea, la gestione del campo di battaglia e in generale “prodotti per l’homeland security” - la quale, nell’ottobre del 2009, ha dato il via ad un accordo da 300 milioni di euro per la protezione e sicurezza dei confini. Ad agosto dell’anno successivo, la compagnia di piazza Monte Grappa si è aggiudicata una serie di commesse per un valore pari a 247 milioni di euro attraverso il Consorzio costituito da Ansaldo Sts e Selex Communications Zarubezhstroytechnology (società controllata dalle Ferrovie Russe) per realizzare infrastrutture sul territorio libico, in particolare sulla tratta da Sirth a Bengasi.
Prima di chiudere la parentesi di background, riportiamo un ultimo fatto che può fungere da interessante anello di collegamento tra presente e passato (prossimo). Tra i vari dubbi (e discussioni) generati dalla potenziale acquisizione, si parlava della cifra che sarebbe andata nelle mani libiche: il governo italiano, infatti, forte del suo 30% in Finmeccanica, deve dare il proprio placet per ogni acquisizione che superi il 3%.
E torniamo all’oggi. I libici sono ormai in Finmeccanica. Tiepide le reazioni degli analisti, che pur non vedendo particolari cattivi auspici in merito alla transazione, nemmeno stappano lo champagne. In media il titolo viene mantenuto con un target tra i 9 e gli 11 euro, ed in particolare UBS non ritiene che ci siano particolari motivi per ritenere che il 2011 debba essere un anno positivo per la compagnia. Nonostante questo, gli stessi analisti prevedono un’ulteriore intensificazione delle relazioni commerciali bilaterali tra i due paesi coinvolti, tenendo bene a mente quanto le ultime intese siano state benefiche per Finmeccanica stessa e Ansaldo (più di un miliardo di ordini per ambo le ditte negli ultimi due anni).
Contrariata da questa ennesima liaison italo-libica è la Lega Nord, che non ha mai visto di buon occhio gli eccessi di Gheddafi non solo in tema di folklore, ma soprattutto in tema di economia: la scalata libica ai nostri gruppi bancari è stata causa di grande indignazione da parte degli unti del Po, con tanto di tentativo di ri-colonizzazione tramite loro stessi esponenti o affiliati. In ogni caso, stavolta sembrano esserci davvero delle osservazioni da fare sulla violazione della prima citata regola del 3%: il quotidiano La Padania fa notare che indirettamente tale regola sarebbe stata infranta dai libici, vista la loro partecipazione in Mediobanca che ha a sua volta una quota pari all’1% di Finmeccanica.
Invero può apparire macchinoso, ma le autorità hanno comunque deciso di approfondire, visto che alla Consob stanno già occupandosi della faccenda; per alcuni comunque il problema non sussiste, visto che, a norma di legge, per calcolare se un soggetto superi o meno una soglia del 3% del capitale di un altro, si conteggiano le azioni della controllante e dei soggetti collegati, ossia che controllano il 10% del capitale si tratta di società quotate, anche con l'adesione a un patto di sindacato. In ogni caso, andrà comunque atteso il responso dell’autorità competente.
Prima di chiudere, vengono alla mente le solite riflessioni che si prospettano ogni volta che il nostro paese si lega sempre più strettamente ad un ingombrante, scomodo ma redditizio partner mediterraneo come la Libia: continuiamo a far espandere un paese dittatoriale e generalmente scorretto in tema di politica internazionale nella nostra economia, dandogli per giunta accesso a tecnologie del settore militare. In cambio, sfruttiamo le sue flebo finanziare per ridare gas al nostro sistema economico sempre troppo traballante. Finché l’attuale governo “vivrà”, questo sembra alle alte sfere un trade-off accettabile, mentre per molti non lo sembra affatto, a cominciare dai nazionalisti coinquilini dei palazzi del potere. Anche sotto questo punto di vista, le conseguenze saranno tutte da vedere.
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di Giuliano Luongo
Uno degli argomenti che, all’incirca dalla metà del 2003, hanno popolato gli incubi di molti degli studenti universitari della facoltà di economia ed affini, era quello del cosiddetto “ritorno a Bretton Woods”. Per i non addetti ai lavori, ricordiamo che Bretton Woods è il nome della località in cui, alla fine della seconda guerra mondiale, vennero stabilite le regole economiche internazionali per far rispettare ai paesi un tasso di cambio fisso con il dollaro, onde limitare le fluttuazioni valutarie e tenere sotto controllo le eventuali possibilità di shock letali per un sistema ancora scosso dal secondo conflitto planetario.
Il sistema fu abbandonato alla fine degli anni ’70 per la sua insostenibilità, per cause esterne e per la mancata intenzione da parte degli attori economici di mantenere vivo un tale apparato. Questo almeno fino a pochi anni fa, quando degli economisti della Deutsche Bank affibbiarono questo nome al “tacito accordo” tra Cina e Stati Uniti, per il quale la Tigre Asiatica si “impegnava” - per così dire - a finanziare il debito estero americano con lo scopo di mantenere la propria valuta stabile.
Ci si è interrogati a lungo sull’eventuale sostenibilità di lungo periodo di un tale sistema. Accumulare quantità vergognosamente alte del debito di uno stesso Paese è un atto che espone a notevoli rischi: in poche parole, un crollo del valore dei titoli del Paese in questione porterebbe il creditore ad avere una banca centrale piena solo di carta senza valore. Da qui molteplici ipotesi di vari espertoni del settore sul quando i cinesi si fossero decisi a diversificare i loro crediti, possibilmente in euro, dando a questa moneta il peso di una nuova valuta di riserva internazionale.
Ebbene, pare che il momento che analisti e parrucconi del genere tanto attendevano vada sempre più vicino ad avverarsi appieno: il vice-governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha dato, in data 7 gennaio corrente anno, la conferma delle intenzioni del suo paese di mettere l’Europa al centro delle attenzioni della strategia cinese di acquisto di riserve internazionali.
Tale affermazione ha trovato anche conferma nelle parole del vice premier Li Keqiang - impegnato di recente in un “tour europeo” per promuovere accordi economici - che ha espresso fiducia nei mercati finanziari spagnoli ed ha appoggiato ulteriori acquisti di debito del paese iberico. Venendo in “aiuto” delle economie europee, la Cina potrebbe favorire le condizioni della domanda in un’area che corrisponde al maggior mercato per le esportazioni, senza dimenticare che questo gioverebbe anche al valore dei suoi asset denominati in euro.
Sulla validità di questa manovra è intervenuto ancora Yi Gang: il vice governatore ha sottolineato come il principio della diversificazione sia alla base di questa strategia, per poi aggiungere che l’acquisto di debito europeo non solo gioverà alla stabilità finanziaria del vecchio continente ed al mercato globale in generale, ma garantirà alla Cina profitti consistenti. Interessante notare come abbia preferito parlare prima dei vantaggi “per noi” invece di quelli “per loro”. Gli fa nuovamente eco Li dalle pagine della Sueddeutsche Zeitung, che riferisce come la Cina “supporti l’Unione Europea ed i suoi membri affinché escano dalle crisi debitorie per contribuire alla ripresa economica ed alla crescita stabile”.
Un notevole impegno sociale e patriottico da parte dei policy makers dagli occhi a mandorla, che sono riusciti a promuovere efficacemente, almeno di sicuro dal punto di vista mediatico, la loro campagna per la “conquista” dell’Europa. La Cina aveva già dichiarato lo scorso anno di voler supportare Grecia e Portogallo acquistando i loro bonds, ed ora sembra venire il turno della Spagna: i politici cinesi ancora si contengono, ma le voci degli insiders che hanno trovato spazio sul quotidiano El Pais vedono un acquisto di bonds per circa 6 miliardi di euro.
Non solo la cifra è ingente, ma si tratterebbe finalmente di un numero tangibile da avere in mano, dopo le tante dichiarazioni apparentemente campate in aria riguardo l’acquisto di debito di altri paesi. Questa grande operazione economica si inquadrerebbe in una serie di accordi volti all’aumento dell’apertura - e dell’influenza - della Cina verso l’economia europea. Si parla infatti di un contratto da 19 milioni di euro con la spagnola Indra per il traffico aereo, un accordo di cooperazione tra la Banca Cinese per lo Sviluppo, la Banca di Bilbao ed un gruppo sudamericano.
Restando sempre e solo in Spagna, la Sinopec ha comprato il 40% della sussidiaria brasiliana della Repsol. Se vogliamo cambiare nazione, ma non settore economico, la PetroChina ha di recente dichiarato investimenti in raffinerie britanniche, onde approfittare della possibile ondata di vendite di strutture di Royal Dutch Shell e BP. Resterà da vedere in che misura anche la mittel Europa sarà nei piani di Pechino, visto che Li dovrà incontrare la Merkel il prossimo venerdì. Si vocifera inoltre che la cancelliera voglia sfruttare questo incontro per riuscire ad interpretare come si deve la strategia cinese dell’acquisto dei bonds europei. Conoscendo la furbizia economico-strategica dell’ex professoressa crucca, sarà un miracolo se troverà da sola la porta della sala riunioni.
Veniamo dunque ad alcune riflessioni che possono essere fatte sulla base dei pochi fatti attualmente noti. In primo luogo, resta da capire in che misura i cinesi si decideranno ad acquistare debito europeo. La cosa sembra quasi certa, visto il giro d’affari che Pechino è prossima ad imbastire con Madrid: molto meno certo è invece il risultato che tale evento potrà avere sulle condizioni di salute dell’economia europea e dell’euro, visto che proprio in questo periodo la valuta europea ha raggiunto il minimo valore fatto segnare negli ultimi 4 mesi nel cambio col dollaro. Ed ancora più incerto è il fatto che la Cina continui a sobbarcarsi i debiti di stati sulla deprimente via del default, a fronte di accordi economici vantaggiosi. Questo nuovo “doppio ingresso” cinese - a livello dei bonds e, parallelamente, a livello di accordi economici per beni e servizi - è ancora in divenire, con gli eventuali accordi chiave ancora da marcare come “fatti” sull’agenda.
In secondo luogo, il problema della composizione delle riserve cinesi: bisognerà vedere come le acquisizioni di debito europeo spiazzeranno quelle di debito americano e, soprattutto, con quale velocità accadrà questo procedimento. Allo stato attuale dei fatti non è possibile conoscere le proporzioni di questo eventuale shift nell’acquisizione di riserve, proprio perché è ancora tutto ad un livello eccessivamente embrionale.
Per ora sappiamo solo che la Cina sta riuscendo a strappare ottimi accordi economici all’Europa, complice il suo intento di supportare il vecchio continente in un periodo di crisi profonda tramite l’acquisto di bonds: non rimane che attivare qualche campanello d’allarme nelle teste dei nostri politici ed economisti di stato per non eccedere in generosità con quello che non è solo un grande partner commerciale, ma anche una grande potenza concorrente. Il resto, allo stato attuale dei fatti, è fantaeconomia.