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di Giuliano Luongo
Come il cittadino medio italiano da tempo, l’elemento di appeal tragicomico nazionale ed internazionale del nostro governo non è identificabile solo nella figura dell’inossidabile Premier, ma anche nel brillante Ministro dalla voce bianca, Giulio Tremonti. Sorvoliamo sulle opinioni riguardanti le competenze strettamente tecniche di questo personaggio per concentrarci su di una serie di eventi recenti: il suo ruolo nell’affannosa ricerca per un successore al seggio della presidenza della Banca Centrale Europea, ancora per poco fortemente riscaldato dal b-side di Jean-Claude Trichet.
Ebbene, nonostante da tempo siano più che note le frizioni tra il Ministro ed il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, di recente la scelta sul candidato da supportare alla nomina alla BCE è ricaduta proprio sul buon Draghi. Sono state ventilate numerose perplessità sulle ragioni questo “cambio di umore” così apparentemente repentino, perplessità divenute certezze - o quasi - dopo le ultime rivelazioni a firma dell’ormai onnipresente Wikileaks. Non rimane dunque che cercare di riportare i fatti per un almeno vago ordine cronologico onde riuscire a trovare il bandolo della matassa di questa vicenda.
E’ indubbio il fatto che gran parte dei politici vicini all’area berlusconiana abbiano problemi gravi di coabitazione con qualsivoglia altra carica pubblica e/o amministrativa: mantenendoci circoscritti alle vicende del buon Giulietto, ci basti ricordare di sfuggita (onde evitare l’autolesionismo) la convivenza assolutamente non pacifica tra Tremonti e l’allora Governatore Fazio, con i loro siparietti all’insegna del patetico al Fondo Monetario Internazionale. Seppur con i debiti e dovuti cambiamenti di situazione generale, la pace nel “territorio comune” economico condiviso dal Ministero dell’Economia e dalla banca centrale nostrana non è stata ottenuta nemmeno con il cambiamento al vertice di quest’ultima.
La convivenza Tremonti-Draghi non è mai stata né tranquilla né piacevole: le posizioni dei due economisti, seppur di stampo marcatamente liberale, hanno sempre avuto grosse differenze di interpretazione della politica economica e delle funzioni degli enti economici internazionali. Il crescente ruolo di Draghi nel G20 e la sua buona reputazione internazionale - non si dimentichino i complimenti ricevuti da Trichet in persona qualche anno fa - ne hanno fatto un “coinquilino” ingombrante per Tremonti nell’ambito del policy making italiota.
Spesso lo stesso governo che dava il lavoro a Tremonti ha dovuto riportare all’ordine il fiero Ministro, reo di aver attaccato in più occasioni il rivale della banca centrale riguardo questioni più o meno tecniche. Molti analisti, già a metà 2008, si interrogavano sul modo in cui un paese che volesse crescere - o almeno avere una situazione economica non ridicola - potesse permettersi di avere una tale situazione di conflitto: conflitto nel quale, si badi, la parte “offendente” era sempre quella del Ministro, opposto ad un Governatore dotato di un aplomb più che britannico. Alcuni ventilarono addirittura l’ipotesi di una sorta di timore da parte di Tremonti del “perdere la poltrona” in favore di Draghi.
Ed invece, nonostante queste basi alquanto discutibili, circa dieci giorni fa c’è stata la dichiarazione bomba: il Ministro Tremonti esprime pubblicamente il suo appoggio alla corsa di Mario Draghi alla poltrona di dirigente della Banca Centrale Europea. Stupore generale…per circa un quarto d’ora. Già senza conoscere particolari altarini nascosti nelle carte segrete della diplomazia ancor più segreta, salta all’occhio un particolare: far andare Draghi in Europa non significa solo dare prestigio all’Italia nel continente eccetera eccetera, ma significa soprattutto non avere Draghi medesimo tra i piedi nel giro di poltrone dell’Italia economica che conta, lasciando libero un posticino per un qualche nuovo personaggio vicino alle amicizie del professore pavese.
Volendo esser maligni fino e in fondo, si può notare questo schema: Giuseppe Vegas, divenuto di recente il numero uno della Consob, è un uomo vicino a Tremonti - anche di poltrona - in quanto Vice Ministro dell’Economia; la nomina di Giuseppe Mussari al vertice dell’ABI nasconde la manina del professore dai tondi occhiali; a voler essere proprio puntigliosi, anche un grande nome del gruppo S. Paolo, come Corrado Passera si dice che abbia buoni rapporti con Tremonti.
Non è dunque difficile accorgersi di come l’attuale Ministro dell’Economia oggettivamente…“amministri” l’economia del paese, con una fitta rete di contatti ormai con i vertici di operatori pubblici e privati. L’unica sedia ancora “nemica” - o quantomeno “avversaria” - è proprio quella di Draghi, e pertanto farlo decollare per Francoforte non sarebbe una cattiva idea, facendo cogliere i tipici due piccioni con l’arcinota fava: Tremonti fa bella figura come Ministro europeista e attento all’immagine dell’Italia (mentre il Premier si divide tra galere e proroghe), e in più si spiana la strada all’occupazione del ruolo istituzionale economico più importante accanto a quello dello stesso Ministro dell’Economia.
E a dirla tutta, anche gli stessi rapporti Tremonti - Berlusconi entrano in gioco di prepotenza in questo schema, grazie ormai anche alle sempre provvidenziali rivelazioni di Wikileaks. Di base, sappiamo che in più di un’occasione il Ministro si è mostrato molto vicino alle posizioni della Lega, che ha ricambiato la cortesia elogiando più volte Tremonti per le posizioni prese: questa situazione ha portato molti a pensare che, in un ipotetico prossimo governo a “trazione leghista”, Tremonti possa essere il sostituto di sua maestà Silvio I.
E qui, come anticipato prima, arriva la scoperta di Wikileaks: dai cablo americani risulta che, visto il giro di “amicizie” scomode di Berlusconi (si pensi alle discutibili liaisons con tutti i dittatori africani e post-sovietici, più che alle bagasce), un potenziale nuovo leader italiano sarebbe più gradito a Washington. E questo nuovo leader potrebbe essere Tremonti o…Draghi. Dunque, meglio mandare il calmo Mario alla BCE, così in Padania si sta più tranquilli.
Riassumendo, come prevedibile, siamo di fronte all’ennesimo tentativo di colonizzazione delle cariche da parte di un centrodestra pigliatutto e accaparratore, che si caratterizza in base alla sua sotto-fazione più estremista e populista. Dalla “casta” al governo degliriformatori, è solo questione di tempo: l’ex Bel Paese è sempre più sulla via di diventare una “provincia” dell’inesistente Padania, e l’attuale gioco delle sedie con il Ministero dell’Economia come fulcro è solo l’ennesimo passo avanti verso la mortificazione della politica nazionale.
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di Giuliano Luongo
Se c’è una cosa che il Presidente Barak Obama sa fare bene, oltre a vincere riconoscimenti internazionali sulla fiducia, è prendere decisioni controverse in ambito di politica interna. Dopo il faticoso processo di riforma della sanità, avversato da numerose fazioni vincolate a Big Pharma, viene colpito un altro pilastro dell’american way of life: il mutuo trentennale. Non si tratta tecnicamente di un attacco diretto, ma di una possibile conseguenza della nuova politica statale di gestione dei mutui nel mercato immobiliare.
L’amministrazione Obama intende alzare il costo dei prestiti e la quota delle caparre come azione fondamentale per la “ristrutturazione” del mercato immobiliare. Si crede che in questo modo, rendendo di fatto meno semplice l’accesso al credito, si possano limitare gli eccessi raggiunti dal mercato del mattone da arredare agli inizi della ancora “vigente” crisi economica internazionale.
Una delle mosse chiave comprese in tale manovra riguarda i due giganti federali dei mutui, Freddie Mac (nomignolo dato alla Federal Home Loan Mortgage Corporation) e Fannie Mae (Federal National Mortgage Association), che andrebbero di fatto lasciati alla propria sorte, verso un possibile decesso, come di certo dovrebbe accadere a delle compagnie non produttive in un sistema liberale. In un discorso tenuto il passato venerdì al Brookings Institute, il Ministro del Tesoro, Timothy F. Geithner, ha sostenuto la tesi che ritiene eccessivo il supporto governativo americano al mercato immobiliare e che spinge all’eliminazione dei due istituti federali sopra citati.
Quest’ultima non sarà di certo un’operazione semplice: lo stesso Geithner ha fatto notare come l’amministrazione avrà bisogno di circa sette anni per portarla a compimento, dovendo dunque di fatto delegare ai prossimi inquilini della Casa Bianca le tappe conclusive di questa smobilitazione. Attualmente, il governo si propone di rendere più costosi i mutui offerti “dallo Stato”, in modo da far diventare più competitivi quelli generosamente elargiti dalle compagnie private. In parole povere: il costo del denaro per chi vuole accasarsi verrà generalmente livellato verso l’alto. Si punta inoltre a ridimensionare la Federal Housing Administration, agenzia governativa attiva nell’assicurazione di prestiti offerti da banche e lenders privati per l’acquisto di beni immobili. L’idea è quella di ridurre il valore massimo copribile dei prestiti ed alzare al 5% il valore delle caparre.
I principali rischi di questa manovra, che in teoria dovrebbe soddisfare le spinte all’indipendenza da uno “Stato invasivo, ficcanaso e comunista”, ricadono proprio sui cari e beneamati consumatori. Per rendere il mercato del credito immobiliare più sicuro, vi si taglia l’accesso: non si cerca però di migliorare genericamente il tipo di “clientela”, potenziando ad esempio i controlli sui borrowers, ma si agisce in maniera molto più drastica, rendendo tutto il mercato del credito immobiliare più costoso.
E’, di fatto, una decisione in linea con il liberale - o meglio, liberista - spirito americano, che vuole che ognuno ottenga quello che si può permettere a suon di soldoni: come è stata presa male la riforma sanitaria, al grido di “non pago per la salute di un altro”, si dovrebbe prendere bene anche questa imparziale decisione.
Ci si compra la casa solo nel caso in cui si sia in possesso dei soldi per comprarla. Peccato però che la benpensante opinione pubblica americana non la pensi tutta così: gli stessi che non vogliono pagare per il vicino di casa, fanno il diavolo a quattro se non hanno la possibilità di pensare ai fatti propri. Gran parte delle associazioni dei consumatori, assieme a gruppi di agenti immobiliari (guarda un po’) e piccole banche sono uniti nel chiedere la sopravvivenza di Freddie e Fannie: per il portavoce della Consumer Federation of America Barry Zingas, abbandonare dopo 70 anni l’impegno al supporto al credito immobiliare significherebbe privare i consumatori americani della possibilità di indebitarsi in maniera accettabile. Inoltre, il rallentamento del mercato del credito nuocerebbe anche ai prestatori di ogni dimensione, privandoli di un flusso di capitale stabile.
Fedeli ai loro ideali, i Repubblicani tutti plaudono a tale decisione governativa. La fazione avversa ad Obama è sempre stata contraria al crescente ruolo dei due lenders statali, e li accusa di aver contribuito largamente alla crisi, se non di averla causata in primo luogo (cosa per altro non del tutto falsa). Ecco, magari si dovrebbe fare anche riferimento alla cretineria dei debitori, ma questo non è un articolo di psichiatria. Tornando in argomento, basti ricordare comunque che la fazione degli epici Bush e McCain ritiene che la manovra in questione debba seguire pochi e rapidi passi, in contrasto a quanto proposto dagli stessi democratici, che vogliono comunque una serie di tagli lenti e graduali.
Inutile dire che la stessa “sinistra” americana abbia criticato ampiamente la proposta obamiana: numerosi membri del Congresso militanti nel partito democratico, hanno espresso le proprie perplessità - sino al dissenso totale in alcuni casi - su di un tema che di fatto penalizzerà gran parte dei cittadini statunitensi ansiosi di accasarsi. Il fatto che il dirigente della JP Morgan Chase, William M. Daley, sia stato nominato “chief of staff” da Obama in persona, accanto all’accordo bipartisan sul blocco delle tasse per i più ricchi, hanno contribuito a fomentare il disprezzo dei liberal più assennati nei confronti del mediatico presidente.
Nonostante la manovra sia ancora in divenire, non resta che fare alcune considerazioni del caso. In primo luogo, vediamo che il Presidente si è deciso a ridimensionare per poi sopprimere due enti che mal si inseriscono in un sistema liberista come quello statunitense: in punto di teoria, la decisione è corretta. Si lima un aspetto che rendeva spurio un sistema che pretende di essere al 100% private-led.
Gioiranno i membri del tea party, contenti anche i repubblicani e gran parte dei cittadini “non affiliati”. Il piccolo problema è che questo aspetto “anomalo” rendeva gestibile il mercato del credito anche per i meno abbienti, categoria sempre più affollata in tempi di crisi come questo. Bisognerà comprendere in questa rimozione graduale con quale intensità saranno colpiti i consumatori, e sapendo che la seconda metà di tale compito ricadrà nella prossima legislatura, la qualità dei risultati sarà tutta da vedere, con i personaggi che si aggirano negli altri lidi.
In secondo luogo, sarà interessante vedere l’effetto generale che tale operazione avrà sul consenso verso Obama: i suoi sono già incavolati, gli avversari per ora ringraziano, ma di certo non cambieranno alleanza per così poco. In ogni caso, la discussione congressuale mostrerà meglio gli umori di pubblico e rappresentanti a Washington. Al momento, nei panni di un cittadino americano “senza fissa dimora”, si starebbe sicuri solo avendo un parente stretto anziano proprietario di casa con problemi di salute. Il parente, non la casa.
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di Mario Braconi
La situazione dei conti pubblici del Regno Unito è disastrosa: al netto del passivo provocato dagli interventi a sostegno degli istituti di credito in bancarotta, il debito è arrivato a sfiorare il 50% del PIL (era 35% circa nel 2007); se invece si considerano gli effetti del salvataggio obbligato di Royal Bank of Scotland e del Lloyd’s Group, il debito della Gran Bretagna si attesta appena sotto il 155% del prodotto interno lordo.
Lo scenario è quello caratterizzato da “lacrime e sangue”, impudicamente reclamati dal Governo ai cittadini del Regno. I quali ora sono costretti a fare esperienza diretta dei “vantaggi” di un’economia intossicata dall’ipertrofismo finanziario: non solamente i soldi delle loro tasse sono stati utilizzati (bruciati?) per rimediare agli errori catastrofici di manager incompetenti e irresponsabili, ma dovranno abituarsi all’idea che lo stato sociale, pure con tutti i suoi difetti e le sue inefficienze, è solo un ricordo del passato, mutilato com’è da tagli per miliardi di sterline l’anno.
In questo difficile contesto, gli spin doctor del partito conservatore hanno pensato bene di rianimare un concetto che nel corso della campagna elettorale aveva avuto ben poca visibilità: quello di “Big Society” (“Società Forte”, inteso come società autosufficiente, concetto opposto al “Big State”, ovvero “Stato Forte”). In effetti, dal punto di vista della comunicazione, è molto meglio parlare alla gente di uno Stato che dà loro gli strumenti di crescita e di sviluppo, anziché invitarla brutalmente ad arrangiarsi da sola: anche se il concetto è solo vagamente diverso, il primo funziona molto meglio. Al di là di tale ovvia considerazione, il concetto stesso della Grande Società di Cameron è molto vago.
In termini generali, l’idea del governo è quella di cancellare, in modo più o meno drastico e veloce, una serie di servizi normalmente forniti dallo Stato (scuola, trasporti, posta, supporto alle categorie svantaggiate) riallocandoli contestualmente ad associazioni di cittadini.
A dare supporto finanziario, una banca pubblica (la Big Society Bank, appunto) che avrebbe la “mission” di prestatore all’ingrosso: fornirebbe risorse ad altri soggetti, che a loro volta investirebbero nelle attività sociali. Secondo le stime contenute nel documento che illustra la “vision” del futuro ente finanziario, esso potrebbe contare su risorse per circa 10 miliardi di sterline (circa 12 miliardi di Euro).
Nicholas Timmins, che dalle colonne del Financial Times si è messo a far le pulci ai numeri del governo, ha tirato fuori numeri assai meno entusiastici: nel primo anno di operatività la banca della Società Forte potrebbe contare, infatti, su circa 300 milioni di sterline, di cui 200 erogati (“a condizioni di mercato”) dalle prime quattro banche del Regno Unito.
Queste però, a quanto pare, si riservano di studiare ed approvare preventivamente il “business plan” della banca di stato (ebbene sì, le stesse banche che sopravvivono grazie al governo fanno le difficili quando si tratta di dare qualche spicciolo in attività socialmente utili).
Circa 60 milioni potrebbero venire dai conti correnti cosiddetti dormienti, ovvero dai saldi di conti correnti bancari mai reclamati per un certo periodo di tempo (un fenomeno che “vale” complessivamente 400 milioni di sterline); i rimanenti 40 milioni sarebbero invece prelevati dai flussi prodotti dalla lotteria pubblica. Insomma un bilancio tenuto insieme con lo sputo, per così dire, per un’istituzione investita di notevoli responsabilità sociali. Il tutto senza considerare, nota ancora Timmins, che i 10 miliardi promessi dalla Big Society Bank si confrontano con l’attuale mercato degli investimenti in attività socialmente utili effettuati da fondazioni e da privati ricchi, attualmente stimato attorno ai 200 milioni.
Anche lasciando da parte le considerazioni di tipo strettamente quantitativo, è il concetto in sé di Società Forte a suscitare non poche perplessità, anche in campo conservatore: alcune delle contraddizioni intrinseche nel progetto di Cameron vengono messe a fuoco da Danny Krueger, un suo ex consigliere, sempre sul Financial Times: come dovremmo interpretare il progetto della Big Society? “Un’agenda morale (basata sul senso di responsabilità) o un’agenda di liberalizzazioni (basata sull’empowerment)?”.
Secondo Krueger, il successo del progetto Big Society è fortemente ipotecato dalle sue contraddizioni intrinseche: si tratta infatti di “una iniziativa del governo centrale che identifica il suo nemico nel… governo centrale; di un’organizzazione di base nata a Whitehall (ovvero, in seno al governo, n.d.r.)”.
Ed Miliband, sull’Indipendent, sottolinea come l’atteggiamento di Cameron, e soprattutto la sua fretta, dimostrino un approccio fortemente ideologico: secondo Miliband, il primo ministro sembra davvero convinto del fatto che una presenza minimale dello Stato produca una società forte. Il dibattito su Stato forte o debole, secondo il leader laburista, è però illusorio: “Qui si tratta di avere un governo che sia semplicemente in grado di operare in modo armonioso con le sue comunità e con la società civile.”
A dispetto dei paludamenti impiegati dal partito conservatore per confondere gli elettori (si è parlato di “conservatori rossi”, di “svolta verde”, di “conservatorismo compassionevole”) ora viene fuori il volto vero del partito di Cameron: profondamente determinato a perseguire i suoi obiettivi anche a costo di lesionare in modo irreversibile il tessuto sociale del paese. Un film già visto, ad inizio degli anni 80, con i governi Thatcher e il drammatico pessimismo sul futuro collettivo che ne è stato uno degli elementi distintivi.
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di Emenuela Pessina
BERLINO. Un lungo e travagliato corteggiamento per un matrimonio finale di portata storica: la Borsa di Francoforte (Germania del Sud) e la New York Stock Exchange (NYSE) Euronext statunitense si sono finalmente unite nel conglomerato azionario più grosso del mondo. E ora tutti gli occhi della finanza internazionale sono rivolti all’operazione; un affare che va a stravolgere l’assetto globale del mondo della finanza e che, indirettamente, potrebbe aiutare a cambiare le regole del gioco.
L’assimilazione tra Deutsche Boerse di Francoforte e NYSE Euronext va a produrre un mostruoso complesso economico del valore combinato di 25.7 miliardi di dollari statunitensi: una cifra, inutile dirlo, che già di per sé garantisce al neogruppo un ruolo di predominanza nel panorama globale del mercato azionario. Anche perché, quando si parla di economia e denaro, ancor’oggi è valido il buon vecchio proverbio secondo cui “piove sempre sul bagnato”: più le Borse sono grandi, più attraggono gli investitori, in una spirale infinita e viziosa.
Inoltre, il nuovo complesso va ad ampliare fisicamente la portata delle due parti e le potenzialità che ne derivano. Deutsche Boerse e NYSE Euronext insieme avranno una base sulle piazze di Francoforte, Parigi, Amsterdam, Londra e New York, assicurandosi così la priorità sui principali appuntamenti economici di società europei e nordamericani. Senza dimenticare che l’operazione comporta una riorganizzazione della struttura interna delle parti, portando a licenziamenti strategici e a grandi risparmi per entrambe: si stima un risparmio di oltre 300 milioni di dollari.
Ulteriori tentativi di fusione tra Francoforte e New York erano già stati fatti qualche anno fa, più in particolare nel 2008 e nel 2009, ma si risolsero in un nulla di fatto: preoccupata di diventare una succursale europea di NYSE, la Borsa di Francoforte avrebbe interrotto le trattative perché in possesso di meno capitale rispetto alla corrispondente statunitense. In realtà, qualcuno già sospettava che le trattative non fossero mai state interrotte e che avessero portato lentamente, e per vie tortuose, al momento del deal vero e proprio, all’operazione di portata storica conclusasi ieri.
E, in effetti, questa volta i rumors erano molto più energici che in passato: per la prima volta, Francoforte e New York avevavo confermato esplicitamente lo “stato avanzato delle contrattazioni”. Senza dimenticare che le indiscrezioni sono arrivate alla stampa più autorevole di tutto il mondo già settimana scorsa, nonostante il carattere segreto delle trattative, tanto confidenziale da essere degno delle più misteriose cospirazioni.
Certo, com’è d’uso, il mondo della finanza avrebbe preferito lasciar trapelare la notizia a cose fatte. L’accordo ancora non c’è, si affrettavano a spiegare a New York, dove la preoccupazione degli operatori di Borsa è ora soprattutto di natura politica. Deutsche Boerse e NYSE Euronext volevano unirsi in una nuova società paritaria in cui i due partner hanno lo stesso potere decisionale. Di fatto, però, i tedeschi possiedono il 60% del capitale di mercato e vanno a rappresentare la maggioranza, assumendosi così il ruolo predominante.
In poche parole, l’affare significa per gli Stati Uniti il naufragio di una bandiera, perché NYSE Euronext rappresenta il simbolo del capitalismo nordamericano e già la prospettiva della fusione aveva suscitato il panico tra gli investitori della Big Board. “Se come americani crediamo nel mercato libero - aveva provato a giustificare Ron Paul, deputato conservatore della House of Representatives degli Stati Uniti - non possiamo essere contrari all’assimilazione”. Eppure la tensione c’è, e si sente.
La stampa tedesca aveva già fatto notare che, da sola, la Borsa di NYSE Euronext non aveva futuro perché il suo mercato va contraendosi sempre di più. Per il quarto trimestre 2010, NYSE ha registrato un guadagno in calo del 21% rispetto allo stesso trimestre dell’anno prima, soprattutto a causa del rafforzamento del dollaro sulle altre monete e alla diminuzione del volume d’affari sui due continenti. E i bilanci, per l’economia, significano più di ogni dichiarazione, anche oltreoceano.
Ma, soprattutto, l’operazione costringe ora il mondo a focalizzare l’attenzione su una nuova tendenza del mercato globale. Le tradizionali piazze nazionali sembrano destinate a un’esistenza difficile causa la crudele concorrenza delle piattaforme virtuali: le multinazionali dei mercati finanziari - di cui Francoforte e NYSE unite sono il più mastodontico esempio - potrebbero rappresentare per loro l’unica via di sopravvivenza. Tant’è vero che il matrimonio tra Francoforte e NYSE Euonext fa passare in secondo piano, per la sua grandezza, tutte le precedenti unioni di questo tipo. Come nelle ere più arcaiche, è la grandezza a fare paura ai nemici e a dare fiducia ai cortigiani.
La fusione internazionale di diverse piazze nazionali, inoltre, potrebbe aiutare garantire una maggiore trasparenza nelle operazioni. Durante la crisi si è manifestato uno dei punti deboli fondamentali della finanza, e cioè un sistema di mercato globale e interdipendente costretto a regole nazionali spesso in disaccordo tra loro.
Come in un domino, i problemi di ogni singola nazione sono diventati i problemi delle altre: un controllo più severo è però stato impedito dalle divergenze tra i singoli Governi. La fusione tra Francoforte e NYSE potrebbe costringere i due mercati ad approvare un regolamento comune di là degli interessi singoli. E così per eventuali altre fusioni, magari quelle delle piazze asiatiche. Il matrimonio è ormai cosa fatta: tutto il resto, forse, è fantafinanza. O forse l’inizio di una sua nuova fase..
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di Giuliano Luongo
L’Unione Europea e l’Eurozona, tanto per cambiare, sono in un momento critico. L'ennesimo, tenendo a mente solo le ultime due settimane. Ma tralasciando la facile quanto dovuta ironia, non rimane che attenersi ai fatti: il recente summit europeo mirante a lanciare una strategia comune per la messa in opera di una revisione del fondo europeo di salvataggio da 440 miliardi di euro (per potenziarne il potere prestatorio per combattere la crisi) nell’ottica di un generale piano per potenziare la competitività dell’UE è stato tutto fuorché un successo.
La revisione, che sulla carta doveva essere guidata da Francia e Germania, è stata frenata in potenza da numerose reticenze degli amici crucchi, per poi impantanarsi in maniera evidente una volta arrivata al confronto con gli altri paesi europei. La spinta riformatrice congiunta franco-tedesca, apparente motore di tutto il meeting, puntava all’importante quanto complesso obiettivo di rafforzare e rendere più compatto il “governo economico” dell’Unione.
Tale cosiddetto “patto per la competitività” concerneva una cooperazione rafforzata limitata ai 17 paesi dell’eurozona, onde lavorare principalmente sui paesi euro esposti ai rischi principali, e poi eventualmente coinvolgere gli altri membri dell’Unione dalla bandiera gialloblu.
Già riguardo a questa idea, di paternità francese, i tedeschi avevano mostrato tutte le loro perplessità. Da Berlino, infatti, oltre alla solita fuffa riguardo una maggiore enfasi su crescita e competitività, nonché disciplina finanziaria, è stato posto l’accento sulla possibilità di sviluppare un sistema di risoluzione delle crisi bancarie per ogni nazione, accanto all’adozione di emendamenti costituzionali volti a limitare l’indebitamento pubblico (il cosiddetto “debt brake”, presente proprio nell’ordinamento tedesco ed in quello austriaco).
I tedeschi inoltre chiedono l’innalzamento, paese per paese, dell’età pensionabile ed una maggiore integrazione nel riconoscimento di diplomi e titoli di studio tecnici ottenuti in altri paesi dell’Unione. Idee come l’armonizzazione fiscale e la sospensione degli accordi ravvicinabili alla fattispecie della “scala mobile” sono altri temi cari a Berlino, sui quali però non v’è accordo sul come introdurli non solo sul piano del dialogo con i francesi, ma anche nella stessa casa tedesca.
Nonostante la mancanza di coordinamento e di coerenza tra le posizioni francese e tedesca si fosse fatta notare ancor di più proprio a 24 ore dall’inizio dell’incontro (la Merkel aveva proposto un approccio intergovernativo all’integrazione economica, opposto a quello centralista suggerito da Delors), i leaders dei due paesi hanno cercato di fingere convergenza una volta giunti di fronte agli esimi colleghi una volta al summit.
La Francia ha proposto una maggiore flessibilità del Fondo di stabilità, senza il bisogno di incrementarne il volume, mentre tedeschi hanno proposto le loro idee annunciate al mondo già prima dell’incontro: questa proposizione “bicefala” ricca di posizioni contrastanti è stata presentata tramite un documento - dagli stessi definito come “lista informale” - di misure, misure le quali hanno fatto scattare le numerose obiezioni tra i presenti. Notare come gli ufficiali francesi e tedeschi abbiano poi candidamente ammesso la presenza di scarso accordo tra i loro stessi governi su cosa inserire nella lista.
Il meeting si è svolto all’insegna delle perplessità di tutti i paesi europei di fronte al progetto dei franco-tedeschi. In primo luogo, la vaghezza delle misure da prendere ha reso il tutto poco chiaro, mentre i pochi punti comprensibili sono stati ulteriore strumento di divisione. In primo luogo, l’idea di tagliare fuori buona parte dell’Unione restringendo la cooperazione rafforzata alla UE-17, ha fatto storcere il naso a molti, non solo tra gli esclusi. In secondo luogo, le incertezze del motore riformatore hanno spinto gli altri paesi a un freno. Molte perplessità sono scaturite in seguito alle richieste tedesche di austerità, sia riguardo le misure stesse, sia sul fatto che mentre la Germania le proponeva come obbligatorie, la Francia non pareva dello stesso avviso.
Alcuni leader sono stati poco favorevoli a stabilire un nuovo accordo vincolante riguardo pensioni, tasse e politiche pubbliche che potrebbe finire per essere applicate in tutta l’Unione Europea. Il Primo Ministro belga Yves Leterme si è definito in “totale disaccordo” con il piano: il Belgio è uno dei paesi dell’eurozona che usano la scala mobile, e non vuole rinunciare ad una misura economica largamente affermata nel suo paese. Il Financial Times riporta inoltre che, stando ad alcune voci interne, il Primo Ministro polacco Donald Tusk è stato uno dei più critici delle idee “riformatrici” presentate all’incontro, specie sulla decisione di applicare le riforme a solo parte dell’Unione.
Persino Austria ed Olanda, paesi considerati come alleati tradizionali della Germania in tema di decisioni concertate, si sono uniti al coro di obiezioni che ha accomunato più della metà dei 27 paesi comunitari: il problema viene visto proprio nell’idea di entrare in maniera così invasiva in aree decisionali riservate ai parlamenti nazionali, aree in cui essi debbono decidere in maniera autonoma
Di fronte alla forte opposizione al piano franco-tedesco, Sarkozy ha dichiarato che Parigi e Berlino hanno incaricato Herman Van Rompuy, di sondare il terreno al fine di trovare un possibile accordo finale. Nonostante tutto, la Merkel non si è mostrata delusa una volta chiuso il meeting, dimostrando ancora una volta di avere problemi gravi a capire cosa le succeda intorno.
Nel comunicato conclusivo del summit, i leader europei hanno dichiarato l’impegno a dare nuovi strumenti al fondo per supportare le economie periferiche, garantendone la “effettiva funzionalità”: non un grande passo avanti, tenendo a mente che, proprio prima della fine dell’incontro, si pensava di proporre una sorta di azione di acquisti concertati del debito dei paesi comunitari in maggiore crisi. In chiusura, i leaders europei confermano un aggiornamento a Marzo, con data oscillante dal 7 al 24, mostrando ancora una volta l’alcoolismo generale che regna in quel di Bruxelles.
Gli eventi della scorsa settimana non devono stupire, in quanto sono specchio dello stato di salute politico-economico del Vecchio Continente: divisione interne, mala politica, tendenze atomistiche di alcuni e accentratrici di altri. Rimane da sperare in una sorta di rinsavimento in vista del prossimo incontro, con l’augurio di un tentativo di convergenza e mediazione sui punti caldi lanciati sul piatto dai franco-tedeschi. Sullo sfondo, alcuni dei primi risultati dell’incontro: euro giù dopo un record positivo trimestrale, bonds nuovamente a rischio. Andiamo bene.