di Sara Seganti

Il nuovo mensile di Emergency si è affacciato in edicola questo mese di maggio con la foto in copertina di una fabbrica di jeans in Cina, in grado di esprimere al meglio le condizioni di degrado in cui lavorano i giovani cinesi nelle Zes. Le Zes (Zone Economiche Speciali) sono città-fabbriche dove la Cina ha permesso ai capitali stranieri di entrare senza controlli, e sono state il motore iniziale della vertiginosa crescita economica di Pechino.

L’articolo di Simone Pieranni riporta dati interessanti: le fabbriche nelle Zes sfruttano i giovani cinesi migranti oggi come ieri, ma qualcosa sta cambiano. Frustrati dalle aspettative disattese, dai salari ancora troppo bassi, dall’assenza di sicurezza e di diritti sul lavoro, i trentenni cinesi stanno dando vita a scioperi e contestazioni per rivendicare benessere ancor prima che diritti. Una novità talmente enorme che, sfidando la censura, se n’è cominciato a parlare perfino nella televisione di Stato cinese e su internet. Nel 2009, ultimo dato disponibile, in Cina sono stati registrati circa 90.000 scioperi e contestazioni organizzati dai lavoratori. Le condizioni di vita e di lavoro nelle Zes sono ancora disumane, soprattutto per le donne, ma è innegabile che, senza cadere in facili entusiasmi, dei segnali di cambiamento, si comincino a vedere.

Li aveva raccontati già Loretta Napoleoni, economista formata in Inghilterra di origini italiane, in Maonomics: aspettate a giudicare la Cina in modo sommario, scriveva, perché nei prossimi anni potreste avere delle sorprese. Certo, sono tutte fondate le critiche da parte dei sostenitori della democrazia a un Paese che democratico non è, che non rispetta i diritti umani, che non ammette la formazione di sindacati autonomi e che non tutela l’ambiente né la salute dei suoi lavoratori. Ma, scrive Loretta Napleoni, queste critiche andrebbero approfondite alla luce dello stato critico in cui versano le nostre democrazie. In altre parole: perché non pensiamo a noi prima di criticare loro?

Già, perché ripercorrendo l’evoluzione cinese dal 1989 ad oggi si scopre che questo inedito mix cinese di comunismo e capitalismo forse ha qualcosa da insegnarci. In occidente, dal crollo del muro di Berlino, da quando cioè l’equazione benessere - democrazia ha prevalso su tutti i modelli alternativi, Marx sembra essere stato depennato di colpo dalla lista dei grandi padri dell’economia. Ora, fiumi d’inchiostro si sono già riversati sulla carta per dimostrare come l’Unione Sovietica non rappresentasse un’applicazione della teorica marxista, ma nonostante questo dopo il 1989 è venuto meno quel dibattito che vedeva contrapporsi nelle migliori università visioni liberiste e visioni marxiste dell’economia: il modello neoliberista ha trionfato perché quello socialista aveva fallito.

Mentre qui da noi il dibattito languiva e si avvicinava la peggior crisi di sistema del dopoguerra, la Cina recuperava la sua posizione centrale nello scacchiere geopolitico ed economico a colpi di controllo centrale e piani quinquennali. Oggi le nostre democrazie versano in cattive acque e il neo-liberismo sta facendo vedere tutti i suoi limiti. Al di là dei distinguo tra l’Europa e i suoi modelli di welfare e gli Stati Uniti, le democrazie occidentali sembrano tutte immerse nella stessa crisi di senso: democrazia esportata con i missili, connivenze con la criminalità organizzata, lobby finanziarie che la fanno da padrone, diritti del lavoro in fase di ridimensionamento e consumismo estremizzato che procura stress più che alleviarlo. Decisamente segnali di un malessere, o forse di qualcosa di peggio.

Loretta Napoleoni ci spiega come, negli stessi anni, la Cina abbia gestito la globalizzazione molto meglio di noi, e questo perché è un Paese dove lo Stato ancora oggi guida le metamorfosi economiche nell’interesse della popolazione. Cioè perché la Cina è ancora, in parte, un Paese comunista, e questo può non essere una contraddizione in termini.

Se, da un lato, il Partito Comunista Cinese ha smantellato gran parte dell’industria di Stato e delle comuni agricole, aprendo le Zes ai capitali stranieri ha innescato un processo di formazione di una classe media, e ha provocato l’uscita dalla soglia di povertà di milioni di persone. Questo senza rinunciare a un orientamento pianificato pensato per guidare lo sviluppo, rispettandone i tempi come invece non è avvenuto nell’ex-Unione Sovietica, dove l’apertura improvvisa al capitalismo gestito da un potere oligarichico ha fatto dei danni di cui si fatica a vedere la fine.

E’ possibile definire neo-marxista il modello cinese se si esce dall’interpretazione che ha identificato Marx con la dittatura del proletariato che, per Loretta Napoleoni, era solo un abbozzo finale, molto meno significativo della dottrina economica marxista nel suo complesso, identificabile con una critica puntuale e mai superata del sistema produttivo capitalista che può essere studiata all’interno di una dialettica non antitetica al capitalismo, ma anzi può diventarne una critica costruttiva.

Secondo questa interpretazione, per Marx la molla del profitto è il fulcro dell’intero sistema capitalista, e non può essere semplicemente rimosso dall’equazione economica. Questo è stato un errore dell’Unione Sovietica a cui la Cina ha posto rimedio. Allora il neo-marxismo cinese funziona? Aver evitato la crisi economica, essere avviati a diventare la prima potenza mondiale, sono indicatori di una strada corretta?

Ovviamente no, almeno non finché questo non andrà di pari passo con la conquista dei diritti. Secondo molti l’unione delle due cose è impossibile, non secondo la Napoleoni, e, a quanto sembra, nemmeno secondo il Partito Comunista Cinese, che a marzo ha pubblicato il suo dodicesimo piano quinquennale.

Cosa si propone? L’azzeramento delle diseguaglianze tra città e campagna, l’aumento dei salari per creare consumatori cinesi che dovranno sostenere la domanda in patria, centralità delle tematiche ecologiche e aumento dei diritti. Addirittura, il piano quinquennale si prefigge il raggiungimento della felicità. Ambizioso, certo, però interessante, e in linea con l’analisi di Maonomics.

Secondo Loretta Napoleoni, esiste una via cinese alla modernità in cui Marx ha ancora un ruolo e che potrebbe darci delle risposte su come migliorare il nostro sistema pieno di falle: la Cina deve per lo meno essere una fonte di riflessione. Se poi il piano quinquennale dovesse avere successo, allora dovremmo tutti riprendere in mano il Capitale e ricominciare a studiare Marx: scopriremmo che ha ancora parecchio da insegnarci…

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Una zona euro senza la Grecia: la politica tenta di sdrammatizzare in tutti i modi, ma le voci che paventano lo scenario si fanno sempre più autorevoli. A riaprire il dibattito proprio in questi giorni è stata la redazione online del settimanale tedesco Der Spiegel, secondo cui la Grecia starebbe effettivamente valutando l’abbandono dell’Eurozona per introdurre una moneta propria. Da Atene, il ministro delle Finanze socialista Giorgos Papaconstantinou smentisce subito con decisione, così come il capo dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker, per cui l’idea è semplicemente una “sciocchezza”. A catena, parole di rassicurazione arrivano da tutti i maggiori politici europei, eppure le illazioni proseguono.

Ad esempio, il presidente dell’Istituto di previsioni economiche tedesco Ifo Hans-Werner Sinn, ritiene che l’abbandono dell’Eurozona costituirebbe per Atene il “male minore”. In un’intervista al Franfurter Allgemeinen Sonntagszeitung, Sinn ha affermato che la Grecia potrebbe tornare a essere competitiva solo lasciando la zona euro. Certo, l’introduzione di una nuova moneta comporterebbe il rischio di bank run, ha ammesso Sinn, poiché il panico spingerebbe i risparmiatori greci a ritirare i propri soldi dalle banche e a metterli altrove, al sicuro da eventuali insolvenze. Il processo porterebbe quindi gli istituti bancari al fallimento e li costringerebbe a rivolgersi nuovamente all’Europa per riallinearsi.

Se si dà credito alle congetture di Sinn, lo scenario, per quanto cupo, rimane comunque la via d’uscita più favorevole per Atene. Per raggiungere gli obiettivi posti dall’Eurogruppo e rimanere un Paese EU a tutti gli effetti, la Grecia è tenuta a imporre un piano di austerity troppo rigido: per l’economista tedesco, tali restrizioni rischierebbero addirittura di condurre il Paese “sull’orlo della guerra civile”. La cosiddetta “svalutazione interna” del 20-30% in zona euro presuppone un taglio di prezzi e salari di portata insostenibile che spingerebbe i gruppi aziendali del Paese alla bancarotta, afferma Sinn. Gli istituti bancari rischierebbero il fallimento anche in questa situazione, poiché sono le aziende stesse a fallire e a non poter più restituire i loro crediti. Una doppia débacle, quindi, che vedrebbe anche “la morte di massa delle aziende”.

La posizione di Sinn non lascia spazio a interpretazioni e non può che riportare alla mente un altro importante economista tedesco, Axel Weber, ex-presidente della Banca federale tedesca, dimessosi a fine aprile. Prima di cedere il suo posto alla Bundesbank e rinunciare così alla candidatura per la presidenza della Banca centrale europea (Bce), l’ex-banchiere aveva criticato apertamente alcune decisioni della Bce stessa in merito all’acquisto dei bond della Grecia per risolvere l’emergenza crisi. Più in particolare, Weber aveva ipotizzato eventuali uscite temporanee dall’euro per i Paesi in crisi: un’opinione, a quanto pare, che sta trovando sempre più sostenitori fra gli economisti di un certo calibro, sebbene non condivisa dalla politica.

Per il momento, l’unica cosa certa rimangono i fatti, e questi non sembrano promettere nulla di buono. La Grecia deve fare i conti con 327 miliardi di euro di debito pubblico e i cittadini protestano quasi quotidianamente contro il Governo Papandreou e i suoi piani di austerità. Per Bruxelles, Atene avrebbe dovuto ritrovare l’equilibrio economico già dal 2012, ma l’obiettivo appare sempre più irrealizzabile e già si comincia a parlare di un’eventuale ristrutturazione del debito. Nonostante appaiano troppo severe per essere metabolizzate dal Paese, le manovre intraprese dal governo greco sembrano non essere sufficienti a soddisfare le esigenze di Bruxelles.

Unanime l’opinione dei politici europei, che considerano la questione greca da tutta un’altra prospettiva. Una voce per tutte è quella del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble (CDU), il maggiore sostenitore del progetto Europa, assolutamente contrario all’uscita della Grecia dalla zona euro. Secondo fonti vicine al ministro, citate da Der Spiegel, l’introduzione di una nuova moneta comporterebbe una svalutazione del 50% nel Paese, mentre il debito pubblico raggiungerebbe il 200% del Prodotto Interno Lordo: ciò significa, in una parola, bancarotta. E a questo punto il Governo di Atene dovrebbe introdurre misure di contenimento per impedire la fuga di capitali, una linea che non andrebbe d’accordo con il liberalismo europeo. In questo modo, secondo Schaeuble, la Grecia rischia di venire tagliata fuori dal mercato globale per i prossimi anni.

Ai primi posti, nella lista dei timori del ministro tedesco, c’è che l’uscita di un Paese dalla moneta unica rovinerebbe inesorabilmente la fiducia economica dei mercati nella zona euro. Gli investitori dovranno convivere con il timore dell’abbandono futuro di altri Paesi e a dominare le piazze di tutto il mondo sarebbe il fantasma del rischio contagio. In attesa dunque di vedere quali saranno le prossime mosse della Grecia, par di capire la sostanza degli incubi europeisti: l’uscita di Atene sarebbe un fatto grave e, per giunta, rischierebbe di provocare un effetto contagio per tutte le altre economie in crisi. Se l’euro è stato fino ad ora il cemento su cui edificare l’Ue, proprio dalla moneta unica potrebbe venire il primo atto della sua possibile disgregazione.

 

 

di Ilvio Pannullo

La notizia del declassamento del debito americano ad opera dell’agenzia di rating Standard & Poor’s corre veloce per tutte le Borse valori del mondo e produce inevitabilmente sconvolgimenti e riassetti. Sul fronte valutario l’euro, all’apertura dei mercati Usa, viaggia oramai spedito, centrando i suoi valori massimi da 15 mesi ad oggi contro la valuta statunitense, a  1,45 dollari.

A spingere la divisa europea, oltre al colpo basso subito dal dollaro ad opera dell’agenzia americana, il buon esito dell’asta sui titoli di Stato iberici e dati macroeconomici sopra le attese. Non mancano, inoltre, le voci di un nuovo rialzo del Tasso Ufficiale di Sconto prima dell’estate.

L’inflazione continua a tormentare il sonno del Governatore della Banca Centrale Europea Trichet, per cui non si esclude un ritocco di altri 0,25 punti base. Le conseguenze saranno le stesse di sempre: da una parte, la gioia dei ricchi intestatari di conti correnti a sei cifre, che vedranno aumentare gli interessi che le banche dove hanno depositato le proprie ricchezze gli dovranno accreditare; dall’altra, la paura delle famiglie con un mutuo a tasso variabile, che dovranno sopportare costi sempre maggiori per raggiungere il tanto agognato sogno di una casa di proprietà.

Con il biglietto verde che si sgonfia tornano intanto a respirare le commodities, dal grano al rame passando per il ferro, mentre il petrolio, unica copertura reale al valore nominale del dollaro, segna un rialzo del 2,47% a 110,95 dollari al barile. Il periodo è di quelli febbricitanti per gli investitori che nel vedere la prima potenza mondiale presa a schiaffi da una sua agenzia di rating, sicuramente avranno pensato a strategie alternative per i loro portafogli titoli. Donde la quotazione dell’oro ancora sui massimi storici sopra i 1.500 dollari l’oncia.

Tornando all’euro, la situazione rimane ancora molto confusa. La crisi dei paesi periferici - quei “maiali” europei tra cui viene conteggiato anche il nostro pese - potrebbe continuare a tormentare la valuta, anche alla luce dell’ipotesi di ristrutturazione del debito della Grecia. Il tutto mentre nel frattempo la Grecia intera va a fuoco. Ma non è solo Atene a preoccupare.

Recentissimamente la LCH.Clearnet -  il principale gruppo indipendente di stanze di compensazione, che serve il  maggior numero di scambi internazionali e piattaforme d’investimento, oltre ad una serie di mercati “Over The Counter” - ha innalzato al 25% dal precedente 15% la posizione netta del margine richiesto sulla negoziazione di titoli di Stato portoghesi.

Un modo deciso per segnalare come sia sempre più pericoloso un simile investimento. Il Paese lusitano potrebbe infatti chiedere aiuti al Fondo Monetario Internazionale, per circa 80 miliardi di euro. Sarebbe il terzo Paese dopo Grecia e Irlanda. Lo stesso Trichet si è mostrato più volte disponibile ad accettare proposte di aiuti. I titoli di Stato portoghesi con scadenza decennale offrono un rendimento del 9,65%. Nella sostanza: una follia per chiunque, una buona occasione per speculare per sciacalli e sicari dell’economia.

Se dal punto di vista strettamente economico abbiamo dunque un’eurozona che, nonostante la pessima condizione di alcune economie interne, viene puntellata dall’esterno dalla caduta del dollaro, dal punto di vista politico la situazione sicuramente non può essere definita felice. Appare infatti molto preoccupante lo spettro neofascista che si aggira per l’Europa. Solo recentemente si è avuta, da una parte, l’approvazione in Ungheria di una Costituzione ultrareazionaria; dall’altra, l’esito preoccupante delle elezioni in Finlandia con l’avanzata dei partiti populisti, xenofobi ed euroscettici. Se il carovita erode il potere d’acquisto della classe media, quanto sta accadendo sulla sponda sud del Mediterraneo con masse di disperati che scappano dalla guerra e dalle repressioni - il tutto sapientemente strumentalizzato dalle destre più o meno moderate - sta riaccendendo paure e rabbie che si speravano spente per sempre.

Quanto accaduto recentemente in uno dei civilissimi - e tradizionalmente socialdemocratici - paesi scandinavi deve infatti far riflettere chi, in Europa, ha a cuore gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. A delineare gli scenari interni e internazionali è stato l’analista politico dell’università di Helsinki, Jan Sundberg, secondo quanto riportato dal quotidiano della City londinese, il Financial Times: “Noi - dice Sundberg - abbiamo avuto la nostra crisi agli inizi degli anni Novanta e ne siamo usciti da soli, senza aiuti esterni, quindi la gente si chiede perché adesso che i Paesi dell’Europa meridionale sono in difficoltà debba pagare”. Insomma, ognuno per sé e Dio per tutti.

Ma se la crisi dell’Eurozona ha catalizzato la campagna elettorale, dietro l’avanzata dei populisti vi sarebbero cause più profonde, legate all’andamento dell’economia. Il settore manifatturiero finlandese, uno dei più forti d’Europa, è in difficoltà, mentre la ristrutturazione Nokia, prima compagnia nazionale, provocherà la perdita di migliaia di posti di lavoro. Si pensi, in Italia, al caso Fiat-Chrysler e in Francia e Germania alle strategie di acquisizione e riposizionamento dei grandi gruppi industriali.

I nomi sono diversi, ma i problemi e le soluzioni sul tavolo appaiono identici. Intanto un possibile accordo che sposti l’asse politico finlandese a destra preoccupa Bruxelles, che teme un’opposizione dei partiti conservatori e nazionalisti agli aiuti per scongiurare la bancarotta sul debito sovrano. Mancando nei fatti un’Europa politica, e cioè una credibilità europea, le destre nazionaliste hanno gioco facile nell’incalzare il malumore popolare, accusando l’usurocrazia e la logica elitaria che domina le istituzioni comunitarie.

Per non trovarsi impreparata davanti a questo rischio l’Unione europea avrebbe cominciato a valutare un piano di emergenza nel caso in cui Helsinki decidesse di non partecipare al piano per il salvataggio del Portogallo, che dovrebbe essere approvato al Consiglio Ecofin di maggio. A differenza di altri Paesi dell’Unione, il Parlamento finlandese ha infatti il diritto di votare il contributo nazionale agli aiuti europei, dando in questo modo all’Assemblea poteri di veto de facto. Un modo per dire che solo in alcuni paesi - quelli oggettivamente più democratici - i popoli  hanno la libertà di esprimersi su qualsiasi atto del governo, indipendentemente dalle conseguenze che questo potrebbe comportare.

Il nostro continente è dunque davanti ad un bivio, forse il più importante della sua storia: o diventare grande, decidendo di assumersi il peso delle conseguenze delle sue libere scelte, ponendo una volta per tutte il principio politico in capo alla struttura istituzionale, o crollare disgregandosi, se continuerà a prendere le sue decisioni guardando solo alla dimensione economica, necessariamente dipendente dagli interessi dei singoli Stati nazionali.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Quest’anno Berlino e l’Europa si sono trovate a celebrare una Festa dei lavoratori particolare: dal primo maggio anche lo Stato federale tedesco, ultimo fra i Paesi membri della vecchia Unione Europea (UE), ha finalmente aperto le porte a cittadini e lavoratori di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria, gli Stati dell’Europa dell’Est che sono parte nominale dell’UE già da diversi anni seppur “con riserva”. E ora, nonostante l’effettivo ritardo rispetto a tutto il Vecchio continente, la Germania sembra ben preparata ad accogliere i parenti dell’Est: ma soprattutto, finalmente, l’EU 25 è valida per tutti a tutti gli effetti.

Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria sono formalmente entrati a far parte della comunità europea (assieme a Malta e Cipro) nel 2004 per quella che è considerata l’espansione EU più importante, il cosiddetto “Allargamento a Est”. Dall’Estonia all’Ungheria, i neo-Paesi EU hanno portato con sé più di 75 milioni di abitanti: esseri umani, tuttavia, che non hanno goduto da subito di una delle ricchezze fondamentali del cittadino europeo, e cioè della libertà assoluta di circolazione.

Temendo le conseguenze di un flusso incontrollato di forza lavoro, i 15 Stati già membri EU si sono di fatto riservati il diritto di regolare l’immigrazione proveniente dal nuovo Est targato EU a seconda delle proprie necessità. Per abituare il proprio mercato al cambiamento (e per non correre rischi), la vecchia Europa si è concessa sette anni di tempo durante i quali poter restringere legalmente l’eventuale immigrazione proveniente da Est. Esclusi da questa legislazione particolare Malta e Cipro che, alla luce della relativa forza economica di cui disponevano e tuttora dispongono, non hanno spaventato la vecchia Europa.

Differenti le risposte dei vari Stati del Vecchio continente: Gran Bretagna, Irlanda e Svezia hanno garantito da subito libero accesso ai lavoratori dei nuovi Paesi membri senza porre alcun limite, mentre Grecia, Spania, Portogallo e Finlandia hanno aperto a est soltanto due anni dopo, a maggio 2006. L’Italia, da parte sua, ha aperto a luglio 2006, sotto l’allora Governo Prodi, che ha eliminato il limite annuale di 170mila lavoratori accolti e si è adattato (almeno teoricamente) alle direttive EU. Gli altri Stati si sono accomodati a mano a mano fino al termine ultimo concesso dal trattato d'adesione firmato il 16 aprile 2003, e cioè il primo maggio attuale, cui si è appellata appunto la Germania.

La decisione di rimandare l’appuntamento tedesco con i cittadini dell’Europa a 25 Paesi risale al Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che nel 2004 ha deciso di risparmiare all’economia tedesca la concorrenza della manodopera a buon mercato proveniente dai Paesi dell’Est alla luce dell’alta percentuale di disoccupazione in territorio tedesco. Per la Germania, la mancanza d'impiego era allora una vera e propria piaga: basti pensare che nell’ex- Repubblica Democratica Tedesca (RDT), a contatto diretto con i neo Paesi dell’EU a 25, i disoccupati raggiungevano il 19% della popolazione, per un totale di 5 milioni di unità nello Stato federale. Data l’immediata vicinanza e la recente storia particolare della Germania, Schroeder ha preferito non correre rischi.

Una scelta controversa, quella di Schroeder che, tuttavia, permette alla Germania di raccogliere buoni frutti. Perché ora le condizioni del mercato del lavoro tedesco sono cambiate e, nonostante il solito scetticismo dell’ala più conservatrice della politica, gli scenari che si prospettano sono ampiamente positivi. Per il momento, l’economia tedesca registra una robusta crescita e già da qualche tempo la Germania segnala una forte necessità di manodopera qualificata.

Alcuni economisti temono addirittura che l’eventuale flusso di cittadini dall’ex- blocco oltre-Cortina non sarà sufficiente a soddisfare la fame di forza lavoro della Repubblica federale teutonica. Senza contare che tanti giovani si sono già trasferiti altrove, e cioè in quei Paesi che hanno aperto da anni la loro economia alla nuova Europa: nel solo 2004 sono oltre due milioni i polacchi che si sono spostati in gran Bretagna e Irlanda in cerca di una carriera.

Il Governo tedesco conta che, annualmente, entreranno in Germania tra i 50 e i 150mila lavoratori provenienti dai nuovi Stati dell’EU a 25. L’Istituto per l’Economia tedesca di Colonia (Germania del Sud), invece, prospetta l’ingresso di ben 800mila immigrati nei due anni a venire, per un massimo di 1,2 milioni entro il 2020. Le stime rimangono comunque poco indicative, alla luce dell’esperienza della Gran Bretagna, uno dei primi Paesi ad aver aperto all’Europa del futuro: qui i lavoratori provenienti dai nuovi Paesi EU sono stati 15 volte le stime iniziali del Governo.

Attualmente in Germania vivono 425mila cittadini provenienti dall’Europa dell’est, 315mila dalla Polonia. Al primo posto tra gli immigrati comunitari stanno comunque gli italiani, con 365mila unità, secondi solo ai turchi, che invece superano il milione. Se l’apertura di quest’ulteriore confine verso est porterà dei cambiamenti alla benestante Germania, rimane tutto da vedere. Certo, il mercato del lavoro tedesco dovrà adattarsi. Il rischio maggiore è quello di uno sfruttamento dei nuovi lavoratori che provengono da Paesi in cui gli stipendi sono meno della metà rispetto a quelli tedeschi: c’è già chi avverte l’esigenza di alzare la retribuzione minima, così da garantire uno sviluppo in positivo (e non sommerso) della nuova forza lavoro.

Ma l’incubo maggiore, per il momento, rimane quello delle grandi industrie tedesche (e non) che hanno scelto di piantare i loro stabilimenti nei Paesi dell’est perché la manodopera costa meno. Alla luce dell’apertura delle ultime frontiere, l’urgente bisogno di decine di migliaia di lavoratori qualificati in Germania suona per loro (e per i loro stipendi da fame) come una grossa, grassa minaccia.  

 

di Ilvio Pannullo 

La notizia è di quelle che non ti aspetti: Standar & Poor's conferma il rating di AAA/A-1+ per il debito sovrano degli Stati Uniti, ma rivede l'outlook sul rating di lungo termine da stabile a negativo. A dirlo in termini tecnici sembra poca cosa, ma la nota che accompagna la decisione di una delle tre più importanti agenzie di rating chiarisce la portata dell’evento: "Crediamo che ci sia un rischio effettivo che la classe politica statunitense non riesca a raggiungere un accordo su come affrontare le sfide di bilancio di medio e lungo termine entro il 2013". "Se entro questa scadenza - si legge nel comunicato dell'agenzia di rating - non sarà raggiunto un compromesso e non ne verrà iniziata l'attuazione, il profilo di bilancio degli Stati Uniti diventerà significativamente più debole degli altri sovrani con rating AAA”.

Spiegando la riduzione dell'outlook, S&P nota che, relativamente agli altri stati con tripla A, "gli Usa hanno un deficit di bilancio molto ampio e un debito pubblico crescente e che il percorso per affrontarli non è chiaro". L'agenzia ha poi cercato di minimizzare lo stupore generale che una simile decisione ha ingenerato in tutti i mercati del mondo, sottolineando che non è sicuro che i rating degli Stati Uniti cambieranno dopo la revisione a negativo dell'outlook. Una timida retromarcia di finto galateo, cui nessuno ha sinceramente creduto.

Trasportandolo dal livello economico a termini più semplici, è come se un cardinale prendesse a ceffoni il Papa in pubblico: una cosa impensabile; di più, quasi impossibile. Eppure è successo: l'agenzia di rating Standard & Poor's abbassa l'outlook (cioè le prospettive) del debito statunitense a "negative", anche se conferma l'assoluta solidità del debito pubblico, la famosa "tripla A". Traducendolo in termini terra-terra, significa che S&P ritiene che le misure per ridurre il debito pubblico americano (che ha ormai raggiunto il 140% del Pil, quindi persino superiore al nostro che è intorno al 120% del Pil) proposte dal governo Obama non siano abbastanza incisive e che si non riesca ad approvarle a causa del mancato accordo con i repubblicani.

Per Standard & Poor’s  l’impasse politica americana sul come e quando affrontare i temi di natura fiscale a medio e lungo termine proseguirà fin oltre le elezioni del 2012. Il giudizio sul debito americano è quindi passato da “stabile” a “negativo” e questo ha messo il pepe alle Borse di tutto il mondo facendole scivolare vertiginosamente in territorio negativo trainate al ribasso in particolare dai titoli bancari. Stizzita la reazione della Casa Bianca, con in testa il consigliere economico Austan Goolsbee che ha posto l’accento sulla certezza dell’amministrazione di riuscire a raggiungere l’intesa sulla riduzione del deficit di bilancio.

Risale, infatti, a qualche settimana fa il progetto presentato da Obama per una riduzione del debito pari a 4.000 miliardi di dollari in 12 anni ma, di contro, il repubblicano Paul Ryan, Presidente della Commissione budget della Camera, ne ha proposto uno alternativo da 4.400 miliardi di dollari in 10 anni. Il timore degli analisti è che il dibattito politico possa impedire di dare concreta attuazione alla riduzione del debito pubblico, ormai non più procrastinabile.

Inoltre è fondamentale che il piano di riduzione sia largamente condiviso, onde evitare che la sua attuazione si riveli inefficace. Già prendere atto che esistono due piani non fa tuttavia pensare ad una rapida e sicura convergenza delle diverse proposte. Le prospettive torneranno ad essere “stabili”, per S&P, solo quando arriveranno concrete misure che comprendano il contenimento del deficit entro il 2013; viceversa, spiegano sempre gli analisti di S&P, la mancanza di accordo sulle misure da adottare o un peggioramento dei conti per qualsiasi causa, porterebbe ad abbassare ancora il rating della prima potenza economica mondiale.

Ad oltre due anni dall’inizio della crisi economica mondiale, anche negli USA della tripla A si pongono dunque seri e pressanti interrogativi su quale exit strategy, e quali provvedimenti fiscali, sia più opportuno adottare sul medio e lungo periodo.

Ma il Presidente americano Barack Obama non ci sta e denuncia una manovra politica alle spalle di questa decisione. Purtroppo per lui i mercati, invece, credono ad un possibile declassamento del debito pubblico Usa; da qui la brusca caduta di Wall Street, il cui indice Dow Jones è sceso dell'1,4%. La verità - che qualsiasi osservatore attento e onesto ben conosce - è tuttavia un’altra: il debito pubblico Usa è sopra una specie di bomba a tempo. Gran parte di esso è stato acquistato dal governo statunitense attraverso la stampa di una gran quantità di banconote - si ricorderà quel famoso esperimento di alchimia finanziaria noto come “alleggerimento quantitativo” - che ora sono custodite dalle banche.

Se queste dovessero trovarsi nella necessità di usarle, rischierebbero di innescare un’inflazione crescente che devasterebbe l'economia Usa. Per questo non solo è necessario ridurre i titoli del Tesoro circolanti, ma è indispensabile farlo rapidamente, in modo da poter ritirare le banconote stampate in eccesso rispetto alla quantità di beni e servizi offerti dall’economia. Ma di questo - anche su questo sito - già si è detto molto.

Il punto da sottolineare rimane purtroppo sempre lo stesso: quando il debito è impagabile, perché a dover pagare è la prima superpotenza nucleare del pianeta, questo sarà necessariamente liquidato, e dovendolo fare si ripartirà il dolore, lo stralcio cioè dei debiti, nel modo che meglio conservi lo status quo, tutto a vantaggio di chi già siede sul ponte di comando di questo pianeta.

Operazioni incomprensibili e scellerate come la socializzazione delle perdite del settore bancario, per salvare il mercato e la tenuta generale della credibilità di Wall Street dopo la crisi finanziaria innescata dal fallimento della Lehman Brothers nel 2008, o ancora come l’alleggerimento quantitativo (che nella sostanza ha significato pagare l’enorme debito di cui sopra) contratto dallo Stato Federale con il Federal Reserve System con l’emissione di altri titoli del debito pubblico per decine di miliardi di dollari, stanno lì a dimostrare che in economia la democrazia non esiste.

Gli uomini non sono tutti uguali, perché chi possiede viene salvato, graziato, suggellato, mentre chi non ha nulla viene offeso, allontanato e disprezzato dal sistema. La verità è che chi ha sempre comandato il gioco non ha alcuna intenzione di pagare per i propri errori ed è proprio attraverso complessi meccanismi tecnici che s’impedisce la comprensione di quanto effettivamente accade. Perché il cambiamento passa inevitabilmente dalla conoscenza: comprendere significa trasformare ciò che c’è.

 

 

 


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