di Sara Seganti

Il nuovo mensile di Emergency si è affacciato in edicola questo mese di maggio con la foto in copertina di una fabbrica di jeans in Cina, in grado di esprimere al meglio le condizioni di degrado in cui lavorano i giovani cinesi nelle Zes. Le Zes (Zone Economiche Speciali) sono città-fabbriche dove la Cina ha permesso ai capitali stranieri di entrare senza controlli, e sono state il motore iniziale della vertiginosa crescita economica di Pechino.

L’articolo di Simone Pieranni riporta dati interessanti: le fabbriche nelle Zes sfruttano i giovani cinesi migranti oggi come ieri, ma qualcosa sta cambiano. Frustrati dalle aspettative disattese, dai salari ancora troppo bassi, dall’assenza di sicurezza e di diritti sul lavoro, i trentenni cinesi stanno dando vita a scioperi e contestazioni per rivendicare benessere ancor prima che diritti. Una novità talmente enorme che, sfidando la censura, se n’è cominciato a parlare perfino nella televisione di Stato cinese e su internet. Nel 2009, ultimo dato disponibile, in Cina sono stati registrati circa 90.000 scioperi e contestazioni organizzati dai lavoratori. Le condizioni di vita e di lavoro nelle Zes sono ancora disumane, soprattutto per le donne, ma è innegabile che, senza cadere in facili entusiasmi, dei segnali di cambiamento, si comincino a vedere.

Li aveva raccontati già Loretta Napoleoni, economista formata in Inghilterra di origini italiane, in Maonomics: aspettate a giudicare la Cina in modo sommario, scriveva, perché nei prossimi anni potreste avere delle sorprese. Certo, sono tutte fondate le critiche da parte dei sostenitori della democrazia a un Paese che democratico non è, che non rispetta i diritti umani, che non ammette la formazione di sindacati autonomi e che non tutela l’ambiente né la salute dei suoi lavoratori. Ma, scrive Loretta Napleoni, queste critiche andrebbero approfondite alla luce dello stato critico in cui versano le nostre democrazie. In altre parole: perché non pensiamo a noi prima di criticare loro?

Già, perché ripercorrendo l’evoluzione cinese dal 1989 ad oggi si scopre che questo inedito mix cinese di comunismo e capitalismo forse ha qualcosa da insegnarci. In occidente, dal crollo del muro di Berlino, da quando cioè l’equazione benessere - democrazia ha prevalso su tutti i modelli alternativi, Marx sembra essere stato depennato di colpo dalla lista dei grandi padri dell’economia. Ora, fiumi d’inchiostro si sono già riversati sulla carta per dimostrare come l’Unione Sovietica non rappresentasse un’applicazione della teorica marxista, ma nonostante questo dopo il 1989 è venuto meno quel dibattito che vedeva contrapporsi nelle migliori università visioni liberiste e visioni marxiste dell’economia: il modello neoliberista ha trionfato perché quello socialista aveva fallito.

Mentre qui da noi il dibattito languiva e si avvicinava la peggior crisi di sistema del dopoguerra, la Cina recuperava la sua posizione centrale nello scacchiere geopolitico ed economico a colpi di controllo centrale e piani quinquennali. Oggi le nostre democrazie versano in cattive acque e il neo-liberismo sta facendo vedere tutti i suoi limiti. Al di là dei distinguo tra l’Europa e i suoi modelli di welfare e gli Stati Uniti, le democrazie occidentali sembrano tutte immerse nella stessa crisi di senso: democrazia esportata con i missili, connivenze con la criminalità organizzata, lobby finanziarie che la fanno da padrone, diritti del lavoro in fase di ridimensionamento e consumismo estremizzato che procura stress più che alleviarlo. Decisamente segnali di un malessere, o forse di qualcosa di peggio.

Loretta Napoleoni ci spiega come, negli stessi anni, la Cina abbia gestito la globalizzazione molto meglio di noi, e questo perché è un Paese dove lo Stato ancora oggi guida le metamorfosi economiche nell’interesse della popolazione. Cioè perché la Cina è ancora, in parte, un Paese comunista, e questo può non essere una contraddizione in termini.

Se, da un lato, il Partito Comunista Cinese ha smantellato gran parte dell’industria di Stato e delle comuni agricole, aprendo le Zes ai capitali stranieri ha innescato un processo di formazione di una classe media, e ha provocato l’uscita dalla soglia di povertà di milioni di persone. Questo senza rinunciare a un orientamento pianificato pensato per guidare lo sviluppo, rispettandone i tempi come invece non è avvenuto nell’ex-Unione Sovietica, dove l’apertura improvvisa al capitalismo gestito da un potere oligarichico ha fatto dei danni di cui si fatica a vedere la fine.

E’ possibile definire neo-marxista il modello cinese se si esce dall’interpretazione che ha identificato Marx con la dittatura del proletariato che, per Loretta Napoleoni, era solo un abbozzo finale, molto meno significativo della dottrina economica marxista nel suo complesso, identificabile con una critica puntuale e mai superata del sistema produttivo capitalista che può essere studiata all’interno di una dialettica non antitetica al capitalismo, ma anzi può diventarne una critica costruttiva.

Secondo questa interpretazione, per Marx la molla del profitto è il fulcro dell’intero sistema capitalista, e non può essere semplicemente rimosso dall’equazione economica. Questo è stato un errore dell’Unione Sovietica a cui la Cina ha posto rimedio. Allora il neo-marxismo cinese funziona? Aver evitato la crisi economica, essere avviati a diventare la prima potenza mondiale, sono indicatori di una strada corretta?

Ovviamente no, almeno non finché questo non andrà di pari passo con la conquista dei diritti. Secondo molti l’unione delle due cose è impossibile, non secondo la Napoleoni, e, a quanto sembra, nemmeno secondo il Partito Comunista Cinese, che a marzo ha pubblicato il suo dodicesimo piano quinquennale.

Cosa si propone? L’azzeramento delle diseguaglianze tra città e campagna, l’aumento dei salari per creare consumatori cinesi che dovranno sostenere la domanda in patria, centralità delle tematiche ecologiche e aumento dei diritti. Addirittura, il piano quinquennale si prefigge il raggiungimento della felicità. Ambizioso, certo, però interessante, e in linea con l’analisi di Maonomics.

Secondo Loretta Napoleoni, esiste una via cinese alla modernità in cui Marx ha ancora un ruolo e che potrebbe darci delle risposte su come migliorare il nostro sistema pieno di falle: la Cina deve per lo meno essere una fonte di riflessione. Se poi il piano quinquennale dovesse avere successo, allora dovremmo tutti riprendere in mano il Capitale e ricominciare a studiare Marx: scopriremmo che ha ancora parecchio da insegnarci…

 

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