di Sara Seganti

Facendo astrazione dalla situazione politica italiana e guardando alla stampa estera, il sistema di mercato così com’è stato codificato nel mondo occidentale sembra di fronte a un bivio. Da un lato, la crisi economica annunciata negli Stati Uniti nel 2007 con lo scoppio della bolla immobiliare (e finanziaria), divenuta crisi produttiva e mondiale in seguito al crollo di Lehman Brothers nel 2008 sembra essere molto lontana da una soluzione.

Dall’altro, il disastro ambientale di Fukushima con il pericolo della contaminazione nucleare, temibile conseguenza del terremoto e dello tsunami che hanno di recente colpito il Giappone, ha portato al centro del dibattito mondiale l’energia pulita e la sostenibilità ambientale dello sviluppo. In mezzo a queste due crisi sta il consumo tirato da una parte e dall’altra come un elastico da allungare senza fine.

Infatti, sembra essere opinione comune che il rilancio dei consumi sia la premessa fondamentale per superare la crisi economica, ma sono quegli stessi consumi che per essere soddisfatti richiedono l’utilizzo sempre maggiore di materie prime e energia: stretti in questa morsa come si può guardare al futuro? Serge Latouche, economista e filosofo francese, a tutti gli effetti un opinion leader dell’altro mondo possibile, nel suo ultimo libro "Come si esce dalla società dei consumi - Corsi e percorsi della decrescita"  sostiene che non esiste crescita economica compatibile con la sopravvivenza del pianeta. La sua soluzione si chiama decrescita, o meglio a-crescita. La decrescita non è una teoria ma una matrice di possibilità per uscire dal circolo vizioso della crescita e del sovra-consumo.

La fortuna di questa espressione nel recente dibattito sulle sorti del nostro pianeta è in parte dovuta ad un’operazione di semplificazione di questioni economiche in genere incomprensibili per i non addetti ai lavori, pratica questa che gli ha attirato più di una critica.

L’analisi di Latouche, che s’ispira, tra gli altri, anche ai rapporti del Club di Roma e al subcomandante Marcos, parte da un presupposto condiviso da molti oggi: “La società dei consumi di massa globalizzata è arrivata in fondo al vicolo cieco. E’ una società che ha la sua base - anzi la sua essenza - nella crescita senza limiti, mentre i dati fisici, geologici e biologici le impediscono di proseguire su quella strada, data la finitezza del pianeta”.

Al centro di questo contrasto sta il consumo, o meglio la forma che il consumo ha assunto nelle società di mercato occidentali. Secondo Latouche, questa società si codifica definitivamente negli anni cinquanta con l’istituzionalizzazione di tre principi cardine: la pubblicità, che alimenta senza sosta il desiderio di consumare, il credito, che propone i mezzi per consumare anche a chi non potrebbe, e forse non dovrebbe, permetterselo, e l’obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda.

Questo circolo globalizzato consumo-crescita non è in grado di convivere con la sopravvivenza del pianeta e del genere umano dal momento che si basa “essenzialmente sul prelievo dalle fonti energetiche fossili e le risorse non rinnovabili, sui rifiuti e l’inquinamento: è in sostanza una crescita di distruzione del nostro ecosistema”. Gli specialisti definiscono questo veloce processo di diminuzione della biodiversità vegetale e animale la “sesta estinzione”, dove la quinta è stata l’estinzione dei dinosauri.

L’a-crescita come liberazione dalla religione della crescita, è innanzitutto una posizione politica anti-imperialista per una resistenza al “rullo compressore dell’occidentalizzazione del mondo”.

Ma Latouche si spinge più in là rispetto al diffuso ragionamento sui danni e le disuguaglianze provocate dalla globalizzazione occidentale, delineando un’interessante critica alla moda dello sviluppo sostenibile come fittizia soluzione di compromesso non adeguata alla gravità della situazione.

Lo sviluppo sostenibile in questa lettura resta intrappolato in una concezione economica occidentale e non è che una retorica dell’uomo bianco dai buoni sentimenti dalla quale sono escluse nel merito le popolazioni del sud del mondo. Secondo il pensiero della decrescita, l’unica via è abbandonare la religione dello sviluppo tout court.

Come fare? La matrice della decrescita non è una teoria valida per tutti i luoghi e tutti i popoli, ma offre degli spunti da cui partire come l’autolimitazione e la sobrietà, il recupero della dimensione locale e relazionale del consumo. Latouche auspica un cambio di prospettiva come scelta e non come imposizione che liberi l’uomo dal bisogno e dal troppo lavoro. I principi su cui lavorare sono le otto R: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare. Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Ricilare.

Attraverso questo Ripensamento, si propone un nuovo socialismo ecologico per la liberazione dall’ossessione del consumo che possa farci superare l’impasse in cui ci troviamo: la decrescita è utopia o concreta speranza per il futuro?

 

di Ilvio Pannullo

La finanza pubblica ha ormai assunto un peso straordinario per tutti i governi europei. È oramai di gran lunga la sfida politica più difficile e lo dimostrano le continue manifestazioni contro i governi di tutta Europa contro i tagli alla spesa, decisi per risanare debiti pubblici oramai fuori controllo. Dopo la Grecia e l’Irlanda anche in Portogallo ormai la crisi è acclarata, con il piano da 75 miliardi di aiuti europei pronto a scattare non appena sia necessario. Ma anche per l'Italia le cose si stanno complicando: si capirà presto quanto sarà pesante il risanamento imposto dalle nuove regole europee approvato nel vertice del 25 marzo 2011.

Per la prima volta dal 1992, da quando cioè esiste il Patto di Stabilità, gli Stati membri dell'Unione si sono impegnati seriamente a ridurre il debito pubblico e non più soltanto a contenere il rapporto deficit/Pil. Donde il ruolo sempre più determinante del Dipartimento del Tesoro. È questa, infatti, la struttura che gestisce le emissioni di titoli di debito e che ha un compito decisivo: assicurare che ci siano sempre compratori per BoT (Buoni ordinari del Tesoro) e Btp (Buoni del Tesoro Pluriennali), ridurre al minimo il costo dei finanziamenti per lo Stato ed evitare che gli investitori si facciano spaventare da un indebitamento oramai arrivato vicino ai 1800 miliardi di euro.

La strategia difensiva elaborata in questi anni dalla dott.ssa Maria Cannata, direttore del Dipartimento del Tesoro, viene dunque messa alla prova da un nuovo contesto: grande attenzione sul debito pubblico da parte dei mercati febbricitanti per i recenti avvenimenti dell’area euro e tassi di interesse in crescita. Appena due giorni fa, infatti, dalle parole si è passati ai fatti con la BCE che, rompendo gli indugi, ha alzando di 0,25 punti i tassi d’interesse ufficiali dell'eurozona, dove il principale riferimento sul costo del denaro sale così all'1,25 per cento. Una manovra attesa dai mercati e che la stessa istituzione aveva lasciato presagire, nella necessità di contrastare le accelerazioni dell'inflazione innescate dai rincari del petrolio.

Ragionamenti un po’ astratti per la famiglie italiane, che vedranno ulteriormente aumentare le spese a fine mese. Il rialzo dei tassi deciso dalla Bce produrrà infatti una stangata per le famiglie italiane che stanno pagando un mutuo a tasso variabile mediamente pari a 204 euro all’anno, cioè 17 euro al mese.

Il calcolo è del Codacons, secondo cui “l’aumento del tasso di riferimento e il conseguente aumento del costo dei mutui metterà in difficoltà con il pagamento delle rate almeno 30.000 famiglie che attualmente riescono a onorare ancora i loro debiti. E’ la fine di un periodo positivo per le famiglie che avevano contratto mutui a tasso variabile”. Per il Codacons, si tratta di “una misura che la Bce è stata costretta a prendere per colpa dei governi europei che non hanno preso misure antinflazionistiche di politica fiscale, demandando alla sola politica monetaria il controllo dei prezzi”. Quindi nulla di buono.

Ma se il debito delle famiglie si fa sempre più precario, è quello dello Stato che rappresenta la vera ossessione dei nostri governanti. "Gli operatori di tutto il mondo hanno verificato che non è mai venuta meno la volontà dello Stato di tenere sotto controllo il debito pubblico, anche nei frangenti più difficili", assicurava pochi mesi fa la dott.ssa Cannata in un'intervista. Mentre il Ministro Giulio Tremonti predicava ottimismo cercando di convincere l'Europa che la ricchezza privata degli italiani è una protezione sufficiente dall'alto debito pubblico, la Dottoressa Cannataa, matematica cinquantasettenne con un passato all'Istat, usava argomenti decisamente più persuasivi e pragmatici per rassicurare i mercati.

Come quelle famiglie prudenti che preferiscono il rassicurante mutuo a tasso fisso rispetto al pericoloso fascino della rata variabile, la Cannata ha allungato le scadenze dei nostri titoli pubblici, pagando quindi un sovrapprezzo (va da sé: più dura il prestito, più si paga d’interessi) ma evitando all'Italia gli psicodrammi di Spagna e Portogallo che si trovano a dover piazzare miliardi di euro sempre con il terrore della bancarotta.

"Abbiamo da anni la tendenza ad allungare la scadenza, attualmente di sette anni, e cerchiamo di allungarla ancora un po' approfittando degli attuali tassi estremamente bassi", spiegava a novembre ad Affari & Finanza. Che la finanza pubblica sia ormai argomento centrale nell’agenda politica lo si può anche dedurre dalle esternazioni del nostro infaticabile uomo della Provvidenza. Ad ogni conferenza stampa, infatti, il premier Silvio Berlusconi ha preso l'abitudine di parlare del peso del debito che vincola ogni politica economica, a cominciare dalla famosa "frustata" alla crescita di cui, a poco più di un mese dall'annuncio, si sono già perse le tracce.

Lontano dai riflettori, invece, il Dipartimento del Tesoro della Cannata ha quantificato il vincolo del debito alla fine di marzo con il programma di emissioni del secondo trimestre 2011: soltanto nel mese di aprile verranno offerti agli investitori titoli per 28 miliardi di euro, in tre diverse aste. Entro fine anno saranno scaduti - e dunque sostituiti da nuove emissioni - oltre 150 miliardi di euro.

A fine anno il Sole 24 Ore promuoveva con queste parole la gestione Cannata: "Assecondando realisticamente l'aumento dei rendimenti imposti negli scambi sul mercato secondario (il luogo dove sono trattati i titoli già in circolazione, che vi rimangono fino alla loro eventuale scadenza ndr) senza strapagare, è in grado di portare a casa la raccolta di fondi programmata anche in condizioni di mercato molto avverse". Insomma una che ci sa fare. Resta da capire se questo sarà abbastanza, visto che il messaggio del Consiglio Europeo di fine marzo è arrivato chiaro Tremonti: i paesi ad alto debito devono cominciare subito a ridurlo, anche oltre lo 0,5% annuo previsto dalle nuove regole.

Se il Ministro non manterrà gli impegni e  la crescita non sarà all'altezza delle ottimistiche previsioni - un 2% di crescita annua dal 2012, condizione mai verificatasi neanche nell'Italia pre-crisi 2008 - il lavoro della Cannata non sarà più sufficiente a proteggere l'Italia. E per quel momento c'è da giurare che neanche i presunti e annunciati miracoli di Papi potranno evitare l'inevitabile.

di Giuliano Luongo

Ormai è ufficiale: dopo Grecia ed Irlanda, il Portogallo é il terzo paese europeo a chiedere un bail out gigantesco - 75 miliardi di euro - per venir fuori da una situazione economica disastrata, raggiunta grazie al solito mix di politiche economico-finanziarie allegre. E’ d’obbligo riassumere in poche parole quali brillanti strategie governative abbiano portato sull’orlo della bancarotta il paese guidato dal governo del socialista José Socrates: il mix di crisi globale e crisi europea, sommato alla latente stagnazione dell’economia portoghese alla quale faceva eco una disoccupazione crescente, aveva costretto il governo ad adottare una sorta di “pacchetto per l’austerità”, come del resto andavano facendo altri governi europei.

Sulla base di un infame deficit del 9,4% (ricordando che il Patto di Stabilità e Crescita pone il tetto al 3%, “appena” sei e mezzo maledetti punti percentuali prima), a metà 2010 il governo puntava a migliorare la situazione grazie ad un mix di incremento della tassazione, riduzione dei servizi pubblici e tagli agli stipendi dei dipendenti statali: tutto ciò per ridurre questo iniquo valore numerico di 5 punti percentuali per la metà del 2011. In ogni caso, “misteriosamente” la spesa pubblica continuava a mantenersi alta, innescando un richiamo sia dall’Ecofin che dall’OCSE per rafforzare le misure restrittive: il governo sembrò ubbidire, andando però contro il 99% delle promesse elettorali.

A peggiorare la situazione della reputazione dell’Esecutivo contribuì un dettagliato report del quotidiano Diario de Noticias, che spiegava la “ricetta” della disastrata situazione economica nazionale, esplosa nell’ultimo triennio a causa della congiuntura internazionale: assunzioni statali fasulle e stipendi gonfiati, bolle speculative edilizie innescate da oscure connessioni tra settore pubblico e privato, gestione truffaldina dei fondi europei e, dulcis in fundo, ristrutturazione fallace delle finanze statali tramite erogazione di bond troppo onerosi.

Risultati? Un paese di fronte alla bancarotta che non potrà pagare i 9 miliardi di euro di bond che matureranno nei prossimi due mesi. Magra consolazione rimane la sfiducia verso Socrates, mentre si attende il suo sostituto che uscirà dalle elezioni del 5 giugno prossimo; senza dimenticare che gli ultimi tentativi di adottare misure restrittive sono sfumati a causa della mancata convergenza parlamentare.

L’avventura della richiesta del prestito di emergenza è iniziata il 7 aprile, quando il Ministro delle Finanze lusitano, Fernando Teixeira dos Santos, ha dichiarato di avere in agenda un incontro (l’8 aprile in Ungheria) con i vertici di 16 paesi comunitari per discutere dei dettagli del prestito stesso. Un passo necessario se non obbligatorio? A quanto pare sì, a voler prendere per buone le parole dello sfiduciatissimo (non solo metaforicamente) Socrates, che ha messo il suo paese nella tipica non felice situazione finanziaria di chi si trova prima ad erogare bond con interessi clamorosi, per poi a non avere i soldi per pagarli.

Il perché è presto detto: un titolo di stato lusitano decennale offre un interesse del 5,9%, di gran lunga più di quanto possa offrire un titolo trentennale dello Stato tedesco. In questa fase preliminare di richiesta di prestito, nodo cruciale della faccenda era l’ammontare del tasso d’interesse da applicare sulla restituzione del prestito. Una prima proiezione lo vedeva in potenza da definire sulla base di quello affibbiato agli amici ellenici, che si troveranno a pagare il 3,5% per i primi tre anni, e poi il 4,5% per i seguenti.

In ogni caso, il meeting di Budapest ha portato risultati in linea con le aspettative della vigilia. I Ministri delle Finanze europei si sono trovati d’accordo sulla necessità di supportare il Portogallo, decidendo d’inviare a Lisbona una commissione congiunta - composta da membri della Commissione Europea, della BCE e del Fondo Monetario Internazionale - allo scopo di negoziare l’accordo per il prestito entro il 16 maggio, tre settimane prima delle elezioni politiche portoghesi.

Le stime preliminari vedono l’ammontare del prestito a 80 miliardi di euro, da erogare a condizione che il Portogallo metta in pratica un pacchetto revisionato di misure economiche restrittive: dovrà essere garantita l’efficacia dei tagli alla spesa pubblica e, soprattutto, dovrà essere effettuata una forte deregulation finanziaria per facilitare la ripresa. Come nei precedenti bail out, il prestito sarà erogato per due terzi dell’Unione Europea e per un terzo dal Fondo Monetario Internazionale. Va notato come al desiderio di “velocità d’esecuzione” espresso dal numero 1 del Fondo Dominique Strauss-Kahn (“il Fondo è pronto a muoversi rapidamente”) fanno potenzialmente da controcanto le voci del Ministro delle Finanze francese Christine Lagarde (già alquanto scettica su tutti i negoziati) e della mitica cancelliera Angela Merkel, la cui posizione politica traballa sempre più: un ulteriore atto di supporto economico all’estero potrebbe innescare una dura reazione elettorale nei vari fronti conservatori e antieuropeisti del suo paese.

Sarà interessante notare anche come la classe politica portoghese prenderà l’onere di far passare una larga serie di misure restrittive altamente impopolari, per il lobbista più corrotto come per l’elettore medio. Secondo il Presidente portoghese Cavaco Silva sarebbe utile iniziare con delle misure “ad interim” (cioé non troppo dannose per i politici che le prendono ndr) per poi mollare la patata bollente al governo che uscirà vincitore a giugno. In ogni caso, dal 12 aprile Bruxelles ha già messo, i propri uomini in Portogallo per valutare le modalità dell’implementazione del pacchetto di misure e l’erogazione del prestito stesso. In questo frangente, come detto, bisognerà aspettare ancora qualche settimana per avere delle informazioni adeguate.

Eppure qualcosa già si muove, se spostiamo lo sguardo sui mercati limitrofi. L’invio di questo vistoso SOS da parte dei lusitani ha avuto un effetto positivo sui mercati europei delle obbligazioni di stato, facendo passare il messaggio che se il Portogallo riceve aiuto il contagio non si propagherà più di tanto (leggasi: non si propagherà alla Spagna ndr), aiutando il valore dei bond iberici in primis e di altri paesi comunitari, tra cui quelli tedeschi. Sarà, ma in ogni caso, anche dopo l’aiuto all’Irlanda il Portogallo si riteneva potenzialmente salvo, quindi francamente il preoccuparsi continua ad essere un’abitudine.

A voler avere un minimo d’occhio critico, infatti, basterà notare come il disastroso malgoverno portoghese non è pratica sconosciuta anche agli altri paesi europei mediterranei a rischio, com’è abitudine nota quella di sfruttare i bond per uscire dai guai. E’ quantomeno evidente che rassicurare il mondo economico sullo stato di salute delle casse statali degli altri paesi a rischio contagio è un tentativo per mantenere accettabile il valore delle obbligazioni di questi ultimi, onde evitare un quarto e quinto episodio di bail out: necessario per non annegare a breve, disastroso in lungo periodo, perché si fomenta un comportamento da truffatore da strada da parte dei governi. Per ora, comunque, non resta che attendere di vedere cosa - e come - sarà deciso sul Portogallo: la catena di eventi economici che scaturiranno da questi negoziati è ancora tutta da definire.

 

di Ilvio Pannullo

In Islanda la popolazione ha di nuovo votato NO al referendum indetto sabato scorso dal governo per il caso Icesave. Gli islandesi, per la seconda volta, hanno espresso la loro più assoluta opposizione all’accordo sul rimborso di 3,9 miliardi di euro chiesto dalla Gran Bretagna e dall’Olanda in seguito al fallimento della Icesave, società controllata dalla Landsbanki. Tutti e sei i distretti elettorali islandesi hanno votato per il “No”, con una percentuale nazionale del 60%, in calo dal 93% del gennaio 2010,dimostrato così di voler respingere, ancora una volta, la proposta del governo, composto da Verdi e Social-Democratici.

Per chi non lo ricordasse, l'economia islandese è stata pesantemente colpita dalla prima onda della grande crisi finanziaria che si è abbattuta sull'isola e sul mondo intero nel 2008. Sono cadute immediatamente le due banche principali islandesi, che sono state subito nazionalizzate.

Icesave, una specie di conto arancio gestito dalla principale banca islandese (Landsbanki per l’appunto), ha sostanzialmente chiuso i battenti, essendo a quel punto incapace di rimborsare i clienti. Così, i risparmi di molti inglesi ed olandesi, i principali clienti di Icesave, sono rimasti congelati per un bel po'. Il governo inglese, per evitare spiacevoli proteste in casa propria, è intervenuto ed ha garantito i fondi dei cittadini inglesi, salvo poi presentare la nota spese all'Islanda.

Ed il nuovo governo islandese si è guardato bene dal prendere una decisione. Ha invece chiamato i cittadini alle urne per ben due volte in 13 mesi per votare a favore o contro un'ipotesi di ristrutturazione (e restituzione) del debito. E per la seconda volta in 13 mesi, il nuovo referendum - che prevedeva una lunga e comoda spalmata della restituzione fino al 2046 - ha visto il consueto verdetto dalle urne: NO.

Anche perché -  è giusto precisarlo -  in fondo Icesave è quasi interamente sostenuta, nei suoi depositi, da cittadini inglesi ed olandesi, non certo da cittadini islandesi. Quindi, se per caso non si paga, non sono certo gli islandesi a trovarsi carta straccia tra le mani. Da qui lo scontro ideologico sulla restituzione di un debito dovuto più alla speculazione straniera che non ad un’intensa opera di finanziamento dell’economia nazionale.

Il voto ha riflesso la diffusa convinzione che i negoziatori del governo non siano stati abbastanza vigorosi nel perorare il caso legale islandese. E’ vero, è stato ottenuto un termine di pagamento più lungo per gli esborsi di Icesave, ma il modo in cui l’Islanda otterrà le sterline e gli euro, malgrado la propria economia sia in caduta libera, è ancora da determinarsi e tutto questo minaccia il crollo del tasso di cambio della corona islandese. Ed una simile ipotesi non è semplicemente considerabile, perché la conseguenza di un eccessivo indebolimento della valuta islandese comporterebbe la svendita del patrimonio nazionale agli speculatori stranieri. Insomma, si rischierebbe un bis in idem.

L’accordo proposto ha effettivamente abbassato il tasso di interesse dal 5,5% al 3,2%, ma ha comportato che gli interessi per il salvataggio decorressero dal 2008. Ha persino incluso la quota d’interessi-extra che convinsero gli investitori stranieri a mettere i propri fondi in Icesave. Gli islandesi consideravano questi interessi-extra come una compensazione per i rischi che furono presi dagli investitori e per questa ragione dovrebbero esser andati persi e quindi non conteggiati. Il che non è del tutto illogico.

Ora, che ogni tentativo di riconciliazione è andato fallito, la cosa probabilmente finirà in tribunale sotto l'ala dell'EFTA, European Free Trade Agreement. E poi sarà tutto da vedere cosa succederà se mai il tribunale condannerà l'Islanda a pagare. Frosti Sigurjónsson, portavoce del "No", ha dichiarato che "il rischio di accettare questo accordo è molto più grande del rischio di affrontare la cosa in tribunale, che in fondo è un nostro diritto". Così, la questione “Icesave” andrà in tribunale. Si tratta dunque di capire come andrà a finire.

Intanto par di capire che Gran Bretagna e Paesi Bassi faranno davvero la parte del leone sui resti del cadavere di Landsbanki, giacché secondo il diritto europeo “il costo di finanziamento di tali schemi deve essere supportato, in via di principio, dagli stessi istituti di credito”. Questo non era, tuttavia, quello che volevano gli islandesi prima del voto; i poveri isolani avevano semplicemente intenzione di salvare la loro nazione da un’obbligazione senza fine, se si fossero iscritte le perdite delle banche all’interno dei paragrafi del bilancio pubblico, senza un piano per determinare il modo in cui l’Islanda avrebbe ottenuto i soldi per pagare. Nulla di più, ma neanche nulla di meno.

Il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha affermato che il voto può avviare “un caos economico e politico”, ma anche pagare può portare a queste conseguenze. L’anno appena trascorso ha visto la disastrosa esperienza di Grecia, Irlanda e Portogallo dopo aver portato i debiti dello scriteriato settore bancario all’interno del bilancio pubblico.

È difficile aspettarsi che ogni nazione sovrana imponga un decennio o più di depressione alla propria economia, visto che le leggi internazionali permettono a ogni stato di agire in difesa dei propri interessi vitali. Agire diversamente equivarrebbe a decidere di sottomettersi ai voleri dei banchieri, mandando al macello intere generazioni con i loro diritti civili,sociali e politici, presenti e futuri.

I tentativi dei creditori di persuadere le nazioni a salvare le loro banche con il debito pubblico è stato nei fatti, fino a questo momento, un esercizio di pubbliche relazioni. Gli islandesi hanno visto il successo ottenuto dall’Argentina da quando ha imposto un taglio drastico alle pretese dei propri creditori. Hanno anche visto la distruzione economica dell’Irlanda e della Grecia per aver cercato di pagare oltre le proprie possibilità. Hanno dunque ragionevolmente scelto di optare per una linea di difesa ad oltranza degli interessi nazionali. E dovrebbero essere presi ad esempio per questo.

 La storia recente ci racconta infatti di svariati episodi dai quali si può imparare molto. I creditori dell’Irlanda, ad esempio, non le diedero di certo buoni consigli quando le suggerirono che pagare i fallimenti delle proprie banche non avrebbe sprofondato l’economia in una crisi senza fine.

L’esperienza irlandese è un avvertimento, un esempio per gli altri paesi di cosa accade quando ci si fida delle previsioni ultra-ottimistiche fatte dai banchieri centrali, i veri signori oscuri di queste manovre tutte dirette all’affossamento degli stati sovrani.

Nel caso dell’Islanda, nel novembre del 2008 lo staff del Fondo Monetario Internazionale aveva ipotizzato che la somma di debito pubblico e privato alla fine del 2009 sarebbe arrivata al 160% del PIL, ma evidenziò che un deprezzamento del tasso di cambio del 30% avrebbe spinto il rapporto al 240% del PIL, e ciò sarebbe stato “chiaramente insostenibile”. Ma il più recente bollettino sempre del FMI, datato 14 Gennaio 2011, riporta il rapporto debito pubblico/PIL  per la fine del 2009 al 308% e stima lo stesso rapporto al 333% per la fine del 2010, prima ancora di mettere nel conteggio i debiti di Icesave (!!). Insomma, delle due l’una: o gli analisti finanziari del Fondo Monetario sono degli incompetenti strapagati o, al contrario, sono particolarmente abili nel manipolare i loro numeri e le loro statistiche per rispondere ad esigenze di politica economica. Ai posteri l’ardua sentenza.

Il problema principale dell’obbligazione dell’Islanda con la Gran Bretagna e con i Paesi Bassi, a parte ciò che verrà recuperato da Landsbanki (con l’aiuto dell’Ufficio Anti-Frodi britannico), è che i soldi dovranno essere pagati attraverso il pagamento di quanto ottenuto grazie all’esportazioni. Finora, tuttavia, non ci sono stati accordi tra Gran Bretagna e Paesi Bassi per decidere quali merci e servizi islandesi dovranno essere forniti come forma di pagamento. Insomma le carte sono sul tavolo, ma alcune sono scoperte, altre no.

Si dovrebbe invece auspicare la costituzione di un gruppo di esperti che immagini e definisca la soluzione più solida possibile: nessuna nazione sovrana può infatti adeguarsi all’imposizione di una generazione di austerità finanziaria, di ristrettezze economiche e di emigrazione forzata del lavoro per pagare per i fallimentari esperimenti neo-liberisti che hanno fatto sprofondare così tante economie europee. Si spera che la dignità mostrata dal popolo islandese illumini quanti, oggi, rischiano di trovarsi a breve nelle medesime condizioni.

 

 

 

di Mario Braconi

Nel corso dei tre mesi che si sono rivelati necessari a sigillarlo, il pozzo Deepwater Horizon ha disperso nel Golfo del Messico poco meno di 5 milioni di barili di petrolio: l’incidente, come noto, ha provocato undici morti e un disastro ambientale persino più grave di quello prodotto dalla Exxon Valdez. Come è stato riconosciuto da una specifica commissione presidenziale americana, a provocare la catastrofe non è stato un ghiribizzo crudele della natura, ma gli errori commessi da tutti gli attori in gioco.

Le evidenze fornite in proposito da Fred Bartlit, capo legale della commissione, sono impressionanti: la British Petroleum non ritenne di prendere alcuna contromisura, pur essendo al corrente dei problemi relativi al tipo di cemento che la Halliburton continuava ad usare da tre anni per sigillare; i suoi manager si rifiutarono di dotare la struttura di un dispositivo di sicurezza che sarebbe costato due milioni di dollari e che avrebbe potuto evitare lo scempio.

Scelta demenziale, anche a valutarla solo dal punto di vista economico, visto che un piccolo investimento di due milioni avrebbe forse evitato alla società costi futuri attualmente stimati in 41 miliardi di dollari (tanto valgono infatti gli accantonamenti relativi a bilancio).

Il documento cita in particolare nove scelte del management (sulle quali tutte c’e stato un pieno coinvolgimento della BP) basate su un disinvolto baratto tra il tempo ed il denaro risparmiato dalle singole aziende ed un aumento significativo del rischio di incidenti, ambientali e non. Secondo la commissione voluta da Obama, da un lato l’incidente “non si sarebbe verificato se le tre società interessate (BP, Halliburton e Transocean) fossero state guidate da un principio indefettibile di “sicurezza prima di tutto”; dall’altro non vanno minimizzate le responsabilità dei regolatori, che avrebbero dovuto mostrare “di pretendere i massimi livelli di sicurezza possibili”. Ma i veri problemi, per la commissione, sono stati soprattutto l’incapacità e l’atteggiamento superficiale del management.

Per questa ragione è particolarmente deprimente lo spettacolo degli altri dirigenti della BP (inclusi i due trombati dopo il caso Deepwater Horizon) che ricevono bonus faraonici per il loro “ottimo” lavoro: sotto la lente, in particolare, i cospicui pacchetti azionari che potrebbero essere assegnati a Tony Hayward e ad Andy Inglis, rispettivamente ex Amministratore Delegato ed ex capo della divisione Esplorazione e Produzione, le cui teste sono cadute subito dopo il disastro.

Una liquidazione in titoli della società, di importo pari a 9 e 6 milioni circa di equivalente euro, rispettivamente. Inoltre, l’associazione degli Assicuratori Britannici (ABI), ha stigmatizzato in un apposito rapporto il fatto che tanto il direttore finanziario (Byron Grote) che il direttore del servizio Raffinazione (Iain Conn) abbiano ricevuto bonus pari a circa 115 mila euro ciascuno.

La BP risponde alle critiche con imbarazzanti sofismi, ad esempio sottolineando come ad Hayward ed Inglis non siano stati pagati benefici in contanti, ma in azioni, o spiegando che, nel caso di Grote e Conn, i soldi erano dovuti in quanto i due hanno raggiunto gli risultati obiettivo previsti per l’anno. Ma non convince.

Ed è interessante notare che a protestare questa volta non siano i guastafeste scettici sulle virtù salvifiche del capitalismo altamente finanziarizzato, i soliti no global per intenderci, ma interlocutori ben più compassati e soprattutto adusi a solcare con le loro fiammanti Church le moquette pregiate dei corridoi delle banche d’affari. Ad esempio la PIRC, società di consulenza specializzata in questioni di corporate governance, ha definito “eccessivi” i bonus e le retribuzioni dei due, consigliando agli azionisti di non approvare quella parte del bilancio di esercizio di BP in cui si stabiliscono gli emolumenti degli alti dirigenti.

Di tenore diverso ed argomentate in modo più completo, invece, le istanze di un gruppo di azionisti che rappresenta complessivamente 12 miliardi di dollari (8,5 miliardi di euro) di massa investita e circa un milione di azioni della BP. Questa piccola “coalizione dei volenterosi” è capitanata dalla Christian Brothers Investment Services (CBIS), una realtà imprenditoriale che mette assieme Dio e Mammona, visto che investe per conto di istituzioni cattoliche sparse in tutto il mondo.

Quelli della CBIS non solo sono giustamente indignati del trattamento riservato alle persone coinvolte nel disastro del Golfo del Messico, ma intendono fare domande precise, e scomode, all’assemblea fissata il 14 aprile per approvare il bilancio.

Come dice al Wall Street Journal Julie Tanner, vice direttore del dipartimento responsabilità sociale dei Christian Broters “gli azionisti hanno bisogno di informazioni più dettagliate per capire in che modo la funzione sicurezza e gestione rischi della BP è stata rafforzata e quali controlli il Consiglio di Amministrazione abbia messo in atto per sorvegliare il processo”.

Insomma, l’assemblea della settimana ventura potrebbe rivelarsi più movimentata ed interessante del solito; nel frattempo non occorre essere troppo maliziosi per domandarsi se la massa di denaro con la quale sono stati affogati i due ex boss uscenti della BP non possa provocar loro qualche utile amnesia, caso mai dovessero essere interpellati in futuro dai media.


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