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di Emanuela Pessina
BERLINO. Quest’anno Berlino e l’Europa si sono trovate a celebrare una Festa dei lavoratori particolare: dal primo maggio anche lo Stato federale tedesco, ultimo fra i Paesi membri della vecchia Unione Europea (UE), ha finalmente aperto le porte a cittadini e lavoratori di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria, gli Stati dell’Europa dell’Est che sono parte nominale dell’UE già da diversi anni seppur “con riserva”. E ora, nonostante l’effettivo ritardo rispetto a tutto il Vecchio continente, la Germania sembra ben preparata ad accogliere i parenti dell’Est: ma soprattutto, finalmente, l’EU 25 è valida per tutti a tutti gli effetti.
Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria sono formalmente entrati a far parte della comunità europea (assieme a Malta e Cipro) nel 2004 per quella che è considerata l’espansione EU più importante, il cosiddetto “Allargamento a Est”. Dall’Estonia all’Ungheria, i neo-Paesi EU hanno portato con sé più di 75 milioni di abitanti: esseri umani, tuttavia, che non hanno goduto da subito di una delle ricchezze fondamentali del cittadino europeo, e cioè della libertà assoluta di circolazione.
Temendo le conseguenze di un flusso incontrollato di forza lavoro, i 15 Stati già membri EU si sono di fatto riservati il diritto di regolare l’immigrazione proveniente dal nuovo Est targato EU a seconda delle proprie necessità. Per abituare il proprio mercato al cambiamento (e per non correre rischi), la vecchia Europa si è concessa sette anni di tempo durante i quali poter restringere legalmente l’eventuale immigrazione proveniente da Est. Esclusi da questa legislazione particolare Malta e Cipro che, alla luce della relativa forza economica di cui disponevano e tuttora dispongono, non hanno spaventato la vecchia Europa.
Differenti le risposte dei vari Stati del Vecchio continente: Gran Bretagna, Irlanda e Svezia hanno garantito da subito libero accesso ai lavoratori dei nuovi Paesi membri senza porre alcun limite, mentre Grecia, Spania, Portogallo e Finlandia hanno aperto a est soltanto due anni dopo, a maggio 2006. L’Italia, da parte sua, ha aperto a luglio 2006, sotto l’allora Governo Prodi, che ha eliminato il limite annuale di 170mila lavoratori accolti e si è adattato (almeno teoricamente) alle direttive EU. Gli altri Stati si sono accomodati a mano a mano fino al termine ultimo concesso dal trattato d'adesione firmato il 16 aprile 2003, e cioè il primo maggio attuale, cui si è appellata appunto la Germania.
La decisione di rimandare l’appuntamento tedesco con i cittadini dell’Europa a 25 Paesi risale al Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che nel 2004 ha deciso di risparmiare all’economia tedesca la concorrenza della manodopera a buon mercato proveniente dai Paesi dell’Est alla luce dell’alta percentuale di disoccupazione in territorio tedesco. Per la Germania, la mancanza d'impiego era allora una vera e propria piaga: basti pensare che nell’ex- Repubblica Democratica Tedesca (RDT), a contatto diretto con i neo Paesi dell’EU a 25, i disoccupati raggiungevano il 19% della popolazione, per un totale di 5 milioni di unità nello Stato federale. Data l’immediata vicinanza e la recente storia particolare della Germania, Schroeder ha preferito non correre rischi.
Una scelta controversa, quella di Schroeder che, tuttavia, permette alla Germania di raccogliere buoni frutti. Perché ora le condizioni del mercato del lavoro tedesco sono cambiate e, nonostante il solito scetticismo dell’ala più conservatrice della politica, gli scenari che si prospettano sono ampiamente positivi. Per il momento, l’economia tedesca registra una robusta crescita e già da qualche tempo la Germania segnala una forte necessità di manodopera qualificata.
Alcuni economisti temono addirittura che l’eventuale flusso di cittadini dall’ex- blocco oltre-Cortina non sarà sufficiente a soddisfare la fame di forza lavoro della Repubblica federale teutonica. Senza contare che tanti giovani si sono già trasferiti altrove, e cioè in quei Paesi che hanno aperto da anni la loro economia alla nuova Europa: nel solo 2004 sono oltre due milioni i polacchi che si sono spostati in gran Bretagna e Irlanda in cerca di una carriera.
Il Governo tedesco conta che, annualmente, entreranno in Germania tra i 50 e i 150mila lavoratori provenienti dai nuovi Stati dell’EU a 25. L’Istituto per l’Economia tedesca di Colonia (Germania del Sud), invece, prospetta l’ingresso di ben 800mila immigrati nei due anni a venire, per un massimo di 1,2 milioni entro il 2020. Le stime rimangono comunque poco indicative, alla luce dell’esperienza della Gran Bretagna, uno dei primi Paesi ad aver aperto all’Europa del futuro: qui i lavoratori provenienti dai nuovi Paesi EU sono stati 15 volte le stime iniziali del Governo.
Attualmente in Germania vivono 425mila cittadini provenienti dall’Europa dell’est, 315mila dalla Polonia. Al primo posto tra gli immigrati comunitari stanno comunque gli italiani, con 365mila unità, secondi solo ai turchi, che invece superano il milione. Se l’apertura di quest’ulteriore confine verso est porterà dei cambiamenti alla benestante Germania, rimane tutto da vedere. Certo, il mercato del lavoro tedesco dovrà adattarsi. Il rischio maggiore è quello di uno sfruttamento dei nuovi lavoratori che provengono da Paesi in cui gli stipendi sono meno della metà rispetto a quelli tedeschi: c’è già chi avverte l’esigenza di alzare la retribuzione minima, così da garantire uno sviluppo in positivo (e non sommerso) della nuova forza lavoro.
Ma l’incubo maggiore, per il momento, rimane quello delle grandi industrie tedesche (e non) che hanno scelto di piantare i loro stabilimenti nei Paesi dell’est perché la manodopera costa meno. Alla luce dell’apertura delle ultime frontiere, l’urgente bisogno di decine di migliaia di lavoratori qualificati in Germania suona per loro (e per i loro stipendi da fame) come una grossa, grassa minaccia.
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di Ilvio Pannullo
La notizia è di quelle che non ti aspetti: Standar & Poor's conferma il rating di AAA/A-1+ per il debito sovrano degli Stati Uniti, ma rivede l'outlook sul rating di lungo termine da stabile a negativo. A dirlo in termini tecnici sembra poca cosa, ma la nota che accompagna la decisione di una delle tre più importanti agenzie di rating chiarisce la portata dell’evento: "Crediamo che ci sia un rischio effettivo che la classe politica statunitense non riesca a raggiungere un accordo su come affrontare le sfide di bilancio di medio e lungo termine entro il 2013". "Se entro questa scadenza - si legge nel comunicato dell'agenzia di rating - non sarà raggiunto un compromesso e non ne verrà iniziata l'attuazione, il profilo di bilancio degli Stati Uniti diventerà significativamente più debole degli altri sovrani con rating AAA”.
Spiegando la riduzione dell'outlook, S&P nota che, relativamente agli altri stati con tripla A, "gli Usa hanno un deficit di bilancio molto ampio e un debito pubblico crescente e che il percorso per affrontarli non è chiaro". L'agenzia ha poi cercato di minimizzare lo stupore generale che una simile decisione ha ingenerato in tutti i mercati del mondo, sottolineando che non è sicuro che i rating degli Stati Uniti cambieranno dopo la revisione a negativo dell'outlook. Una timida retromarcia di finto galateo, cui nessuno ha sinceramente creduto.
Trasportandolo dal livello economico a termini più semplici, è come se un cardinale prendesse a ceffoni il Papa in pubblico: una cosa impensabile; di più, quasi impossibile. Eppure è successo: l'agenzia di rating Standard & Poor's abbassa l'outlook (cioè le prospettive) del debito statunitense a "negative", anche se conferma l'assoluta solidità del debito pubblico, la famosa "tripla A". Traducendolo in termini terra-terra, significa che S&P ritiene che le misure per ridurre il debito pubblico americano (che ha ormai raggiunto il 140% del Pil, quindi persino superiore al nostro che è intorno al 120% del Pil) proposte dal governo Obama non siano abbastanza incisive e che si non riesca ad approvarle a causa del mancato accordo con i repubblicani.
Per Standard & Poor’s l’impasse politica americana sul come e quando affrontare i temi di natura fiscale a medio e lungo termine proseguirà fin oltre le elezioni del 2012. Il giudizio sul debito americano è quindi passato da “stabile” a “negativo” e questo ha messo il pepe alle Borse di tutto il mondo facendole scivolare vertiginosamente in territorio negativo trainate al ribasso in particolare dai titoli bancari. Stizzita la reazione della Casa Bianca, con in testa il consigliere economico Austan Goolsbee che ha posto l’accento sulla certezza dell’amministrazione di riuscire a raggiungere l’intesa sulla riduzione del deficit di bilancio.
Risale, infatti, a qualche settimana fa il progetto presentato da Obama per una riduzione del debito pari a 4.000 miliardi di dollari in 12 anni ma, di contro, il repubblicano Paul Ryan, Presidente della Commissione budget della Camera, ne ha proposto uno alternativo da 4.400 miliardi di dollari in 10 anni. Il timore degli analisti è che il dibattito politico possa impedire di dare concreta attuazione alla riduzione del debito pubblico, ormai non più procrastinabile.
Inoltre è fondamentale che il piano di riduzione sia largamente condiviso, onde evitare che la sua attuazione si riveli inefficace. Già prendere atto che esistono due piani non fa tuttavia pensare ad una rapida e sicura convergenza delle diverse proposte. Le prospettive torneranno ad essere “stabili”, per S&P, solo quando arriveranno concrete misure che comprendano il contenimento del deficit entro il 2013; viceversa, spiegano sempre gli analisti di S&P, la mancanza di accordo sulle misure da adottare o un peggioramento dei conti per qualsiasi causa, porterebbe ad abbassare ancora il rating della prima potenza economica mondiale.
Ad oltre due anni dall’inizio della crisi economica mondiale, anche negli USA della tripla A si pongono dunque seri e pressanti interrogativi su quale exit strategy, e quali provvedimenti fiscali, sia più opportuno adottare sul medio e lungo periodo.
Ma il Presidente americano Barack Obama non ci sta e denuncia una manovra politica alle spalle di questa decisione. Purtroppo per lui i mercati, invece, credono ad un possibile declassamento del debito pubblico Usa; da qui la brusca caduta di Wall Street, il cui indice Dow Jones è sceso dell'1,4%. La verità - che qualsiasi osservatore attento e onesto ben conosce - è tuttavia un’altra: il debito pubblico Usa è sopra una specie di bomba a tempo. Gran parte di esso è stato acquistato dal governo statunitense attraverso la stampa di una gran quantità di banconote - si ricorderà quel famoso esperimento di alchimia finanziaria noto come “alleggerimento quantitativo” - che ora sono custodite dalle banche.
Se queste dovessero trovarsi nella necessità di usarle, rischierebbero di innescare un’inflazione crescente che devasterebbe l'economia Usa. Per questo non solo è necessario ridurre i titoli del Tesoro circolanti, ma è indispensabile farlo rapidamente, in modo da poter ritirare le banconote stampate in eccesso rispetto alla quantità di beni e servizi offerti dall’economia. Ma di questo - anche su questo sito - già si è detto molto.
Il punto da sottolineare rimane purtroppo sempre lo stesso: quando il debito è impagabile, perché a dover pagare è la prima superpotenza nucleare del pianeta, questo sarà necessariamente liquidato, e dovendolo fare si ripartirà il dolore, lo stralcio cioè dei debiti, nel modo che meglio conservi lo status quo, tutto a vantaggio di chi già siede sul ponte di comando di questo pianeta.
Operazioni incomprensibili e scellerate come la socializzazione delle perdite del settore bancario, per salvare il mercato e la tenuta generale della credibilità di Wall Street dopo la crisi finanziaria innescata dal fallimento della Lehman Brothers nel 2008, o ancora come l’alleggerimento quantitativo (che nella sostanza ha significato pagare l’enorme debito di cui sopra) contratto dallo Stato Federale con il Federal Reserve System con l’emissione di altri titoli del debito pubblico per decine di miliardi di dollari, stanno lì a dimostrare che in economia la democrazia non esiste.
Gli uomini non sono tutti uguali, perché chi possiede viene salvato, graziato, suggellato, mentre chi non ha nulla viene offeso, allontanato e disprezzato dal sistema. La verità è che chi ha sempre comandato il gioco non ha alcuna intenzione di pagare per i propri errori ed è proprio attraverso complessi meccanismi tecnici che s’impedisce la comprensione di quanto effettivamente accade. Perché il cambiamento passa inevitabilmente dalla conoscenza: comprendere significa trasformare ciò che c’è.
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di Sara Seganti
Facendo astrazione dalla situazione politica italiana e guardando alla stampa estera, il sistema di mercato così com’è stato codificato nel mondo occidentale sembra di fronte a un bivio. Da un lato, la crisi economica annunciata negli Stati Uniti nel 2007 con lo scoppio della bolla immobiliare (e finanziaria), divenuta crisi produttiva e mondiale in seguito al crollo di Lehman Brothers nel 2008 sembra essere molto lontana da una soluzione.
Dall’altro, il disastro ambientale di Fukushima con il pericolo della contaminazione nucleare, temibile conseguenza del terremoto e dello tsunami che hanno di recente colpito il Giappone, ha portato al centro del dibattito mondiale l’energia pulita e la sostenibilità ambientale dello sviluppo. In mezzo a queste due crisi sta il consumo tirato da una parte e dall’altra come un elastico da allungare senza fine.
Infatti, sembra essere opinione comune che il rilancio dei consumi sia la premessa fondamentale per superare la crisi economica, ma sono quegli stessi consumi che per essere soddisfatti richiedono l’utilizzo sempre maggiore di materie prime e energia: stretti in questa morsa come si può guardare al futuro? Serge Latouche, economista e filosofo francese, a tutti gli effetti un opinion leader dell’altro mondo possibile, nel suo ultimo libro "Come si esce dalla società dei consumi - Corsi e percorsi della decrescita" sostiene che non esiste crescita economica compatibile con la sopravvivenza del pianeta. La sua soluzione si chiama decrescita, o meglio a-crescita. La decrescita non è una teoria ma una matrice di possibilità per uscire dal circolo vizioso della crescita e del sovra-consumo.
La fortuna di questa espressione nel recente dibattito sulle sorti del nostro pianeta è in parte dovuta ad un’operazione di semplificazione di questioni economiche in genere incomprensibili per i non addetti ai lavori, pratica questa che gli ha attirato più di una critica.
L’analisi di Latouche, che s’ispira, tra gli altri, anche ai rapporti del Club di Roma e al subcomandante Marcos, parte da un presupposto condiviso da molti oggi: “La società dei consumi di massa globalizzata è arrivata in fondo al vicolo cieco. E’ una società che ha la sua base - anzi la sua essenza - nella crescita senza limiti, mentre i dati fisici, geologici e biologici le impediscono di proseguire su quella strada, data la finitezza del pianeta”.
Al centro di questo contrasto sta il consumo, o meglio la forma che il consumo ha assunto nelle società di mercato occidentali. Secondo Latouche, questa società si codifica definitivamente negli anni cinquanta con l’istituzionalizzazione di tre principi cardine: la pubblicità, che alimenta senza sosta il desiderio di consumare, il credito, che propone i mezzi per consumare anche a chi non potrebbe, e forse non dovrebbe, permetterselo, e l’obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda.
Questo circolo globalizzato consumo-crescita non è in grado di convivere con la sopravvivenza del pianeta e del genere umano dal momento che si basa “essenzialmente sul prelievo dalle fonti energetiche fossili e le risorse non rinnovabili, sui rifiuti e l’inquinamento: è in sostanza una crescita di distruzione del nostro ecosistema”. Gli specialisti definiscono questo veloce processo di diminuzione della biodiversità vegetale e animale la “sesta estinzione”, dove la quinta è stata l’estinzione dei dinosauri.
L’a-crescita come liberazione dalla religione della crescita, è innanzitutto una posizione politica anti-imperialista per una resistenza al “rullo compressore dell’occidentalizzazione del mondo”.
Ma Latouche si spinge più in là rispetto al diffuso ragionamento sui danni e le disuguaglianze provocate dalla globalizzazione occidentale, delineando un’interessante critica alla moda dello sviluppo sostenibile come fittizia soluzione di compromesso non adeguata alla gravità della situazione.
Lo sviluppo sostenibile in questa lettura resta intrappolato in una concezione economica occidentale e non è che una retorica dell’uomo bianco dai buoni sentimenti dalla quale sono escluse nel merito le popolazioni del sud del mondo. Secondo il pensiero della decrescita, l’unica via è abbandonare la religione dello sviluppo tout court.
Come fare? La matrice della decrescita non è una teoria valida per tutti i luoghi e tutti i popoli, ma offre degli spunti da cui partire come l’autolimitazione e la sobrietà, il recupero della dimensione locale e relazionale del consumo. Latouche auspica un cambio di prospettiva come scelta e non come imposizione che liberi l’uomo dal bisogno e dal troppo lavoro. I principi su cui lavorare sono le otto R: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare. Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Ricilare.
Attraverso questo Ripensamento, si propone un nuovo socialismo ecologico per la liberazione dall’ossessione del consumo che possa farci superare l’impasse in cui ci troviamo: la decrescita è utopia o concreta speranza per il futuro?
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di Ilvio Pannullo
La finanza pubblica ha ormai assunto un peso straordinario per tutti i governi europei. È oramai di gran lunga la sfida politica più difficile e lo dimostrano le continue manifestazioni contro i governi di tutta Europa contro i tagli alla spesa, decisi per risanare debiti pubblici oramai fuori controllo. Dopo la Grecia e l’Irlanda anche in Portogallo ormai la crisi è acclarata, con il piano da 75 miliardi di aiuti europei pronto a scattare non appena sia necessario. Ma anche per l'Italia le cose si stanno complicando: si capirà presto quanto sarà pesante il risanamento imposto dalle nuove regole europee approvato nel vertice del 25 marzo 2011.
Per la prima volta dal 1992, da quando cioè esiste il Patto di Stabilità, gli Stati membri dell'Unione si sono impegnati seriamente a ridurre il debito pubblico e non più soltanto a contenere il rapporto deficit/Pil. Donde il ruolo sempre più determinante del Dipartimento del Tesoro. È questa, infatti, la struttura che gestisce le emissioni di titoli di debito e che ha un compito decisivo: assicurare che ci siano sempre compratori per BoT (Buoni ordinari del Tesoro) e Btp (Buoni del Tesoro Pluriennali), ridurre al minimo il costo dei finanziamenti per lo Stato ed evitare che gli investitori si facciano spaventare da un indebitamento oramai arrivato vicino ai 1800 miliardi di euro.
La strategia difensiva elaborata in questi anni dalla dott.ssa Maria Cannata, direttore del Dipartimento del Tesoro, viene dunque messa alla prova da un nuovo contesto: grande attenzione sul debito pubblico da parte dei mercati febbricitanti per i recenti avvenimenti dell’area euro e tassi di interesse in crescita. Appena due giorni fa, infatti, dalle parole si è passati ai fatti con la BCE che, rompendo gli indugi, ha alzando di 0,25 punti i tassi d’interesse ufficiali dell'eurozona, dove il principale riferimento sul costo del denaro sale così all'1,25 per cento. Una manovra attesa dai mercati e che la stessa istituzione aveva lasciato presagire, nella necessità di contrastare le accelerazioni dell'inflazione innescate dai rincari del petrolio.
Ragionamenti un po’ astratti per la famiglie italiane, che vedranno ulteriormente aumentare le spese a fine mese. Il rialzo dei tassi deciso dalla Bce produrrà infatti una stangata per le famiglie italiane che stanno pagando un mutuo a tasso variabile mediamente pari a 204 euro all’anno, cioè 17 euro al mese.
Il calcolo è del Codacons, secondo cui “l’aumento del tasso di riferimento e il conseguente aumento del costo dei mutui metterà in difficoltà con il pagamento delle rate almeno 30.000 famiglie che attualmente riescono a onorare ancora i loro debiti. E’ la fine di un periodo positivo per le famiglie che avevano contratto mutui a tasso variabile”. Per il Codacons, si tratta di “una misura che la Bce è stata costretta a prendere per colpa dei governi europei che non hanno preso misure antinflazionistiche di politica fiscale, demandando alla sola politica monetaria il controllo dei prezzi”. Quindi nulla di buono.
Ma se il debito delle famiglie si fa sempre più precario, è quello dello Stato che rappresenta la vera ossessione dei nostri governanti. "Gli operatori di tutto il mondo hanno verificato che non è mai venuta meno la volontà dello Stato di tenere sotto controllo il debito pubblico, anche nei frangenti più difficili", assicurava pochi mesi fa la dott.ssa Cannata in un'intervista. Mentre il Ministro Giulio Tremonti predicava ottimismo cercando di convincere l'Europa che la ricchezza privata degli italiani è una protezione sufficiente dall'alto debito pubblico, la Dottoressa Cannataa, matematica cinquantasettenne con un passato all'Istat, usava argomenti decisamente più persuasivi e pragmatici per rassicurare i mercati.
Come quelle famiglie prudenti che preferiscono il rassicurante mutuo a tasso fisso rispetto al pericoloso fascino della rata variabile, la Cannata ha allungato le scadenze dei nostri titoli pubblici, pagando quindi un sovrapprezzo (va da sé: più dura il prestito, più si paga d’interessi) ma evitando all'Italia gli psicodrammi di Spagna e Portogallo che si trovano a dover piazzare miliardi di euro sempre con il terrore della bancarotta.
"Abbiamo da anni la tendenza ad allungare la scadenza, attualmente di sette anni, e cerchiamo di allungarla ancora un po' approfittando degli attuali tassi estremamente bassi", spiegava a novembre ad Affari & Finanza. Che la finanza pubblica sia ormai argomento centrale nell’agenda politica lo si può anche dedurre dalle esternazioni del nostro infaticabile uomo della Provvidenza. Ad ogni conferenza stampa, infatti, il premier Silvio Berlusconi ha preso l'abitudine di parlare del peso del debito che vincola ogni politica economica, a cominciare dalla famosa "frustata" alla crescita di cui, a poco più di un mese dall'annuncio, si sono già perse le tracce.
Lontano dai riflettori, invece, il Dipartimento del Tesoro della Cannata ha quantificato il vincolo del debito alla fine di marzo con il programma di emissioni del secondo trimestre 2011: soltanto nel mese di aprile verranno offerti agli investitori titoli per 28 miliardi di euro, in tre diverse aste. Entro fine anno saranno scaduti - e dunque sostituiti da nuove emissioni - oltre 150 miliardi di euro.
A fine anno il Sole 24 Ore promuoveva con queste parole la gestione Cannata: "Assecondando realisticamente l'aumento dei rendimenti imposti negli scambi sul mercato secondario (il luogo dove sono trattati i titoli già in circolazione, che vi rimangono fino alla loro eventuale scadenza ndr) senza strapagare, è in grado di portare a casa la raccolta di fondi programmata anche in condizioni di mercato molto avverse". Insomma una che ci sa fare. Resta da capire se questo sarà abbastanza, visto che il messaggio del Consiglio Europeo di fine marzo è arrivato chiaro Tremonti: i paesi ad alto debito devono cominciare subito a ridurlo, anche oltre lo 0,5% annuo previsto dalle nuove regole.
Se il Ministro non manterrà gli impegni e la crescita non sarà all'altezza delle ottimistiche previsioni - un 2% di crescita annua dal 2012, condizione mai verificatasi neanche nell'Italia pre-crisi 2008 - il lavoro della Cannata non sarà più sufficiente a proteggere l'Italia. E per quel momento c'è da giurare che neanche i presunti e annunciati miracoli di Papi potranno evitare l'inevitabile.
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di Giuliano Luongo
Ormai è ufficiale: dopo Grecia ed Irlanda, il Portogallo é il terzo paese europeo a chiedere un bail out gigantesco - 75 miliardi di euro - per venir fuori da una situazione economica disastrata, raggiunta grazie al solito mix di politiche economico-finanziarie allegre. E’ d’obbligo riassumere in poche parole quali brillanti strategie governative abbiano portato sull’orlo della bancarotta il paese guidato dal governo del socialista José Socrates: il mix di crisi globale e crisi europea, sommato alla latente stagnazione dell’economia portoghese alla quale faceva eco una disoccupazione crescente, aveva costretto il governo ad adottare una sorta di “pacchetto per l’austerità”, come del resto andavano facendo altri governi europei.
Sulla base di un infame deficit del 9,4% (ricordando che il Patto di Stabilità e Crescita pone il tetto al 3%, “appena” sei e mezzo maledetti punti percentuali prima), a metà 2010 il governo puntava a migliorare la situazione grazie ad un mix di incremento della tassazione, riduzione dei servizi pubblici e tagli agli stipendi dei dipendenti statali: tutto ciò per ridurre questo iniquo valore numerico di 5 punti percentuali per la metà del 2011. In ogni caso, “misteriosamente” la spesa pubblica continuava a mantenersi alta, innescando un richiamo sia dall’Ecofin che dall’OCSE per rafforzare le misure restrittive: il governo sembrò ubbidire, andando però contro il 99% delle promesse elettorali.
A peggiorare la situazione della reputazione dell’Esecutivo contribuì un dettagliato report del quotidiano Diario de Noticias, che spiegava la “ricetta” della disastrata situazione economica nazionale, esplosa nell’ultimo triennio a causa della congiuntura internazionale: assunzioni statali fasulle e stipendi gonfiati, bolle speculative edilizie innescate da oscure connessioni tra settore pubblico e privato, gestione truffaldina dei fondi europei e, dulcis in fundo, ristrutturazione fallace delle finanze statali tramite erogazione di bond troppo onerosi.
Risultati? Un paese di fronte alla bancarotta che non potrà pagare i 9 miliardi di euro di bond che matureranno nei prossimi due mesi. Magra consolazione rimane la sfiducia verso Socrates, mentre si attende il suo sostituto che uscirà dalle elezioni del 5 giugno prossimo; senza dimenticare che gli ultimi tentativi di adottare misure restrittive sono sfumati a causa della mancata convergenza parlamentare.
L’avventura della richiesta del prestito di emergenza è iniziata il 7 aprile, quando il Ministro delle Finanze lusitano, Fernando Teixeira dos Santos, ha dichiarato di avere in agenda un incontro (l’8 aprile in Ungheria) con i vertici di 16 paesi comunitari per discutere dei dettagli del prestito stesso. Un passo necessario se non obbligatorio? A quanto pare sì, a voler prendere per buone le parole dello sfiduciatissimo (non solo metaforicamente) Socrates, che ha messo il suo paese nella tipica non felice situazione finanziaria di chi si trova prima ad erogare bond con interessi clamorosi, per poi a non avere i soldi per pagarli.
Il perché è presto detto: un titolo di stato lusitano decennale offre un interesse del 5,9%, di gran lunga più di quanto possa offrire un titolo trentennale dello Stato tedesco. In questa fase preliminare di richiesta di prestito, nodo cruciale della faccenda era l’ammontare del tasso d’interesse da applicare sulla restituzione del prestito. Una prima proiezione lo vedeva in potenza da definire sulla base di quello affibbiato agli amici ellenici, che si troveranno a pagare il 3,5% per i primi tre anni, e poi il 4,5% per i seguenti.
In ogni caso, il meeting di Budapest ha portato risultati in linea con le aspettative della vigilia. I Ministri delle Finanze europei si sono trovati d’accordo sulla necessità di supportare il Portogallo, decidendo d’inviare a Lisbona una commissione congiunta - composta da membri della Commissione Europea, della BCE e del Fondo Monetario Internazionale - allo scopo di negoziare l’accordo per il prestito entro il 16 maggio, tre settimane prima delle elezioni politiche portoghesi.
Le stime preliminari vedono l’ammontare del prestito a 80 miliardi di euro, da erogare a condizione che il Portogallo metta in pratica un pacchetto revisionato di misure economiche restrittive: dovrà essere garantita l’efficacia dei tagli alla spesa pubblica e, soprattutto, dovrà essere effettuata una forte deregulation finanziaria per facilitare la ripresa. Come nei precedenti bail out, il prestito sarà erogato per due terzi dell’Unione Europea e per un terzo dal Fondo Monetario Internazionale. Va notato come al desiderio di “velocità d’esecuzione” espresso dal numero 1 del Fondo Dominique Strauss-Kahn (“il Fondo è pronto a muoversi rapidamente”) fanno potenzialmente da controcanto le voci del Ministro delle Finanze francese Christine Lagarde (già alquanto scettica su tutti i negoziati) e della mitica cancelliera Angela Merkel, la cui posizione politica traballa sempre più: un ulteriore atto di supporto economico all’estero potrebbe innescare una dura reazione elettorale nei vari fronti conservatori e antieuropeisti del suo paese.
Sarà interessante notare anche come la classe politica portoghese prenderà l’onere di far passare una larga serie di misure restrittive altamente impopolari, per il lobbista più corrotto come per l’elettore medio. Secondo il Presidente portoghese Cavaco Silva sarebbe utile iniziare con delle misure “ad interim” (cioé non troppo dannose per i politici che le prendono ndr) per poi mollare la patata bollente al governo che uscirà vincitore a giugno. In ogni caso, dal 12 aprile Bruxelles ha già messo, i propri uomini in Portogallo per valutare le modalità dell’implementazione del pacchetto di misure e l’erogazione del prestito stesso. In questo frangente, come detto, bisognerà aspettare ancora qualche settimana per avere delle informazioni adeguate.
Eppure qualcosa già si muove, se spostiamo lo sguardo sui mercati limitrofi. L’invio di questo vistoso SOS da parte dei lusitani ha avuto un effetto positivo sui mercati europei delle obbligazioni di stato, facendo passare il messaggio che se il Portogallo riceve aiuto il contagio non si propagherà più di tanto (leggasi: non si propagherà alla Spagna ndr), aiutando il valore dei bond iberici in primis e di altri paesi comunitari, tra cui quelli tedeschi. Sarà, ma in ogni caso, anche dopo l’aiuto all’Irlanda il Portogallo si riteneva potenzialmente salvo, quindi francamente il preoccuparsi continua ad essere un’abitudine.
A voler avere un minimo d’occhio critico, infatti, basterà notare come il disastroso malgoverno portoghese non è pratica sconosciuta anche agli altri paesi europei mediterranei a rischio, com’è abitudine nota quella di sfruttare i bond per uscire dai guai. E’ quantomeno evidente che rassicurare il mondo economico sullo stato di salute delle casse statali degli altri paesi a rischio contagio è un tentativo per mantenere accettabile il valore delle obbligazioni di questi ultimi, onde evitare un quarto e quinto episodio di bail out: necessario per non annegare a breve, disastroso in lungo periodo, perché si fomenta un comportamento da truffatore da strada da parte dei governi. Per ora, comunque, non resta che attendere di vedere cosa - e come - sarà deciso sul Portogallo: la catena di eventi economici che scaturiranno da questi negoziati è ancora tutta da definire.