di Emanuela Pessina

BERLINO. Quest’anno Berlino e l’Europa si sono trovate a celebrare una Festa dei lavoratori particolare: dal primo maggio anche lo Stato federale tedesco, ultimo fra i Paesi membri della vecchia Unione Europea (UE), ha finalmente aperto le porte a cittadini e lavoratori di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria, gli Stati dell’Europa dell’Est che sono parte nominale dell’UE già da diversi anni seppur “con riserva”. E ora, nonostante l’effettivo ritardo rispetto a tutto il Vecchio continente, la Germania sembra ben preparata ad accogliere i parenti dell’Est: ma soprattutto, finalmente, l’EU 25 è valida per tutti a tutti gli effetti.

Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria sono formalmente entrati a far parte della comunità europea (assieme a Malta e Cipro) nel 2004 per quella che è considerata l’espansione EU più importante, il cosiddetto “Allargamento a Est”. Dall’Estonia all’Ungheria, i neo-Paesi EU hanno portato con sé più di 75 milioni di abitanti: esseri umani, tuttavia, che non hanno goduto da subito di una delle ricchezze fondamentali del cittadino europeo, e cioè della libertà assoluta di circolazione.

Temendo le conseguenze di un flusso incontrollato di forza lavoro, i 15 Stati già membri EU si sono di fatto riservati il diritto di regolare l’immigrazione proveniente dal nuovo Est targato EU a seconda delle proprie necessità. Per abituare il proprio mercato al cambiamento (e per non correre rischi), la vecchia Europa si è concessa sette anni di tempo durante i quali poter restringere legalmente l’eventuale immigrazione proveniente da Est. Esclusi da questa legislazione particolare Malta e Cipro che, alla luce della relativa forza economica di cui disponevano e tuttora dispongono, non hanno spaventato la vecchia Europa.

Differenti le risposte dei vari Stati del Vecchio continente: Gran Bretagna, Irlanda e Svezia hanno garantito da subito libero accesso ai lavoratori dei nuovi Paesi membri senza porre alcun limite, mentre Grecia, Spania, Portogallo e Finlandia hanno aperto a est soltanto due anni dopo, a maggio 2006. L’Italia, da parte sua, ha aperto a luglio 2006, sotto l’allora Governo Prodi, che ha eliminato il limite annuale di 170mila lavoratori accolti e si è adattato (almeno teoricamente) alle direttive EU. Gli altri Stati si sono accomodati a mano a mano fino al termine ultimo concesso dal trattato d'adesione firmato il 16 aprile 2003, e cioè il primo maggio attuale, cui si è appellata appunto la Germania.

La decisione di rimandare l’appuntamento tedesco con i cittadini dell’Europa a 25 Paesi risale al Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che nel 2004 ha deciso di risparmiare all’economia tedesca la concorrenza della manodopera a buon mercato proveniente dai Paesi dell’Est alla luce dell’alta percentuale di disoccupazione in territorio tedesco. Per la Germania, la mancanza d'impiego era allora una vera e propria piaga: basti pensare che nell’ex- Repubblica Democratica Tedesca (RDT), a contatto diretto con i neo Paesi dell’EU a 25, i disoccupati raggiungevano il 19% della popolazione, per un totale di 5 milioni di unità nello Stato federale. Data l’immediata vicinanza e la recente storia particolare della Germania, Schroeder ha preferito non correre rischi.

Una scelta controversa, quella di Schroeder che, tuttavia, permette alla Germania di raccogliere buoni frutti. Perché ora le condizioni del mercato del lavoro tedesco sono cambiate e, nonostante il solito scetticismo dell’ala più conservatrice della politica, gli scenari che si prospettano sono ampiamente positivi. Per il momento, l’economia tedesca registra una robusta crescita e già da qualche tempo la Germania segnala una forte necessità di manodopera qualificata.

Alcuni economisti temono addirittura che l’eventuale flusso di cittadini dall’ex- blocco oltre-Cortina non sarà sufficiente a soddisfare la fame di forza lavoro della Repubblica federale teutonica. Senza contare che tanti giovani si sono già trasferiti altrove, e cioè in quei Paesi che hanno aperto da anni la loro economia alla nuova Europa: nel solo 2004 sono oltre due milioni i polacchi che si sono spostati in gran Bretagna e Irlanda in cerca di una carriera.

Il Governo tedesco conta che, annualmente, entreranno in Germania tra i 50 e i 150mila lavoratori provenienti dai nuovi Stati dell’EU a 25. L’Istituto per l’Economia tedesca di Colonia (Germania del Sud), invece, prospetta l’ingresso di ben 800mila immigrati nei due anni a venire, per un massimo di 1,2 milioni entro il 2020. Le stime rimangono comunque poco indicative, alla luce dell’esperienza della Gran Bretagna, uno dei primi Paesi ad aver aperto all’Europa del futuro: qui i lavoratori provenienti dai nuovi Paesi EU sono stati 15 volte le stime iniziali del Governo.

Attualmente in Germania vivono 425mila cittadini provenienti dall’Europa dell’est, 315mila dalla Polonia. Al primo posto tra gli immigrati comunitari stanno comunque gli italiani, con 365mila unità, secondi solo ai turchi, che invece superano il milione. Se l’apertura di quest’ulteriore confine verso est porterà dei cambiamenti alla benestante Germania, rimane tutto da vedere. Certo, il mercato del lavoro tedesco dovrà adattarsi. Il rischio maggiore è quello di uno sfruttamento dei nuovi lavoratori che provengono da Paesi in cui gli stipendi sono meno della metà rispetto a quelli tedeschi: c’è già chi avverte l’esigenza di alzare la retribuzione minima, così da garantire uno sviluppo in positivo (e non sommerso) della nuova forza lavoro.

Ma l’incubo maggiore, per il momento, rimane quello delle grandi industrie tedesche (e non) che hanno scelto di piantare i loro stabilimenti nei Paesi dell’est perché la manodopera costa meno. Alla luce dell’apertura delle ultime frontiere, l’urgente bisogno di decine di migliaia di lavoratori qualificati in Germania suona per loro (e per i loro stipendi da fame) come una grossa, grassa minaccia.  

 

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