di Ilvio Pannullo

La notizia del declassamento del debito americano ad opera dell’agenzia di rating Standard & Poor’s corre veloce per tutte le Borse valori del mondo e produce inevitabilmente sconvolgimenti e riassetti. Sul fronte valutario l’euro, all’apertura dei mercati Usa, viaggia oramai spedito, centrando i suoi valori massimi da 15 mesi ad oggi contro la valuta statunitense, a  1,45 dollari.

A spingere la divisa europea, oltre al colpo basso subito dal dollaro ad opera dell’agenzia americana, il buon esito dell’asta sui titoli di Stato iberici e dati macroeconomici sopra le attese. Non mancano, inoltre, le voci di un nuovo rialzo del Tasso Ufficiale di Sconto prima dell’estate.

L’inflazione continua a tormentare il sonno del Governatore della Banca Centrale Europea Trichet, per cui non si esclude un ritocco di altri 0,25 punti base. Le conseguenze saranno le stesse di sempre: da una parte, la gioia dei ricchi intestatari di conti correnti a sei cifre, che vedranno aumentare gli interessi che le banche dove hanno depositato le proprie ricchezze gli dovranno accreditare; dall’altra, la paura delle famiglie con un mutuo a tasso variabile, che dovranno sopportare costi sempre maggiori per raggiungere il tanto agognato sogno di una casa di proprietà.

Con il biglietto verde che si sgonfia tornano intanto a respirare le commodities, dal grano al rame passando per il ferro, mentre il petrolio, unica copertura reale al valore nominale del dollaro, segna un rialzo del 2,47% a 110,95 dollari al barile. Il periodo è di quelli febbricitanti per gli investitori che nel vedere la prima potenza mondiale presa a schiaffi da una sua agenzia di rating, sicuramente avranno pensato a strategie alternative per i loro portafogli titoli. Donde la quotazione dell’oro ancora sui massimi storici sopra i 1.500 dollari l’oncia.

Tornando all’euro, la situazione rimane ancora molto confusa. La crisi dei paesi periferici - quei “maiali” europei tra cui viene conteggiato anche il nostro pese - potrebbe continuare a tormentare la valuta, anche alla luce dell’ipotesi di ristrutturazione del debito della Grecia. Il tutto mentre nel frattempo la Grecia intera va a fuoco. Ma non è solo Atene a preoccupare.

Recentissimamente la LCH.Clearnet -  il principale gruppo indipendente di stanze di compensazione, che serve il  maggior numero di scambi internazionali e piattaforme d’investimento, oltre ad una serie di mercati “Over The Counter” - ha innalzato al 25% dal precedente 15% la posizione netta del margine richiesto sulla negoziazione di titoli di Stato portoghesi.

Un modo deciso per segnalare come sia sempre più pericoloso un simile investimento. Il Paese lusitano potrebbe infatti chiedere aiuti al Fondo Monetario Internazionale, per circa 80 miliardi di euro. Sarebbe il terzo Paese dopo Grecia e Irlanda. Lo stesso Trichet si è mostrato più volte disponibile ad accettare proposte di aiuti. I titoli di Stato portoghesi con scadenza decennale offrono un rendimento del 9,65%. Nella sostanza: una follia per chiunque, una buona occasione per speculare per sciacalli e sicari dell’economia.

Se dal punto di vista strettamente economico abbiamo dunque un’eurozona che, nonostante la pessima condizione di alcune economie interne, viene puntellata dall’esterno dalla caduta del dollaro, dal punto di vista politico la situazione sicuramente non può essere definita felice. Appare infatti molto preoccupante lo spettro neofascista che si aggira per l’Europa. Solo recentemente si è avuta, da una parte, l’approvazione in Ungheria di una Costituzione ultrareazionaria; dall’altra, l’esito preoccupante delle elezioni in Finlandia con l’avanzata dei partiti populisti, xenofobi ed euroscettici. Se il carovita erode il potere d’acquisto della classe media, quanto sta accadendo sulla sponda sud del Mediterraneo con masse di disperati che scappano dalla guerra e dalle repressioni - il tutto sapientemente strumentalizzato dalle destre più o meno moderate - sta riaccendendo paure e rabbie che si speravano spente per sempre.

Quanto accaduto recentemente in uno dei civilissimi - e tradizionalmente socialdemocratici - paesi scandinavi deve infatti far riflettere chi, in Europa, ha a cuore gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. A delineare gli scenari interni e internazionali è stato l’analista politico dell’università di Helsinki, Jan Sundberg, secondo quanto riportato dal quotidiano della City londinese, il Financial Times: “Noi - dice Sundberg - abbiamo avuto la nostra crisi agli inizi degli anni Novanta e ne siamo usciti da soli, senza aiuti esterni, quindi la gente si chiede perché adesso che i Paesi dell’Europa meridionale sono in difficoltà debba pagare”. Insomma, ognuno per sé e Dio per tutti.

Ma se la crisi dell’Eurozona ha catalizzato la campagna elettorale, dietro l’avanzata dei populisti vi sarebbero cause più profonde, legate all’andamento dell’economia. Il settore manifatturiero finlandese, uno dei più forti d’Europa, è in difficoltà, mentre la ristrutturazione Nokia, prima compagnia nazionale, provocherà la perdita di migliaia di posti di lavoro. Si pensi, in Italia, al caso Fiat-Chrysler e in Francia e Germania alle strategie di acquisizione e riposizionamento dei grandi gruppi industriali.

I nomi sono diversi, ma i problemi e le soluzioni sul tavolo appaiono identici. Intanto un possibile accordo che sposti l’asse politico finlandese a destra preoccupa Bruxelles, che teme un’opposizione dei partiti conservatori e nazionalisti agli aiuti per scongiurare la bancarotta sul debito sovrano. Mancando nei fatti un’Europa politica, e cioè una credibilità europea, le destre nazionaliste hanno gioco facile nell’incalzare il malumore popolare, accusando l’usurocrazia e la logica elitaria che domina le istituzioni comunitarie.

Per non trovarsi impreparata davanti a questo rischio l’Unione europea avrebbe cominciato a valutare un piano di emergenza nel caso in cui Helsinki decidesse di non partecipare al piano per il salvataggio del Portogallo, che dovrebbe essere approvato al Consiglio Ecofin di maggio. A differenza di altri Paesi dell’Unione, il Parlamento finlandese ha infatti il diritto di votare il contributo nazionale agli aiuti europei, dando in questo modo all’Assemblea poteri di veto de facto. Un modo per dire che solo in alcuni paesi - quelli oggettivamente più democratici - i popoli  hanno la libertà di esprimersi su qualsiasi atto del governo, indipendentemente dalle conseguenze che questo potrebbe comportare.

Il nostro continente è dunque davanti ad un bivio, forse il più importante della sua storia: o diventare grande, decidendo di assumersi il peso delle conseguenze delle sue libere scelte, ponendo una volta per tutte il principio politico in capo alla struttura istituzionale, o crollare disgregandosi, se continuerà a prendere le sue decisioni guardando solo alla dimensione economica, necessariamente dipendente dagli interessi dei singoli Stati nazionali.

 

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